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VIDEO VERTICALI

Potremmo iniziare questa sintetica disamina con un’ipotetica legge. Sono gli strumenti, oltre gli scopi, a determinare le modalità di utilizzo che si consolidano nel tempo. Il risultato è una procedura, fatta di regole e convenzioni, che potremmo chiamare anche linguaggio. Con questa premessa si può partire verso una prima comprensione di genesi e utilizzi del video verticale che può partire, inevitabilmente, dal formato orizzontale. Il formato 4/3 nasce con la pellicola fotografica. Già con i caricatori a rullo in celluloide di Eastman, il  formato che si impone è quello che si riscontra nelle Kodak. I fratelli Lumière, infatti, approdano naturalmente a questo formato per i loro primi film .

Se la scelta del formato orizzontale potrebbe essere frutto del caso, il suo uso si consolida perché consente di avere più elementi nell’inquadratura, soprattutto le figure umane. Ma, soprattutto, perché noi ci muoviamo lungo linee parallele al piano (al contrario di pesci ed uccelli). Nel primo cinema-teatro rappresentato dalle comiche, le entrate e le uscite dei personaggi, il posizionamento degli elementi significativi fuori campo sono prevalentemente lungo la linea orizzontale . L’uso determina, in base alla legge generale, lo sviluppo del linguaggio, sviluppatori e raffinatosi nel tempo.

Il video verticale nasce come conseguenza della “legge generale”: lo strumento che lo genera è lo smartphone che, dato che si impugna come un telefono e che le fotocamere che li equipaggiano sono impiegabili tanto in orizzontale quanto in verticale (seguendo la funzione mutuata dalle macchine fotografiche e, prima, dalla forma delle tele dei pittori), essi conservano questa possibilità anche nella modalità video. Quindi, mentre il formato orizzontale si genera dagli addetti ai lavori (fotografi e cineasti) per arrivare ai consumatori, il video verticale fa il percorso inverso.

I social network hanno introdotto presso il grande pubblico la prassi del video verticale. Gli utilizzatori degli smartphone hanno sfruttato la possibilità di postare sui social i loro video ma, non avendo un background cinetelevisivo, hanno usato l’apparecchio secondo l’ergonomia più semplice, creando un uso ponderoso dei video verticali. A tutte le entità che si occupano di video non è rimasto che adeguarsi: software di montaggio, produttori di accessori, siti di streaming. Tutti si sono visti costretti a inseguire questa nuova modalità. Dato che l’utilizzo principale del video verticale è stato quello partecipativo e condivisivo determinato dai social (selfie, ritratti in generale, videochiamate), appare evidente che la figura umana diventa cardine dei video, consolidando nel tempo una grammatica e una sintassi che perde la dimensione orizzontale.

L’origine sociale del video verticale può essere spia degli impieghi ottimali delle riprese in verticale. Tutti i video che riguardano la figura umana ottengono una buona fruibilità. La qualità (non tecnica, bensì linguistica) comincia a decadere quando le figure umane cominciano a muoversi nello spazio. Proprio perché esse di muovono secondo direttrici orizzontali, il video in verticale rende più difficoltosa e meno descrittiva la ripresa di eventi in cui occorre una visuale più ampia per comprendere ciò che accade nella scena. Parimenti, aumenta la difficoltà a gestire le componenti verbali (grafiche e scritte) proprio perché esse si sviluppano in orizzontale.

Naturalmente, in molti hanno provato a sviluppare dei prodotti di livello professionale in forma verticale. In rete troviamo, oltre i video di emanazione del sé (quelli in cui si riprende se stessi o persone del proprio mondo), sono stati prodotti spot pubblicitari, video di informazione, qualche cortometraggio con ovvia nascita di rassegne e premi per i video in verticale. Forse, l’ambito in cui i video verticali hanno trovato la funzione ottimale è quella destinata ai monitor posizionati nelle vetrine dei negozi.

L’influenza sul linguaggio del video ergonomico da smartphone ha assunto forme e dimensioni paragonabili ad un dialetto, ovvero di forme d’espressione che privilegiano l’immediatezza della comunicazione a discapito della correttezza. Sono forme “sporche”, più vicine alla lingua orale e colloquiale che a quella scritta e formale. D’altra parte, considerando che il contesto plasma la funzione della comunicazione, il fatto che questi video finiscano tutti nel circuito social (sia di streaming come Youtube o TikTok, sia della messaggistica come Whatsapp o Telegram) rende superfluo il montaggio. I software di editing per video verticali esistono ma sono ampiamente sottoutilizzati dalla massa degli utenti.

Tutti i generatori di video in rete, qualunque essi siano, spesso ormai hanno il problema di dover conciliare in un unico prodotto le clip generate nei due orientamenti. Ecco che il problema è stato risulto attraverso il riempimento delle zone che altrimenti sarebbero vuote con la manipolazione dell’immagine originale, opportunamente tagliata e sfuocata, così di richiamare colori e movimenti dell’originale senza averne la stessa intellegibilità, quindi riducendo al minimo l’interferenza sui processi dell’attenzione.

Il video in verticale, dunque, è frutto della tecnologia ed ha goduto di un successo antropologico più che linguistico. È probabile che, in futuro, rimarrà in uso soprattutto negli ambienti in cui è nato, ovvero i social. Probabilmente si aggiungerà a tutto il panorama delle possibilità espressive consentite dalla tecnologia, ma con ambiti ristretti, come già accaduto per il 3D.

DIETRO IL MARKETING DEL PORNO

Si sa che il mercato del porno muove cifre incomparabili con tutto il resto del mondo audiovisivo, secondo solo ai videogiochi . Si sa, anche, che ormai la componente principale del porno sono i video. Il marketing, però, è in costante movimento ed uno dei principali siti web di pornografia, Pornohub, ha realizzato questo video in cui lancia un nuovo prodotto, ovvero un account in abbonamento per e coppie.

È interessante notare gli aspetti stilistici scelti per questo video promozionale. La musica è il classico tappeto, allegrotta ma non ingombrante. La scelta dei testimonial è interessante e testimonia il dosaggio nella rappresentazione del target. Coppie, dunque, etero bianche (due coppie), etero nere, gay e lesbiche, tutte sorridenti e di spirito.

Questo video e questa iniziativa commerciale testimoniano come ormai il porno stia uscendo dalla clandestinità morale e acquisti progressivamente una sua collocazione nella società. Chi di voi vuole verificare ed esplora uno di questi portali del porno, si accorge che foto e video arrivano da ogni parte del pianeta. E non si tratta solo di finzioni da set, bensì una larga parte è costituita da video amatoriali, fatti con smartphone o camcorder consumer.

Il cortocircuito creato dalla diffusione dell’accesso alla rete e dalla capacità di realizzare immagini per chiunque, ha portato gli utenti del porno a diventare attori dello stesso mercato fornendo, per di più, materiale gratuito per questi hub. Soprattutto questa partecipazione ha permesso un forte senso di partecipazione e identificazione. Molto probabilmente, che possa piacere o meno, questo fenomeno influenzerà sicuramente la percezione del sesso in vasti settori della popolazione mondiale. E l’amore? L’amore non fa parte del mondo del porno e rimane una dimensione privata.

SIAMO TUTTI IN ORBITING DI QUALCUNO

Qualche giorno fa mi è capitato di leggere l’articolo dell’ottima collega Giorgia Lauro che riferiva di quanto ipotizzava Anna Iovine  – in un suo articolo –  su un fenomeno particolarmente evidente nel mondo delle “relazioni social”, ovvero l’orbiting. Per definirlo userò esattamente quanto letto nell’articolo: “un fenomeno in cui una persona interrompe tutte le comunicazione dirette e significative, ma continua a interagire tramite i social (…) non commenta le vostre foto o invia un messaggio, ma guarda tutte le vostre Instagram Stories, condivide i vostri tweet, guarda le vostre foto su Facebook esprimendo un “like”, nel tentativo di mantenere un’interazione seppur superficiale“.

Questo articolo mi ha innescato un paio di considerazioni. La prima è che i social network favoriscono questa forma di “interazione debole“, in cui possiamo mantenere una partecipazione defilata, evitando il face-to-face che implica il coraggio-responsabilità di guardarsi. Chi non avrebbe mai espresso apertamente un gradimento ora può avere questa forma ibrida e “autorizzabile” dal nostro censore interno. La seconda considerazione è che, in fondo, noi abbiamo sempre praticato qualche forma di orbiting. Quando da ragazzi si finiva una storia, una relazione, magari si continuava a chiedere ad amici comuni cosa facesse e come stava l’ex partner; oppure si tornava davanti scuola per poterlo/la vedere ancora di nascosto. La tecnologia ha solo facilitato quello che probabilmente è una tendenza che c’è sempre stata. In fondo, i social media hanno stimolato e ingigantito quella dimensione narcisistica di base presente in ognuno di noi e che, in questo trend crescente di “emanazione del Sé“, viene frullata e centrifugata verso gli altri in modo indistinto.

Ecco perché si riesce più facilmente a rimanere in orbiting e  – senza darle necessariamente una connotazione negativa –  godere di questa interazione debole che potrebbe essere tanto una forma di micro-apprezzamenti, quanto una forma di micro-invidia. Dipende, come tutte le cose umane.

IL CAPITALISMO NON È ETICO, MA IPOCRITA. L’IMPOSSIBILE PASSAGGIO DALL’ETICA ALLA PUBBLICITA’

Che titolone! Adesso Paolillo si mette a fare politica da radical-chic. Mmmmmh, brutta storia. Si, potrebbe sembrare così, ma forse è il caso che procediate alla lettura di questo post. Avvertenza: sarò inevitabilmente costretto a semplificare drasticamente.

La mia riflessione prende avvio da un articolo apparso su The Vision  dal titolo provocatorio “È giusto che i brand usino le battaglie sociali per farsi pubblicità?“. Prima di addentrami in alcune affermazioni contenute nell’articolo, mi soffermo su alcune particolarità già presenti nel titolo. La prima precisazione è che non sono i brand a fare pubblicità, ma sono le aziende. I brand (in italiano “marchi”) sono i beneficiari della pubblicità. La seconda precisazione è che il dubbio contenuto sul titolo contiene una dimensione etica, una dimensione che presuppone un comportamento “giusto” e uno “sbagliato”. Questa considerazione pecca di ingenuità ed ora illustro il perché.

Un’azienda che decide di ricorrere alla pubblicità per aumentare le vendite mira, semplicemente, ad ottenere il miglior profitto possibile. Al contrario del “guadagno“, che è solo il ricavo al netto delle spese, il profitto intende una spinta a guadagnare il più possibile, sempre. Tanto che il termine “profitto“, che dalla matrice latina prende il senso di progresso/giovamento, indica una condizione ancor prima che un guadagno.

Il profitto nel nostro tempo è uno degli indicatori di un più complesso sistema economico basato sulla proprietà privata: il famigerato Capitalismo! Per un imprenditore-tipo ai tempi del capitalismo, il profitto è l’unico faro e, nei casi di capitalismo “selvaggio” (liberale), si è disposti a qualsiasi cosa pur di ottenere il profitto, quello più ampio possibile.

Per tutte queste ragioni appare proprio ingenuo che qualcuno si chieda se sia giusto usare le battaglie sociali per farsi pubblicità (quindi profitto). Si usa qualsiasi emozione, concetto, fenomeno, posizione sociale, affermazione, se questa porta ad aumentare le vendite e, quindi, il profitto. Che ci piaccia o meno.

SPOT SOCIALI

Lo spot pubblicitario è una delle forme più sofisticate di comunicazione audiovisiva. La necessità di coniugare rapidità ed efficacia nella comunicazione rende questa forma di video particolarmente difficile. Questa complessità, che poi determina la forma finale, dipende dagli scopi e dalle strategie di diffusione degli spot. Generalmente, gli spot sociali sono una parte di una campagna più ampia e rappresentano lo strumento destinato a raggiungere la massa più ampia di persone.

Le campagne sociali – quindi anche gli spot – avrebbero lo scopo di indurre un cambiamento di un dato comportamento nelle persone. Comportamenti che riguardano tanto i comportamenti autolesionisti (droga, aids, incidenti, alcool…), quanto i comportamenti prosociali (volontariato, raccolte fondi, donazione organi…). In teoria, esse sono sostanzialmente una “comunicazione persuasoria su idee e tematiche di interesse pubblico, volta ad accrescere e valorizzare il capitale sociale di un paese, a favorire la crescita della società civile intorno a valori condivisi e condivisibili in prospettiva universalistica (…) Non vi è dubbio che il successo della comunicazione dipenda dalla condivisione di un “mondo comune” di valori e di significati, dall’osservanza di un insieme di regole sociali che sempre governano la comunicazione” [Gadotti-Bernocchi; 2010]. Anche il presidente della famigerata istituzione di Pubblicità Progresso afferma “ La pubblicità sociale ha lo scopo di affrontare questioni di grande importanza civile, coinvolgendo il pubblico di riferimento per indurlo a riflettere sulle tematiche affrontate. L’obiettivo di questo genere di pubblicità non consiste semplicemente nell’invitare a riflettere, ma anche nella spinta a mettere in atto determinati comportamenti” [www.pubblicitaprogresso.org].

Obiettivi ambiziosi, quindi.

La domanda fondamentale è: può un prodotto audiovisivo modificare un comportamento? Generalmente no. Infatti, non sono pochi gli studi che pongono molti dubbi all’efficacia di queste campagne tanto da sottolineare come “in una società decomposta nei continui sviluppi della modernità non si debba escludere che  – al di là delle stesse intenzioni –  la comunicazione sociale possa produrre, anziché inclusione e solidarietà, esclusione e divisione” [ibidem]. La ragione è semplice da capire se, come invece accade di partire dalle intenzioni persuasorie di chi fa queste campagne, si parte dalle motivazioni dei comportamenti stigmatizzati. Per quali ragioni si fa uso di droga? Cosa può controbilanciare queste spinte autolesioniste? O anche cosa spinge all’anoressia, gli incidenti stradali, il gioco d’azzardo? O, ancora, come si può affrontare una campagna contro l’omofobia o l’antisemitismo se non si conoscono le ragioni psichiche che li generano? Se non si compie una seria analisi preventiva su questi aspetti, ci saranno molte possibilità che la campagna sociale si trasformi in danaro sprecato. A titolo di esempio di campagna risultata inutile potete guardare questo spot sulla guida in stato di ebbrezza che ripercorre gli argomenti standard in questi tipi di spot, commissionato dalle province di Pesaro e Urbino.

Raramente ne viene ricordato uno e, tanto meno, ha inciso nei comportamenti. Hanno influito molto di più le sanzioni pesanti in caso di guida sotto l’influsso dell’alcool perché la possibilità di perdere (soprattutto nei neo patentati) la patente presa da poco era una dissuasione che agiva direttamente sulle motivazioni, andando ad equilibrare la spinta dei comportamenti di emulazione tra pari.

Come è facile immaginare, dietro la denominazione “spot sociale” esistono una varietà di comportamenti diversi che essi cercano di sollecitare e vari sono i linguaggi a cui fare ricorso per provare a innescare i comportamenti desiderati. Gadotti e Bernocchi ne identificano ben otto

  • sentimentale-commuovente-patetico
  • drammatico-violento-scioccante
  • aggressivo-accusatorio-di denuncia
  • rassicurante-gratificante-positivo
  • divertente-umoristico-ironico
  • provocatorio-irriverente-trasgressivo
  • informativo-descrittivo-documentaristico

Questa classificazione, pur se ampia, non permette di capire come vengano realmente costruiti questi spot, tanto deliberatamente quanto inconsapevolmente perché mancano le dimensioni psicologiche. Proviamo ad elencarne qualcuna.

 

Colpevolizzare. È l’emozione più ricercata perché quella più forte da parte di chi vuole il cambiamento. Smettere di fumare, guidare più piano, non usare droghe, non lasciar morire i poveri, sono tra le colpe che la motivazione intimidatoria cerca di indurre. Genera concordia in chi non ha i comportamenti stigmatizzati ma viene rifiutato (in vari modi) da chi è soggetto. Vedi un esempio

Identificare. Il motto potrebbe essere “mettiti nei suoi panni” e rappresenta uno dei particolari meccanismi della psiche per indurre l’imitazione, puntando all’empatia di chi vede lo spot rispetto alle vicende rappresentate dai personaggi nello spot stesso. Vedi un esempio.

Positivizzare. Provare a dare una valenza “anche positiva” a qualcosa che viene vissuta con repulsione o diffidenza è una delle forme emozionale che può avvicinare a situazioni da cui le persone rifuggono, come i disabili, gli immigrati, i nomadi. Vedi un esempio.

Ridicolizzare. Smontare il fascino che esercitano alcune condotte molto apprezzate in ambienti omogenei  – come quello degli adolescenti –  mira a far resistere alla tentazione in quelli che vorrebbero farlo ma non osano. Non funziona con chi ha già simili comportamenti. Vedi un esempio.

Informare. Questo spot, non avendo l’assertività tipica di chi cerca di cambiare un comportamento, lascia agli utenti la possibilità di scegliere, quindi  non mette in moto i meccanismi di difesa/aiuto che le persone mettono abitualmente in azione nei confronti degli spot pubblicitari. Vedi un esempio.

Cavalli di Troia. Quando, con accostamento psicologicamente truffaldino, un’azienda avvicina un tema sociale al proprio marchio. E’ un’operazione di marketing brutale che risulta efficace al “sentiment” di un brand, ovvero all’etichetta emozionale che si vuole dare al marchio di un’azienda. Vedi un esempio.

 

Uno degli aspetti che depotenzia gli spot sociali è che essi non tengono conto delle naturali difese psicologiche che mettono in atto gli autori dei comportamenti stigmatizzati. Chi beve troppo alcool, o guida pericolosamente, o consuma droghe, o gioca alle slot machine, ha già fatto un lavoro su se stesso di depotenziamento della responsabilità, quindi sarà poco incline a credere a simili messaggi pubblicitari. Quando le persone vengono messe di fronte ad un proprio dolore mettono in modo vari comportamenti per non soffrire. Eccone alcuni.

Annullamento: si mettono in atto pensieri e comportamenti dal significato opposto ed ha un significato espiatorio.

Diniego: si rifiuta di riconoscere esperienze penose, impulsi, dati di realtà o aspetti di sé o del mondo percettivo.

Isolamento: consiste nell’isolare un pensiero o un’esperienza sgradevole dalla carica affettiva a essi connessa o dal contesto significativo in cui sono inseriti.

Negazione: consiste in una rimozione dei contenuti che sono fonte di dolore così che possano accedere alla coscienza alla sola condizione di essere negati (in questo caso la persone è assolutamente inconsapevole di questa difesa).

Proiezione: realizzata attraverso l’attribuzione ad atri di un proprio aspetto ritenuto negativo, per cui la persona può biasimarlo in altri sentendosene immune.

Rimozione: è un’esclusione dalla coscienza di rappresentazioni connesse a una pulsione che, se fosse soddisfatta, sarebbe in contrasto con alte esigenze psichiche.

Evitamento: è la forma più arcaica di difesa, ovvero evitare letteralmente la fonte di dolore. Cambiare canale. Andarsene.

 

La pubblicità sociale è una tra le possibili forme pubblicitarie ed è una forma di comunicazione persuasuoria. Al contrario di quella commerciale, deve “vendere” un modello di comportamento e non un prodotto o un servizio. Entra direttamente col mondo relazionale di chi la guarda e, quindi, ha molte probabilità di ritrovarsi la tre maglie della rete difensiva dei destinatari del messaggio. Oppure di generare effetti collaterali nelle persone che non sono il target ma che subiscono il messaggio indifferenziato di questo tipo di comunicazione. Per questa ragione, oltre che ad una seria analisi psicologica del messaggio, del linguaggio filmico e delle forme di diffusione, bisogna costruire le condizioni perché il messaggio sia accettato. Come sottolinea Robert Cialdini, uno dei massimi studiosi della persuasione, “oltre a porre l’attenzione al contenuto di un messaggio, dobbiamo concentrarci anche su ciò che accade immediatamente prima della trasmissione del messaggio, perché quel momento serve da acceleratore al nostro messaggio” [Cialdini in Psicologia Contemporanea n. 261].

Per finire, vi mostro uno spot che, a mio parere, contiene gli elementi adatti per costituire un esempio positivo di un comportamento adatto ad una comunicazione sociale.

IL POZZO DI WHATSAPP

Questa storia racconta del livello di dipendenza sociale che hanno raggiunto alcuni presidi del web e di quanto si venga messi di fronte a delle scelte che erodono pezzetti (grandi o microscopici) di dignità. Per potervi esporre la morale vi devo raccontare la storia.

 

“Un potente stregone, con l’intento di distruggere un regno, versò una pozione magica nel pozzo dove bevevano tutti i sudditi. Chiunque avesse toccato quell’acqua, sarebbe diventato matto.

il-pozzo-del-villaggio-col-castelloIl mattino seguente l’intera popolazione andò al pozzo per bere. Tutti impazzirono, tranne il re, che possedeva un pozzo privato per sé e per la famiglia, al quale lo stregone non era riuscito ad arrivare. Preoccupato, il sovrano tentò di esercitare la propria autorità sulla popolazione, promulgando una serie di leggi per la sicurezza e la salute pubblica. I poliziotti e gli ispettori, che avevano bevuto l’acqua avvelenata, trovarono assurde le decisioni reali e decisero di non rispettarle. Quando gli abitanti del regno appresero il testo del decreto, si convinsero che il sovrano fosse impazzito, e che pertanto ordinasse cose prive di senso. Urlando si recarono al castello chiedendo l’abdicazione. Disperato, il re si dichiarò pronto a lasciare il trono, ma la regina glielo impedì, suggerendogli: – Andiamo alla fonte, e beviamo quell’acqua. In tal modo saremo uguali a loro – . E così fecero: il re e la regina bevvero l’acqua della follia e presero immediatamente a dire cose prive di senso. Nel frattempo, i sudditi si pentirono: adesso che il re dimostrava tanta saggezza, perché non consentirgli di continuare a governare?

 

Dobbiamo questa parabola a Paulo Coelho ed è maledettamente pertinente ed attinente a whatsapp. Ora vi spiego perché.

 

Poco più di un mese fa mi appare un messaggio dell’app Whatsapp che mi annuncia che la società proprietaria del software avrebbe proceduto ad una variazione unilaterale delle condizioni del contratto. Il numero di telefono del mio smartphone si sarebbe integrato con le attività di Facebook. Da due anni, infatti, la società detentrice di Whatsapp era stata comprata da quella di Zuckemberg che ha speso la cifra iperbolica di 19 miliardi di dollari!! Non credo che si spendano cifre simili senza pensare di guadagnarne di più. Da dove escono questi soldi? Ci spiega Giovanni Ruggiero su liberoquotidiano.itle aziende che ne faranno richiesta, dietro lauto pagamento, potranno contattarvi anche su Whatsapp per proporvi i loro prodotti. Che si tratti di un’offerta imperdibile dal supermercato vicino casa o di una banca pronta a farvi diventare ricchi se aprite un conto online da loro, solo il tempo potrà dircelo. La funzione di condivisione è già attiva in automatico, sempre nell’ottica di renderci le cose più semplici possibili. E non abbiamo neanche tante scuse, perché nell’aggiornamento della policy della app tutto questo c’era scritto“. Siamo merce di scambio e di guadagno. Semplicemente. E veniamo a me.

 

Non mi sono mai piaciute le modifiche unilaterali dei contratti (le banche lo fanno sistematicamente e con notevole spocchia) perché contengono l’implicito disprezzo per la correttezza di una relazione: è come se dicesse “faccio come mi pare e la parola data vale solo per te”. Un atteggiamento che infastidirebbe chiunque. Ma se a farvelo è l’app che tutti usano e che è entrata a far parte della vita quotidiana popolo-di-whatsappdi tutti, allora diventa un atto donchichottesco resistervi. Io ci ho provato. Ho resistito una settimana, poi sono andato a bere al pozzo del villaggio, quello che usano tutti i sudditi che sono stati rapiti dalla follia. Ora sono tornato “normale” e di nuovo nel gregge, libero di dialogare di nuovo col popolo del villaggio. Con un pizzico di dignità in meno.

UNO SPOT DI POLIZIA

Da pochi giorni è stato pubblicato su Youtube il primo spot della Polizia di Stato intitolato “Chiamateci sempre”. L’oggetto del video sono le truffe che d’estate vengono realizzate ai danni degli anziani che rimangono soli nelle loro case. Testimonial in voce è stato Gianni Ippoliti, noto personaggio televisivo, che invita a chiamare la Polizia in ogni caso sospetto. Un’iniziativa volenterosa che però, nei modi in cui è stata realizzata, lascia molte perplessità sulla reale efficacia. Proviamo ad analizzarlo cominciando dal testo del parlato.
vlcsnap-2016-08-04-13h18m57s961D’estate c’è chi non va mai in vacanza, anzi, è in piena attività. Sono i truffatori! Si presentano a casa vostra come appartenenti alle forze dell’ordine o per controlli su acqua, luce e gas. O per consegnare pacchi truffa. Non siete soli! Chiamateci sempre“. In coda una grafica con lo stemma e scritta Polizia di Stato e #essercisempre.
La prima considerazione da fare è sui destinatari dello spot (di durata 30”). E’ evidente che si tratta della popolazione di anziani, quindi persone ultrasessantenni. Da questo derivano le prime due perplessità. Lo spot in questione è stato caricato su Youtube, sul canale della Polizia di Stato ed è stato condiviso da alcune testate. La domanda è: qual è la percentuale di ultrasessantenni che sta su internet e potrebbe vedere uno spot in rete? Secondo alcuni solo il 2,5% degli ultrasessantacinquenni. Poca roba. Soprattutto se teniamo conto che gli anziani più esposti a questo tipo di truffe sono quelli che vivono in solitudine, quindi che non navigano in rete. Altra considerazione, sullo stesso tenore della prima, è che l’aggiunta finale dell’hashtag #essercisempre è assolutamente ininfluente sul target che difficilmente potrà godere del potere aggregatore di esso perché non è un frequentatore di Twitter. E’ consona al target, invece, la scelta del testimonial in voce: Gianni Ippoliti è una voce conosciuta ad un pubblico ancora legato al mezzo televisivo. La sua presenza – proprio perché spiccatamente televisiva – sarebbe stata più efficace se fosse stata anche in video.
vlcsnap-2016-08-04-13h19m14s526In conclusione, lo spot della Polizia di Stato, anche se artigianale, avrebbe potuto essere anche efficace se solo avesse avuto il vettore adeguato. E’ uno spot che sarebbe dovuto passare in televisione, sulle reti generaliste, soprattutto nelle fasce pomeridiane. Questo spot, come gran parte della comunicazione sociale (vedi le campagne di Pubblicità Progresso), risente di una certa confusione comunicativa in termini di scelte realizzative e diffusive che ne disinnescano il potenziale.

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THE DANISH GIRL

Il film “The danish girl”, realizzato dal regista Tom Hooper, narra la storia di Einar Mogens Andreas Wegenger che è stata la prima persona a tentare la strada della chirurgia per cambiare sesso e diventare la Lili che sentiva di essere. L’ho visto e ho dovuto aspettare qualche giorno per poter avere chiare le mie impressioni.
La prima considerazione è sul perché sia andato a vederlo. Le informazioni che avevo prima del film erano che narrava del primo transessuale della storia che morì nel tentativo di diventare fisicamente una donna: una morte dovuta alle numerose operazioni chirurgiche a cui si era sottoposto. Una storia che induce molta curiosità per la sua eccezionalità. Ma anche una storia che entra in risonanza con un clima sociale italiano che solo negli ultimi anni si sta concedendo di dibattere pubblicamente sui fenomeni di genere (con alterne fortune). Un film che, proprio per la scelta del tema, si va a infilare lungo una strada difficile. Quando si parla di argomenti del genere, soprattutto nell’attuale momento culturale, si corre sempre il rischio di incappare nei meccanismi stereotipati del nostro pensiero. La scelta del punto di vista sulla storia fatta dal regista diventa il vero fulcro. E’ facile sospettare che la scelta della storia possa essere stata dettata (anche) dalla voglia di cavalcare un trend e, quindi, con il rischio di banalizzare le vicende raccontate. Fondamentale nella storia di Lili Elbe è stata la moglie di lui, Gerda. Questa, infatti, non ha mai abbandonato il marito nella sua evoluzione, sostenendo (a volte a fatica) il suo desiderio di essere finalmente donna.
Il film è ineccepibile da un punto di vista formale: ben girato, ben montato e ben sceneggiato. Le musiche supportano bene gli scenari senza essere particolarmente presenti. Il personaggio di Einar/Lili è interpretato da Eddie Redmayne e è stato evidentemente scelto soprattutto per i tratti somatici del volto. La personalità della protagonista (apparente) è stata disegnata dagli occhi pieni di candore e semplicità che l’attore è riuscito a esprimere. Non so se veramente fosse così la Lili reale. Ma, a ben pensarci, è stato molto più credibile il personaggio della moglie Gerda, interpretato da Alicia Vikander, che diviene il perno di tutta la narrazione. Ella è il vero centro su cui ruotano i vari personaggi, con tutta la gamma di emozioni e comportamenti che reandono plausibile e realistico il suo personaggio. Infatti, sembra un film su Gerda Wegenger. Questa sensazione potrebbe essere il riscontro alla sensazione che il regista abbia fatto ciò che viene imputato agli studenti distratti nei temi di italiano: sei andato fuori tema. Si voleva raccontare A e si è finito per raccontare B. O forse, chissà, questo era proprio il suo desiderio inconscio.
E’ vero che un regista deve fare delle scelte perché non si può raccontare tutto in un film, ma solo ciò che importante, ma a questo punto il titolo del film diventa fuorviante. Magari “La Storia della Moglie della Ragazza Danese” sarebbe stato più corretto ma meno accattivate per il box office.

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NUOVI STILI DI CONSUMO TELEVISIVO

Vi racconto una scena a cui ho assistito e partecipato qualche giorno fa che mi è sembrata illuminante sui nuovi stili di consumo televisivo.
Pranzo con parenti e amici. Tavolata con una ventina di persone di varie fasce d’età. Il televisore acceso in attesa che arrivino tutti gli ospiti. Attraverso la funzione on demand di Sky si saltella da un concerto all’altro. Anzi, si scelgono le canzoni andando avanti e indietro: addirittura una canzone si ascolta due volte. I presenti commentano le canzoni e i cantanti.
Durante il pranzo il televisore viene lasciato a emanare la musica di Tchaikovsky, Lo Schiaccianoci più esattamente.
Alla fine, dopo caffè e liquori, i più giovani predispongono il televisore su internet e, andati su Youtube, cominciano a selezionare i video di un gruppo comico, The Jackal. Risate, commenti e condivisione di un divertimento di chi li conosce con cui li scopre per la prima volta. Una visione perfetta qualitativamente. Non solo. I video dei The Jackal sono l’ultima frontiera della pubblicità che, come facevano i caroselli degli anni Settanta del secolo scorso, offrono dei cortometraggi divertenti legati ad un brand con tempi allungati rispetto ai ristretti tempi degli spot classici.
Quelli che ho descritto sono un perfetto esempio delle nuove dinamiche di consumo audiovisivo. Innanzitutto, è palese che è sparita la dinamica di flusso del consumo da palinsesto. Il prodotto audiovisivo non è più su quella rete a quell’ora, tipica della televisione 1.0 ma è frazionato, asincrono rispetto allo scorrere del tempo. Altro effetto apprezzabile è la condivisione generale delle dinamiche di scelta on demand, tipiche del consumo ai tempi di internet. Se i ragazzi ci sono nati in una simile procedura, gli adulti l’hanno acquisita attraverso gli smartphone. Quindi, motori di ricerca, parole chiave, utilizzo della barra dello scroll, condivisione sono tutti termini che sono entrati nella vita di gran parte degli utenti.
Chi pensa la tv del futuro dovrà pensarla in questa forma: non è più la tv che decide tempi e prodotti ma è l’utente che sceglie e rilancia ad altri.

SNOOPY E LE EMOZIONI D’ANIMAZIONE

Il film di animazione dei Peanuts è uscito da qualche giorno e sembra segnare una discontinuità col trend dominante degli omologhi film contemporanei. Nel tentativo di inseguire un pubblico sempre più composto di adulti, le sceneggiature diventano serrate, i dialoghi pieni di sottintesi, le gag quasi di comiche: a tratti quasi ansiogeni. Il film “Snoopy & friends” si propone, al contrario, con dolcezza e ritmi pacati, con la sola eccezione dei siparietti di Snoopy nei duelli col Barone Rosso.
Un prodotto gradevole che è ampiamente fruibile nei toni e nei ritmi da un pubblico di bambini (verificato empiricamente dalle reazioni delle decine presenti in sala), ma anche da un il pubblico degli adulti appassionati dei fumetti di Schultz che ne ritrovano lo spirito nella narrazione. Ben rispettando i caratteri dei personaggi, la sceneggiatura riesce a offrire anche un lieto fine senza scivolare nell’insidiosa retorica o nella facile emozione. Un film morbido e sobrio al tempo stesso. Questo film, però, è stato sostenuto da un’imponente azione di marketing preventivo che ha dato i suoi frutti: in Italia ha raggiunto il milione di euro di incassi in poco più di una settimana. Segno che esiste un mercato per quasi tutti i tipi di prodotto che abbiano delle solide basi.
Dopo l’altro film d’animazione campione di incassi “Inside out” che ha messo al centro le emozioni, “Snoopy & friends” mostra che si possono conciliare i racconti per i bambini e quelli per gli adulti, con la narrazione delicata. Senza alcuna ansia e necessità di stupire a tutti i costi.

GUARDA IL TRAILER

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VOI COSA FARESTE?

Questo post è stato realizzato con Giulia Scatà

Il documentario “Catfish” racconta della scoperta da parte di uno degli autori della falsa identità che una donna aveva assunto attraverso molteplici profili. Da quella esperienza si è generato uno spin-off nella serie televisiva “What would you do?”, andato in onda per la prima volta il 26 febbraio del 2008 e prodotto dalla ABC.
Ogni puntata mette in scena diverse situazioni con lo scopo di attuare vari esperimenti sociali, partendo ogni volta da una notizia di cronaca, o da statistiche e stereotipi.
Gli argomenti trattati sono stati vari e pericolosi come il razzismo, discriminazione a causa dell’orientamento sessuale, maltrattamento sulle donne o bambini, abusi sul posto di lavoro, obesità e altri, vari attori interpretano le parti della vittima e del carnefice.
Il tutto si svolge in un posto pubblico come una stazione di servizio, un centro commerciale, un ristorante e si osservano attraverso varie telecamere nascoste le reazioni delle persone presenti, ovviamente all’oscuro della farsa.
Il conduttore, nel frattempo, nascosto in furgone, osserva tutto quello che succede pronto ad intervenire a porre la crucciale domanda: “perché hai reagito in questo modo?” o “perché non hai fatto nulla?”
E’ interessante vedere come alcune persone reagiscano in maniera molto forte quando vengono messi in dubbio i diritti fondamentali della persona ed è sconvolgente, in caso contrario, assistere al loro silenzio o alle imbarazzanti scuse a posteriori.
Quasi tutti gli attori che partecipano a questo programma hanno vissuto in prima persona le situazioni che mettono in scena, sono state vittime di razzismo, discriminazioni e abusi di vario genere: questo non fa che rendere il tutto più reale.
Ovviamente il programma non persegue nessun obiettivo scientifico, forse mira velatamente a una sensibilizzazione da parte del pubblico agli argomenti trattati.
E’ uno show e come tale ha come interesse primario l’intrattenimento, suscitare forte emozioni come sdegno e spesso commozione, ma la cosa più importante è che ci obbliga a porci la cruciale domanda : “voi cosa fareste?” In fondo, i comportamenti prosociali, di cui tutti lamentano la progressiva sparizione, si consolidano attraverso l’esempio, assistendo a ciò che fanno altri. Nell’era dei media, l’audiovisivo può supplire alla vicinanza e farci conoscere comportamenti differenti dall’indifferenza o dal rifiuto.

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TRATTATO PRATICO DELLA PERSONALITA’ AI TEMPI DEL WEB

Nel 2004 nasce Facebook e la sua progressione, il suo successo, diventano parte integrante della trasformazione dei comportamenti al tempo del web. Anzi, ne diventano il volto popolare, il veicolo su cui si compiono alcuni fenomeni di cui ancora oggi ne vediamo i potenti sviluppi. Nel 2008 viene girato uno straordinario documentario (che poi avrà un sequel in una serie tv), “Catfish“. Tre documentaristi testimoniano con le telecamere la storia di una strana relazione nata su Facebook ad uno di loro tre. Attraverso una bambina molto portata per la pittura, il protagonista conosce in successione: la madre, la sorella, il fratello ed una serie di altre persone legate a loro. La sorella della bambina, soprattutto, è avvenente e tra i due si intreccia un fitto dialogo che assume i contorni di un flirt virtuale.
Un episodio casuale fa scattare un sospetto e le indagini dei tre autori risale la fila di una lunga serie di incongruenze che fanno sospettare che in tutta la storia vi siano parecchie falsità. Durante una trasferta che li porta abbastanza vicini ai luoghi dove vive questa famiglia, decidono di andare a vedere di persona e scoprono che Angela, la madre della bambina, aveva inventato tutto e gestiva una dozzina di profili su Facebook di persone inesistenti. I due, Nev il documetarista e Angela la madre di questa famiglia, hanno un chiarimento e la seconda ammette tutte le falsità e le bugie. Ma rivela anche una situazione familiare complessa e pesante, in cui le identità virtuali che ha creato “movimentano” e colorano la sua vita emozionale. Alla fine lei cancella tutti i falsi profili e assume la sua reale identità su Facebook e Nev rimane suo amico.
Questo documentario, realizzato in una fase protoweb2.0 (esce nel 2010), è sostanzialmente un trattato pratico della personalità ai tempi del web. Si vedono “agiti” tutti i fenomeni legati a questo periodo storico dominato dalle comunicazioni rapide e dalle relazioni real-virtuali. Vi troviamo la costruzione del Sé, la relazione di coppia, il corteggiamento, l’integrazione reale-virtuale, il senso di Identità, la nascita del desiderio, il senso della fiducia, la proiezione, la trasformazione delle relazioni, la consapevolezza, il senso di colpa e tanto altro ancora.
Catfish è, di fatto, un testo audiovisivo propedeutico alla conoscenza delle dinamiche della personalità rispetto ai social media. Un documentario utile a chi fa della psicologia e della psicoterapia il proprio lavoro.

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DA CANDID CAMERA AI FINTI ESPERIMENTI SOCIALI

E’ di moda negli ultimi mesi usare il video per mostrare il comportamento delle persone. Non è un utilizzo nuovo, naturalmente. Antesignano è stato il programma televisivo statunitense, ripreso in Italia negli anni Settanta da Nanni Loy (titolo: Specchio segreto). Candid camera indica genericamente una forma di registrazione video effettuata con una macchina da presa nascosta. Il meccanismo è alla base di alcuni programmi televisivi costituiti da sketch in cui passanti o personaggi famosi sono messi di fronte a situazioni paradossali allo scopo di registrarne le loro reazioni. In questo caso, dunque, è palese l’intento di intrattenimento: si provocano le persone ignare per spiarne i comportamenti attraverso la ripresa. A conferma della dimensione ludica c’è il fatto che, alla fine, alle persone viene rivelato che sono state riprese e che era un gioco.
Spiare le persone con una telecamera diventa, quindi, un’occasione imperdibile per chi vuole mostrare il comportamento della gente. Ecco che nascono gli “esperimenti sociali candid”, ovvero delle situazioni messe in piedi con l’intento di riprendere i comportamenti delle persone.
Ha avuto una certa risonanza quello realizzato a New York in cui si cerca di mostrare le molestie sessuali verbali che una ragazza deve subire quando cammina per strada. Il titolo del video è “Dieci ore di cammino a New York” ed è una serie di percorso fatti da una ragazza e preceduta da una persona che ha una microcamera indosso. Vengono registrati 108 apprezzamenti in 10 ore di passeggiata: in media poco più di 10 ogni ora, ovvero uno ogni 6 minuti. Il video in questione è stato realizzato da un’associazione che si propone di mostrare la pressione psicologica a cui si trova sottoposta una donna a New York quando cammina per strada. L’imbeccata per i media è appetitosa ed, infatti, molte testate online rilanciano il video del “esperimento”. C’è un problema, però, che nessuno evidenzia perché rovinerebbe l’effetto “notiziabilità”: quanta scientificità c’è nei video di questo tipo? Proviamo ad analizzarlo.
L’ipotesi di ricerca (implicita) è: le ragazze a New York sono sottoposte a molte molestie sessuali verbali. E’ possibile evincere questa ipotesi anche dalla descrizione data dall’associazione Hollaback!, rintracciabile su Facebook, che è promotrice della campagna e del video in questione. Viene specificato, infatti, che “Hollaback! è un movimento internazionale che ha l’obiettivo di mettere fine alle molestie in strada”. Altrettanto esplicito è il concetto di “normalità” che viene auspicato dalla stessa associazione: “Crediamo che tutti noi abbiamo il diritto di sentirci al sicuro e a proprio agio negli spazi pubblici senza essere il bersaglio di discorsi e comportamenti sessisti, omofobici e transfobici o offensivi”. Appare evidente che lo scopo dell’esperimento video è di dimostrare queste tesi.
Se guardate il video potrete notare che i tagli in montaggio sono numerosi e – come sanno tutti quelli che praticano la nobile arte del montaggio – la dimensione che viene manipolata principalmente col montaggio è proprio il tempo. Non a caso Alfred Hitchcock soleva dire che “il cinema è la vita a cui sono stati tolti i momenti noiosi”. Questo cosa implica ai fini della tesi sostenuta dagli sperimentatori? Implica che la “pressione psicologica” sulla ragazza che cammina non è misurabile. E’ innegabile che vengano fatti degli approcci, ma in quanto tempo? Se le dieci ore di passeggiate sono state registrate in dieci giorni, la suddetta pressione sarà molto diluita; al contrario se è fatta nella stessa giornata, allora sarà molto alta. Per passare ai commenti fatti dagli uomini alla ragazza che cammina, è facile notare come la dimensione “sessista o offensiva” implicita nella tesi degli autori viene anch’essa molto diluita. Non si può certo dire che frasi come “Come stai oggi?”, “Sorridi. Non è giusto”, “Hey, come va, ragazza?” (per citare tra le prime che vengono montate) siano frasi sessiste o offensive. Sicuramente sono frasi dette per approcciare e, altrettanto certamente, alla lunga possono essere faticose da ignorare.
Tirando le somme, il video-esperimento è più empirico che scientifico. Rappresenta dei comportamenti ma non è possibile trarne delle generalizzazioni. Dà delle indicazioni ma non è una fedele rappresentazione della realtà: un modello, più che la vita. E come recita una delle laconiche Leggi di Murphy: “confondere un modello con la realtà sarebbe come andare al ristorante e mangiare il menù”.

L'esperimento di un giornalista, per 10 ore con la kippah a Parigi - Europa - ANSA.it 2015-02-18 10-22-11

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UN PIANOSEQUENZA PER BIRDMAN

Il film Birdman (intitolato anche “L’imprevedibile virtù dell’ignoranza”) è l’ultima opera del regista Alejandro González Iñárritu. Pellicola di apertura dell’ultimo Festival del Cinema di Venezia, ha messo assieme ben nove candidature all’Oscar.
Dunque, la trama è che… La trama non c’è. O meglio, la storia è banale e non credo che abbia mai avuto l’ambizione di essere una storia che passasse agli annali. Un attore che ha impersonato un supereroe da fumetto (Birdman, appunto) al cinema, decide di cimentarsi nella regìa e nell’interpretazione di un’opera teatrale. Il protagonista, Riggan Thompson (l’attore Michael Keaton), punta tutte le sue ultime risorse economiche in questa impresa: è una padre assente che si ritrova la figlia in affidamento perché è appena uscita da una disintossicazione dalla droga. Ha un legame con un’attrice che recita con lui e la nostalgia dell’ex moglie. Dopo alcune peripezie e ripetuti tentativi di suicidio (almeno, paventati) ottiene il successo che lo fa volare. Eh già, perché Birdman è film-fumetto. La realtà dei personaggi viene mescolata in continuazione con la metavicenda del supereroe che accompagna il protagonista con fare allucinatorio: la sua voce, infatti, suona come un alter ego del protagonista.
Accertato, quindi, che siamo in un fumetto cinematografico, andiamo alle qualità di questo film. Innanzitutto è notevole la gestione dei personaggi: una gestione corale in cui ognuno di esse sembra uno strumento di un’orchestra. Ogni personaggio “suona” dei temi mentre gli altri fanno da contrappunto. Indovinata anche la scelta musicale in cui una batteria accompagna sommessamente la ritmica della narrazione. La fotografia non cede al fumettismo e rimanda le le successioni di luci e ombre di un teatro, tra palcoscenico, quinte ed esterni newyorchesi. Infine, Steadicam a go-go. Per questa ragione in questo film manca assolutamente una cosa (i montatori già avranno intuito).

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