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RESPONSABILMENTE

Ho avuto la fortuna di leggere un saggio di Adriano Zamperini, più esattamente “Psicologia sociale della responsabilità“, ed ho trovato che oggi più che mai sia pertinente per il mondo che stiamo vivendo. Sento parlare spesso di involuzione, di società decadente, di malcostume e maleducazione, di scaricabarile, ma assai poco sento ragionamenti degni di questo nome per comprendere le ragioni di questo andazzo negativo.

Il percorso che compie Zamperini lungo i vari aspetti della responsabilità appare come un indispensabile viatico per chi si avvicina alla politica, non usando solo la pancia ma anche il cervello. Per illustrare i vari concetti contenuti nel saggio, proverò a identificare delle situazioni reali portate all’attenzione dai media e che possano essere da esempio. In questo articolo, invece, guarderemo un po’ il concetto di responsabilità in generale.

Partiamo con quanto disegnano i dizionari sul concetto di responsabilità. Il Treccani recita: “capacità di rispondere dei propri comportamenti, rendendone ragione e accettandone le conseguenze. Entrato nell’uso politico e giuridico sul finire del Settecento, il concetto è stato usato, in ambito filosofico, soprattutto nelle dispute intorno al problema della libertà“. Senza entrare in merito alle dimensioni filosofiche, possiamo notare che legati al concetto di responsabilità esistono altri concetti: azioni, effetti (danni), ruoli, giustificazioni, colpe e punizioni.

Scrive Zamperini che “l’idea che la libertà dell’uomo sia una libertà soggetta a vincoli, ossia il fatto che l’uomo debba far fronte, nei suoi atti e nelle sue omissioni, a una dimensione altra da sé, diventa esplicita nel caso della responsabilità“. Quindi, è un’amplificazione del processo di differenziazione che ognuno compie prima da bambino, poi da adolescente e, infine, da membro della società.

Questo processo di differenziazione, di fatto, genera l’individuo, è alla base della sua consapevolezza di sé e della sua autonomia: “La responsabilità è il volto assunto dal dovere nella società contemporanea a seguito dell’affermarsi del principio dell’autonomia di ogni individuo e dell’associata esigenza sociale di rispondere di questa libertà e quindi delle scelte operate“.

Per arrivare al concetto di colpa/merito diventa essenziale esplicitare i modi di attribuzione della responsabilità. Infatti, “Il significato più elementare associato alla nozione di responsabilità è quello della possibilità di attribuire a un individuo l’azione che è stata compiuta, identificandolo come colui che l’ha originata e ascrivendo allo stesso la colpa o il merito“.

Connesso al problema dell’attribuzione della responsabilità c’è quello del dovere di rispondere di ciò che è successo, della propria azione e dei propri ruoli. Esiste il “concetto di accountability che rimanda al dovere e alla capacità di rispondere, il che implica che l’azione di cui si deve rendere conto va compresa in relazione a cornici normative (leggi, regole e ruoli sociali)

Accennavo alla consapevolezza che è assolutamente inscindibile dalla responsabilità. Non a caso nei nostri codici esiste la formula “capace di intende e di volere”. Zamperini nota che “comunemente si dice che una persona è responsabile o è dotata di senso della responsabilità per indicare che si tratta di una persona che sa includere, nella motivazione all’azione, anche gli effetti prevedibili della stessa “.

La responsabilità si connota in virtù del compito che affrontiamo, sia essa ludica, neutra o professionale. Da un medico ci aspettiamo che migliori lo stato di salute, da un ingegnere ci aspettiamo che costruisca strutture che funzionino, da uno scrittore ci aspettiamo che racconti una storia. Ogni attività diventa un ruolo che la società inquadra in una serie di regole e prescrizioni che ci inducono ad avere specifiche attese in chi li svolge: “In una società i ruoli, più che essere persone, sono azioni e parole prescritte sebbene i ruoli permettano ai suoi esecutori una certa libertà di interpretazione (…)il ruolo si traduca in aspettative comportamentali che producono strutture di conoscenza (schemi) mediante le quali i soggetti percipienti comprendono e valutano i diversi contesti d’azione“.

Dunque, se si è giudicati responsabili e il nostro comportamento ha generato un danno, ecco che viene attribuita la colpa. Se si è colpevoli, la società richiede implicitamente una punizione: sia per fissare nella memoria della persona responsabile che la mancanza del rispetto del ruolo comporta una sanzione, sia per mostrare al resto degli appartenenti alla comunità il valore di deterrenza della punizione. “I criteri psicologici della responsabilità si riferiscono al fatto che la persona soggetta a punizione , al momento dell’esecuzione delle sue azioni, fosse nella condizione di capire le prescrizioni della legge e di affrontare il problema in merito a che cosa fare trovando una soluzione, nonché controllare la propria condotta in reazione alle decisioni da assumere“.

Questa riflessione si conclude con uno degli aspetti che la branca della psicologia detta Psicologia Sociale può aggiungere: “la psicologia sociale ha utilizzato il termine responsabilità in almeno tre modi: 1) nel senso generale di rendere conto ad altri (…); 2) descrivere gli obblighi creati da codici morali e legali (…); 3) doveri originati da ruoli sociali“.

Ne scriverò ancora nei prossimi articoli in modo più approfondito.

IL CAPITALISMO NON È ETICO, MA IPOCRITA. L’IMPOSSIBILE PASSAGGIO DALL’ETICA ALLA PUBBLICITA’

Che titolone! Adesso Paolillo si mette a fare politica da radical-chic. Mmmmmh, brutta storia. Si, potrebbe sembrare così, ma forse è il caso che procediate alla lettura di questo post. Avvertenza: sarò inevitabilmente costretto a semplificare drasticamente.

La mia riflessione prende avvio da un articolo apparso su The Vision  dal titolo provocatorio “È giusto che i brand usino le battaglie sociali per farsi pubblicità?“. Prima di addentrami in alcune affermazioni contenute nell’articolo, mi soffermo su alcune particolarità già presenti nel titolo. La prima precisazione è che non sono i brand a fare pubblicità, ma sono le aziende. I brand (in italiano “marchi”) sono i beneficiari della pubblicità. La seconda precisazione è che il dubbio contenuto sul titolo contiene una dimensione etica, una dimensione che presuppone un comportamento “giusto” e uno “sbagliato”. Questa considerazione pecca di ingenuità ed ora illustro il perché.

Un’azienda che decide di ricorrere alla pubblicità per aumentare le vendite mira, semplicemente, ad ottenere il miglior profitto possibile. Al contrario del “guadagno“, che è solo il ricavo al netto delle spese, il profitto intende una spinta a guadagnare il più possibile, sempre. Tanto che il termine “profitto“, che dalla matrice latina prende il senso di progresso/giovamento, indica una condizione ancor prima che un guadagno.

Il profitto nel nostro tempo è uno degli indicatori di un più complesso sistema economico basato sulla proprietà privata: il famigerato Capitalismo! Per un imprenditore-tipo ai tempi del capitalismo, il profitto è l’unico faro e, nei casi di capitalismo “selvaggio” (liberale), si è disposti a qualsiasi cosa pur di ottenere il profitto, quello più ampio possibile.

Per tutte queste ragioni appare proprio ingenuo che qualcuno si chieda se sia giusto usare le battaglie sociali per farsi pubblicità (quindi profitto). Si usa qualsiasi emozione, concetto, fenomeno, posizione sociale, affermazione, se questa porta ad aumentare le vendite e, quindi, il profitto. Che ci piaccia o meno.

LO PSICOLOGO SENZA DISSENSO

Due episodi recenti, strettamente collegati, mi hanno fatto sorgere il dubbio che i social stiano sfuggendo di mano agli psicologi. Protagoniste sono due psicoterapeute. Ve li racconto.

Il tutto nasce da un articolo dal titolo: “La Spagna introduce legge sul consenso esplicito: se l’altro non dice “si” è stupro”. La prima psicoterapeuta posta sulla propria bacheca Facebook (n.b. aperta ai commenti) l’articolo ed io, perplesso, commento con un semplice “bah”. Mi arriva via messaggio la richiesta della collega di rimuovere il mio commento. L’ho invitata a farlo lei, cosa regolarmente avvenuta. La seconda psicoterapeuta, invece, a commento delle probabili reazioni che qualcuno deve aver manifestato alla notizia, così commenta; “Mi spiace, dolci e amati maschioni, che la legge spagnola sullo stupro non vi garbi. Sapete, secoli e secoli di abusi, stupri, discriminazioni e violenze ci hanno costrette a tralasciare quelle sfumature di romanticismo che tanto rimpiangete e a cui siete notoriamente interessati. D’altronde sono sicura che, come riuscite a tenere il pisello alzato in situazioni francamente improponibili a livello di eccitazione sessuale, ce la farete anche questa volta. Forza guerrieri, vi sono vicina [NdR. aggiunge un emoticon-cuore] “.

Pur intuendo la delicatezza dell’argomento e comprendendo la reattività che l’argomento può innescare, ribadendo che reputo stupidi gli uomini che aggrediscono le donne, mi ha lasciato molto perplesso il comportamento di queste due colleghe. La prima considerazione è che stare sui social, anche e titolo personale, non fa smettere di essere uno psicologo. A maggior ragione se si usano abitualmente i social per il proprio marketing on line, attraverso siti, pagine Facebook o account su Twitter o Instagram. Ritengo (sarò all’antica) che uno dei primi compiti etici di uno psicologo sia l’inclusione. Uno psicologo che non tollera il dissenso, soprattutto se manifestato in termini civili e educati, come nel primo caso, è probabile che non appaia come qualcuno in grado di comprendere. Poi, come nel secondo caso, la militanza di genere, quella del “noi nel giusto, voi nel male”, crea antagonismi che mirano deliberatamente a escludere, a dividere, perdendo di vista qualsiasi sfumatura o differenza nel comportamento. Inoltre, il linguaggio intriso di sfida e di scherno (con tanto di emoticon-cuore finale), mette di fronte i lettori alla consapevolezza che non può esistere dialogo (quindi collaborazione) con chi si pone in questo modo, aumentando conseguentemente la distanza con chi non aderisce fidelisticamente a quella posizione.

Questi sono solo due episodi tra i tanti che mi inducono a pensare che in molti non abbiano ancora compreso la valenza della comunicazione attraverso i social. Quando capita a dei “colleghi”, rimane un po’ di amaro in bocca perché è facile, poi, essere valutati dal pubblico come una categoria professionale non affidabile.

Naturalmente, posso sbagliare in queste mie valutazioni.

SE QUESTA E’ INFORMAZIONE

Una delle accuse più frequenti che vengono mosse ai giornalisti è che i loro articoli, i loro servizi in video, le loro inchieste, siano fuorvianti perché frutto di schemi stereotipati, di pregiudizi e che, quindi, non consentono alle persone di comprendere realmente un fenomeno. Tutti si auspicano che essi riprendano un livello di correttezza e deontologia adeguata alla funzione sociale che svolgono. Si potrebbe anche ipotizzare  – come faccio nel mio libro –  che gli psicologi possano contribuire all’innalzamento degli standard informativi della nostra società. Poi accade qualcosa che palesa quanta strada vi sia ancora da percorrere.

Nell’ultimo numero della rivista Psicologia Contemporanea (n. 265)  – rivista benemerita e in corso di rinnovazione da parte del nuovo direttore –  la psicologa dello sviluppo Silvia Bonino scrive un articolo dal titolo “Relazioni disumane: il sesso con i robot“. Faccio un salto. Che coincidenza, proprio qualche settimana prima avevo scritto proprio su questo blog un articolo sullo stesso argomento. Mi lancio nella lettura e, via via che leggo, aumenta la mia perplessità. Vi spiego.

L’analisi della Bonino viene aperta da una sintesi (catenaccio) che recita: “Il diffondersi di bambole e robot con cui fare sesso rappresenta la deriva di un erotismo dove il ‘partner’ è visto come oggetto di un soddisfacimento meccanico anziché come un universo autonomo con il quale interagire“. Accidenti, è una sentenza. I titolisti avranno esagerato come al solito. Proseguo e scopro un’altra affermazione che avrebbe meritato la citazione della fonte: “Già oggi, nel mondo, alcune aziende li producono a costo elevato e per un mercato esclusivo, in alcuni casi di pedofilia“. Affermazione enorme. Un’accusa pesante. Proseguo nella lettura.

Successivamente, memore delle tante riflessioni di specialisti di cibernetica , oltre che di scrittori di fantascienza, sull’umanità possibile da parte di un un “robot”, appare un po’ semplicistica l’affermazione: “L’amore, l’affetto, la cura, l’altruismo, la cooperazione sono l’espressione quotidiana di questa socialità“. A parte il concetto di amore che, semanticamente, contiene molti significati in virtù del punto di osservazione, siamo realmente sicuri che un androide non potrà essere in grado di assolvere a quelle necessità? Il dubbio rimane.

Nella delineazione filogenetica del comportamento sessuale, leggo ancora: “Negli esseri umani il sesso si è congiunto all’affetto in una relazione emotiva e sentimentale paritaria; si è così sviluppato l’amore sessuale, in cui la sessualità non serve più solo alla riproduzione ma al mantenimenti del legame“. Dobbiamo, quindi, escludere che il sesso senza una profonda relazione d’amore sia soddisfacente? Per Silvia Bonino sembra di si perché, poco dopo, scrive: “I sex robot realizzano un preciso e univoco richiamo alla sessualità rettiliana, vale a dire a una sessualità del tutto disgiunta da qualsiasi rapporto emotivo affettivo (…) Si tratta di una sessualità preumana e disumana, antecedente alla comparsa degli affetti, in cui non si interagisce con una persona reale, ma soddisfa solo una pulsione primaria secondo una modalità del tutto autocentrate. È quanto già accade con  la prostituzione“. Ancora un’affermazione che non aiuta a capire un fenomeno che esiste da millenni. Possiamo liquidare il fenomeno della prostituzione così?

Con i robot, invece, si realizza una sessualità che è intrinsecamente di dominio e sopraffazione, poiché l’altro è oggetto completamente programmato per soddisfare i desideri dell’acquirente. In questo modo [con]  l’utilizzo dei robot si disabitua a interagire con un essere umano” continua il professore onorario di Torino. Qualcosa non torna. Se accettiamo la definizione di dominio come “avere un potere incontrastato su qualcuno” o come “tenere qualcuno sotto il proprio controllo, potere, autorità” come recita uno dei dizionari della lingua italiana ci rendiamo facilmente conto che un robot non può essere dominato in senso umano proprio perché un automa (non voglio arrivare a dire come un televisore). Tanto meno un androide può essere sopraffatto  ovvero “oggetto di una prepotenza, soperchieria o sopruso“. Infine, vista la similitudine postulata poche righe prima tra sesso con robot e prostituzione, viene da pensare che la disabituazione all’empatia, che dovrebbe essere indotta, si compia anche con le prostitute, nonostante la vasta letteratura sulle passioni e le storie d’amore tra uomini e prostitute .

Tirando le somme, ho avuto la sensazione che questa apparente analisi si riducesse ad una serie di affermazioni, poco argomentate e sostanzialmente fuorvianti. Un’analisi che lascia più dubbi che chiarezze. Perciò mi chiedo: questa è informazione? No, ovviamente no. È una dotta opinione che avrebbe meritato anche un contraddittorio ma  – si sa –  certi argomenti sono scivolosi più di una saponetta bagnata. Peccato che sia stata pubblicata da una rivista di psicologia destinata al grande pubblico. Avrebbe aiutato capire. Dovremmo fare meglio, molto meglio.

 

SOFISTICATI COMUNICATORI O TELEVISIONARI CINICI? IL CASO DE “LE IENE”

dal sito (chiuso) psicologiadellaudiovisivo.it ripropongo questo articolo del 2008

Gli autori televisivi sono sempre alla ricerca dei territori di confine in cui sperimentare le ibridazioni di genere. Un caso eclatante sono i tg satirici come Striscia la notizia, ma anche programmi come Le Iene. Questi sono un tipico esempio di ibridazione deliberatamente a doppio fondo: se da un lato gli autori o i giornalisti si accreditano come “difensori dei cittadini”, dall’altra realizzano prodotti eticamente spregiudicati che denotano uno scarso rispetto del pubblico. Ma veniamo al caso esemplare de Le Iene.
Nella puntata del 14 marzo 2008 il programma di culto “Le Iene” ha proposto uno dei tanti servizi che hanno costruito la sua identità e la sua fortuna. Il servizio in questione aveva come argomento il caso di alcuni ristoratori italiani a Berlino che sono stati oggetto di un ’ azione malavitosa. Nella fattispecie, un paio di personaggi provenienti dalla Campania hanno cominciato a chiedere il “pizzo” .

I ristoratori non si sono fatti impressionare e, dopo essersi contattati vicendevolmente, hanno deciso di denunciare il tutto alla polizia tedesca. Questa ha avviato delle indagini e, dopo anche qualche atto intimidatorio dei malviventi, li hanno arrestati in flagranza di reato. In una visione giornalistica la notizia è significativa ma non eclatante: persone fuggite da un contesto di diffusa illegalità vanno ad impiantare la propria attività commerciale in un paese dove la legalità è strutturata tanto nei singoli quanto nella società. Nulla di più comprensibile. La particolarità donata dagli autori de “Le Iene” a questo servizio è la dimensione morale. Il servizio viene preceduto da un flashback in cui viene ricordato agli spettatori un precedente servizio in cui un commerciante napoletano denunciò i propri estortori (si immagina proprio attraverso la trasmissione) e da allora vive sotto scorta.
Questi, nella sua ruvida apparizione, invita gli altri napoletani a non piegarsi al pizzo perché, unendosi nella denuncia e non essendo più soli, la camorra non potrà colpire tutti e (guardando con rabbia dritto in camera) dice testualmente: “li rimandiamo tutti a casa!” . Analizziamo i messaggi inviati. Il primo è che pagare il pizzo è sbagliato e che diventa un eroe chi si rifiuta di pagare. Il secondo è che la trasmissione “Le Iene” sposa questa impostazione morale. Poi viene fatto il parallelo con i ristoratori italiani a Berlino, sottolineando come viene confermata la tesi che “ribellarsi, paga” .

Apparentemente tutta l’operazione è di alti contenuti sociali ed etici. Il problema nasce dalla struttura sintattica stessa della trasmissione. Più esattamente dalla sintassi emotiva. Gli autori del programma lavorano sulle risonanze emotive. Il primo passo è di aggredire lo spettatore andando a stimolare il senso di colpa derivante da una presunta inazione: la presentazione dell’uomo sotto scorta tende a far sentire colpevoli di stare comodamente nella poltrona mentre un uomo rischia la vita. La tensione generata allo start della sequenza viene mantenuta per tutta la durata del servizio di Berlino: è come se gli autori continuassero a dire in modo incalzante allo spettatore “Vedi? Vedi?! Vedi!!” . A questo punto nasce l’effetto perverso del programma di Italia Uno. Proprio alla fine del servizio viene riproposta la medesima scena del commerciante napoletano sotto scorta che ripete la stessa frase a muso duro alla telecamera (quindi in faccia agli spettatori): “li rimandiamo a casa!” . Immediatamente, senza alcuna soluzione di continuità, senza neanche una sigletta o un commento, parte una telepromozione dai toni ameni. Lo sconcerto in chi guarda ha la consistenza metaforica di un ceffone. È come se gli autori, dopo averti oppresso emotivamente, ti gridassero di colpo: “Pirla, ci hai creduto!” .

Che tipo di effetti collaterali può avere questi tipo di gestione disinvolta degli autori di “Le Iene” ? Sicuramente il pubblico avverte che chi fa televisione gioca con le emozioni di chi guarda. Nel caso in particolare, esso può rendersi conto che quelli de “Le Iene” , prima cercano di accreditarsi come agenti autorevoli per una leadership morale ed etica, poi maltrattano il senso di fiducia che avevano generato. La fiducia è un atto di donazione del Sé ed il tradimento di essa è un atto violento che infligge dolore. L’inevitabile reazione dello spettatore è di chiusura. Viene alzato il livello di soglia oltre cui è di sposto di nuovo a farsi coinvolgere, per cui la sua sensibilità ne viene intaccata. Parallelamente, viene emotivamente connotata come “ambigua” quella televisione che cerca di accattivarsi lo spettatore, ovvero quella che cerca di apparire “credibile a tutti i costi” (per poi tradire la tua fiducia per sciocchi motivi di marketing). Il risultato finale è che chi ha visto quel servizio all’interno del programma televisivo de “Le Iene” ha buone probabilità di diventare più cinico e di appesantire i propri comportamenti prosociali. Esattamente l’opposto delle “apparenti intenzioni” degli autori del programma.
Ad avvalorare questo uso deliberato della dimensione emotiva c’è il cambio di registro compiuto dalle testate giornalistiche televisive negli ultimi venti anni. La missione del giornalista televisivo è lentamente scivolata dalla sfera razionale a quella emozionale.