dal sito (chiuso) psicologiadellaudiovisivo.it ripropongo questo articolo del 2008
Abbiamo poche nozioni per poter valutare le scelte a cui siamo chiamati, ma ci rendiamo conto che queste possono più o meno influenzare da vicino la nostra vita. Avvertiamo, quindi, la necessità di decidere bene. Per poter affrontare questa necessità senza avere la sensazione di essere incauti abbiamo bisogno di informazioni su cui basare le nostre decisioni. Se devo acquistare un’automobile, dovrò prevedere quanti chilometri intendo farci, che tipo di motore sarà più adatto; in base alla composizione della mia famiglia dovrò decidere quanto grande dovrà essere; in virtù della mia condizione economica dovrò decidere quanto voglio spendere e se tenerla per tutta la sua durata o cambiarla prima. Tanto meno ci affidiamo al caso, tanto più abbiamo bisogno di informazioni. Tutto può essere fonte di informazioni: un nostro vicino, la nostra esperienza, il concessionario da cui acquistiamo. Possiamo ricorrere anche alle conoscenze di sconosciuti di cui, però, ne riconosciamo l’autorevolezza, perché per decidere al meglio abbiamo bisogno di informazioni esatte. A maggior ragione abbiamo bisogno di informazioni non manipolate: il concessionario tenderà a darci solo le informazioni che possano indurci all’acquisto, mentre un nostro amico che ha la stessa auto può darci anche quelle relative ai difetti che ha riscontrato nel tempo.
Data la vastità degli ambienti in cui reperire le informazioni, siamo consapevoli di non essere in grado di andare materialmente a parlare con tutte le persone che possono avere informazioni utili. Il giornalista è la persona a cui viene delegato questo compito. Ad esso vengono dati strumenti e risorse (lavoro/stipendio e diritti) con il compito di reperire per noi le informazioni: ma, fondamentale, con l’implicito patto di riferircele correttamente, ovvero esatte e non distorte, manipolate o con delle omissioni.
È intuibile che, parimenti al nostro amico che ci indica i difetti dell’auto, il giornalista deve offrirci anche le informazioni che possono indurci a non favorire questo o quel soggetto. Si genera quindi, per il giornalista, il potere di danneggiare. Ad esso vorremmo chiedere l’assoluta imparzialità ma, nel tempo, abbiamo accettato il fatto che esso non può essere asetticamente imparziale perché, a sua volta, ha la sua personalità che dirige le considerazioni che fa delle informazioni di cui viene a conoscenza e determina l’ordine con cui decide di darle. Sul giornalista convergono le pressioni di tutti coloro che non hanno interesse a far conoscere tutta la verità: se in passato, però, le pressioni potevano arrivare dal ristretto ambito dell’area di diffusione del mezzo di informazione, la radio prima, le televisioni e la globalizzazione digitale poi, hanno moltiplicato le strade su cui possono innestarsi le pressioni. Ryszard Kapuściński, grande reporter polacco, ha detto che “il giornalista è sottoposto a molte e diverse pressioni perché scriva ciò che il suo padrone vuole che egli scriva (…) La stampa internazionale è manipolata” [Kapuściński, 2000].
Il giornalismo è stato per decine di anni un fenomeno in cui ha regnato la parola. Tanto la stampa quanto la radio si reggono sull’unico pilastro della informazione orale. Dalla metà del secolo scorso, il cinema prima e, soprattutto, la televisione hanno spostato l’asse su una modalità che ha aggiunto la visione delle notizie. L’effetto sulla società è stato formidabile. Se il giornalismo filmato nasce come elemento spettacolare da affiancare ad un’informazione che restava verbale, ben presto ne viene intuita la forza capace di plasmare le nostre rappresentazioni sociali. Queste sono, come afferma Moscovici, “un sistema cognitivo costituito da valori, nozioni e pratiche: una struttura di implicazioni che connette inestricabilmente la dimensione cognitiva a quella dei valori e delle pratiche” [Moscovici, 1989]. Il giornalismo ha, dunque, assunto una modalità bipolare che ha duplicato le possibilità di offerta di informazioni ma, al tempo stesso, ne ha aumentato i vincoli. Soprattutto rispetto alla coerenza tra le informazioni verbali e quelle visive. Sono ben tre i veicoli comunicativi che il giornalista televisivo si trova a dover gestire, quello visivo, quello sonoro e quello verbale: e ciò è tanto più vero perché nel nostro cervello, per ciascuno di essi, si attiva una parte diversa della corteccia cerebrale [Lurija, 1984].
Progressivamente la parte verbale è diventata subordinata al binomio suoni/visioni. A testimoniarlo vi sono le stesse parole dei giornalisti che, quando vengono proposte le immagini di un fatto reale, si fanno da parte con la rituale formula: “Ed ora vi proponiamo le immagini senza alcun commento”. Se da un lato diventa evidente la forza spettacolare nel poter mostrare un evento mentre è accaduto (e non riportarlo successivamente), dall’altro diventa altrettanto evidente il vantaggio di poter portare “alcune” informazioni a conoscenza di masse di persone con una modalità che non è più esclusivamente razionale/corticale (la parola scritta del giornale), né razionale/evocativa (la parola parlata della radio). Il linguaggio audiovisivo (immagini, parole e musica) è strutturalmente un veicolo emozionale. Infatti, un frequentatore di lungo corso della tv italiana, Maurizio Costanzo, ha detto: «tutta l’informazione televisiva è più espressiva che comunicativa (…) Quindi, la realtà mediata dalla televisione è filtrata dallo spettatore, il quale – per via delle caratteristiche del mezzo – è spontaneamente portato a concentrarsi sui contenuti più espressivi, sulle immagini, sui colori (via periferica). La notizia passa in secondo piano»” [Agresta, Paglia, 1998].
A conferma della dimensione emozionale del giornalismo televisivo esiste la controprova della “stampella musicale”. È diventata prassi inserire, tra lo stantìo testo e le immagini del servizio, una bella musichetta che aiuti la nascita dell’emozione che si vuole far suscitare. Quando si mira direttamente alle emozioni del telespettatore è segno che si è rotolati direttamente nella fiction e le informazioni realmente contenute nel servizio sono inevitabilmente inquinate. Ciò è tanto più vero per i rotocalchi (come quello di Iacona del Tg3 o degli pseudogiornalisti delle Iene di Italia 1) che per i telegiornali. Basta mettere una bella musica e si mira direttamente alla pancia ed all’angoscia (o al ridicolo) del telespettatore.
Uno strumento di questa potenza è diventato, inevitabilmente, preda dei gruppi di potere che hanno scopi diversi da quelli del giornalismo “puro”. Questi hanno praticamente monopolizzato mezzi e prassi dell’informazione audiovisiva.
Un altro “effetto di ritorno” della diluizione del giornalismo televisivo è la quasi costante assenza di pertinenza tra le immagini del servizio e le notizie del testo. E se per i grandi eventi è comprensibile (mica c’è sempre una telecamera in ogni evento), per i servizi generici risultano sconfortanti quelle di repertorio. La scarsa cura dell’immagine di repertorio denota la sciatteria di chi realizza il “pezzo” o di chi lo ha commissionato che, probabilmente, non ha dato i tempi adeguati per le ricerche d’archivio.
Molto si è studiato degli effetti che l’azione dei giornalisti ha sui singoli e sulle masse, molto meno si è ragionato intorno agli effetti che il giornalismo ha sui giornalisti. Come abbiamo visto, il giornalista espleta un ruolo affidatogli dalla società. Ogni società, oltre al mandato generale, mette delle regole implicite consone ad ogni area particolare: un giornalista in Cina lavorerà diversamente da un suo collega in Canada. Il giornalista italiano assumerà dei comportamenti e delle censure in osmosi con la società che lo contiene. In questi anni si è fatta sempre più evidente la corrente di pensiero che vede la categoria professionale dei giornalisti assurgere al ruolo di casta [Lopez, 2007; Grillo, 2007]. Questo approdo è, probabilmente, frutto di una strategia di autodifesa della categoria che si è trovata di fronte all’impossibilità di adempiere al mandato sociale della professione. Da un lato esiste la spinta della massa delle persone fuori dei circuiti di potere che chiede le “informazioni” (tutte le informazioni); dall’altro c’è il sistema di potere di tipo arcaico dei gruppi di interesse (dagli imprenditori alla Chiesa cattolica, dalla mafia ai vari livelli della politica). A questo punto non si tratta più di reperire e riportare semplicemente delle informazioni, ma di fare un lungo percorso attraverso varie istanze compromissorie. Per non rimanere schiacciati, i giornalisti si chiudono entro le “mura professionali” e rimangono aggrappati a due pilastri consolatori: il senso di comunanza derivata dall’identità e l’autoreferenzialità. Il primo aggrega nella difficoltà e permette di far attutire (se non sparire) gli elementi di autocritica: questi, infatti, possono alimentare il senso di colpa rimosso per non essere in grado di espletare la propria funzione. Il secondo è alimentato dal narcisismo (che è una normale difesa della personalità). Il ragionamento assolutorio è di questo tipo: “noi facciamo pochi errori perché sappiamo più cose degli altri, per cui le critiche non ci toccano perché noi sappiamo e loro no; e se facciamo degli errori sono dovuti a cause non dipendenti dalla nostra volontà”. Nei casi estremi il ragionamento assolutorio è talmente implicito che neanche i protagosti stessi ne sono consapevoli. Il punto su cui si compattano le mosse di identificazione sono incarnate dall’Ordine Professionale, che accorpa e difende la categoria, ma anche da un’etica professionale che, però, è autogenerata e non mediata con l’esigenze della società.
In questa condizione generale del giornalismo italiano, si innesta un altro fattore derivante dallo specifico televisivo, ovvero la forte esposizione della persona. Giornalisti della stampa come Giorgio Bocca, come Ettore Mo, hanno svolto tutta la loro carriera avvolgendosi nelle loro parole: tutto il loro lavoro veniva giudicato dai lettori solo in base a quanto scrivevano. I giornalisti televisivi hanno la difficoltà ulteriore di dover raccontare usando le immagini. Questa maggiore difficoltà può essere compensata dall’effetto amplificato che ha il loro lavoro. Quasi contemporaneamente, però, i giornalisti televisivi hanno cominciato a farsi vedere nell’inquadratura. Lentamente, quindi, nasce la “dittatura dello stand-up”. Lo stand-up è quella ripresa in cui viene mostrato il giornalista sul luogo della notizia. Nasce come una sorta di certificazione della veridicità della fonte ma diventa, progressivamente, specchio della corazza narcisistica sviluppata dai giornalisti. A conferma possiamo evidenziare il lavoro di alcuni giornalisti televisivi che molto di rado appaiono in video e, quando accade, magari sono di spalle o “di quinta”. Ben diversa è il “narcisismo da conduzione” che deriva dalla forte esposizione dei giornalisti che leggono le notizie del telegiornale. In essi si genera una forte pressione giudicante esercitata dall’opinione delle persone sconosciute che guardano senza che le si possa guardare a proprio volta. Questa forma di narcisismo accomuna i giornalisti televisivi con tutti i personaggi che la televisione rumina, dalle veline ai comici, dai professionisti del talk show ai conduttori dei programmi. Ma, ancor più del misterioso “parere della gente”, il narcisismo da conduzione è alimentato dalle persone che circondano il giornalista: la mamma, la portinaia, il parrucchiere, il gommista. Attraverso il feedback delle loro opinioni il giornalista si sente di acquisire autorevolezza e di godere della benevolenza della “gente”. In tutto ciò l’etica professionale e l’efficacia della comunicazione diventano assolutamente secondarie. Naturalmente, tutto quanto rimarcato fino ad ora, accade attraverso la modulazione delle personalità di ciascuno. Come anche accade in maniera differente tra maschi e femmine.
Il giornalismo televisivo risulta, quindi, essere un formidabile strumento per influenzare l’agenda setting [Losito, 1995] delle persone. La sua efficacia si avvale della potenza emozionale delle immagini. Un giornalismo televisivo fatto male è quello che mira alle emozioni della gente, un giornalismo televisivo fatto bene è quello che mira a rendere informate le persone. Oltre il dualismo emozionale, il giornalismo televisivo può essere esteticamente e linguisticamente realizzato in modo fa favorire o confondere la comprensione. Infine, il giornalismo ha effetti subdoli sulla personalità dei giornalisti non sufficientemente maturi: gli effetti possono incidere su varie strutture caratteriali con effetti più o meno distorcenti sulla percezione di sé e sul principio di realtà. Inoltre, a cascata, queste vanno ad influenzare il prodotto del loro lavoro e del servizio-delega di cui usufruiamo come utenti.
Bibliografia
– Agresta S., Paglia G.; “L’arte di guardare la Tv … e rimanere sani”; Milano, 1998; Edizioni Paoline
– Grillo, B.; beppegrillo.it
– Kapuściński R.; “Il cinico non è adatto a questo mestiere”; Roma, 2000; Edizioni e/o
– Lopez, B.; “La casta dei giornali. Così l’editoria è stata sovvenzionalta e assimilata alla casta dei politici”; 2007; Nuovi Equilibri
– Losito, G.; “Il potere dei media”; Roma, 1995; La Nuova Italia Scientifica
– Luria, A.R.; “Come lavora il cervello”; Bologna, 1984 ; Ed. Riuniti
– Moscovici, S.; “Le rappresentazioni sociali”; Bologna, 1989; Il Mulino