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IL MARKETING BOOMERANG DEI GIORNALI

Vi sarà capitato, se ricevete i post delle testate giornalistiche on line sui social, di trovare la notizia che vi stuzzica la curiosità o l’interesse. Cliccate sopra e si apre la pagina on line dell’articolo che però, dopo poche righe si interrompe. Lo segue un avviso che quell’articolo è un contenuto a pagamento e, se vuoi continuare a leggerlo, devi abbonarti (addirittura abbonarti, neanche pagare il singolo articolo!).

Una strategia di marketing, dunque. Prima ti faccio venire l’acquolina e poi te lo nego, dicendoti che devi pagare per averlo. Alla base c’è la supposizione che il lettore, avendo capito che è interessato a quel contenuto, sia disposto a pagare un abbonamento per poter leggere quello e altri articoli. Si, potrebbe essere un buon ragionamento. C’è un “però”.

Però il lettore potrebbe anche viverla diversamente. In questi post con queste notizie civetta non c’è mai scritto “articolo a pagamento“, così la delusione nel lettore diventa frustrazione e indispettimento nei confronti di chi lo aveva illuso. A maggior ragione perché le testate hanno l’abitudine di offrire anche articoli gratuitamente, per cui è probabile che anche quell’articolo potesse essere gratuito. Non solo. Quando si fa ripetutamente l’esperienza di questa delusione, ci si sente presi in giro e, quindi, l’effetto su di noi potrebbe essere quello di perdita della fiducia nella testata, perché “se mi hanno mentito su questo, potrebbero mentirmi su altro“.

Ecco che una strategia di marketing editoriale attraverso i social potrebbe diventare un boomerang. Volete la prova? Chiedetevi, visto che questa tecnica viene ormai usata da alcuni anni, come mai non sia diventata la principale fonte di sostentamento delle testate nelle versioni on line. Andate a cercare i numeri e scoprirete che è così. Improvvisazione ingenua o sciatteria? O forse entrambe?

UN VIRUS ANTICO NELL’INFORMAZIONE

Come l’influenza stagionale, c’è un virus endemico che sta imperversando nei media informativi italiani. Il nome esatto è “cerca la paura” ed alberga  – come fosse la malaria –  nelle redazioni italiane. Perché si sa che la paura fa audience e, tanto i giornali quanto i notiziari radiofonici, campano di audience. Ma soprattutto la tv e i social hanno tutto l’interesse ad alimentare “il traffico” per tenere sempre attaccati ai loro televisori o ai loro smartphone le persone. Ogni volta si cerca un pretesto: un giorno è l’attacco terroristico in Gran Bretagna, poi ci sono i femminicidi, poi c’è l’immondizia e l’emergenza sanitaria.

Proprio a proposito di emergenza sanitaria, ecco che è scoppiata l’ultima paura in virtù del “pericolosissimo” coronavirus che si è manifestato in Cina: prontamente, i media informativi hanno montato la panna della paura. Catastrofi evocate, pestilenze paventate, untori che si aggiravano colpevolmente, precauzioni distribuite random, interviste a politici, medici, funzionari delle istituzioni. È stato generato un riverbero informativo accecante che cercava deliberatamente la paura del pubblico. D’altra parte è noto, come afferma anche il giornalista (critico) Luca Sofri, che “il titolismo è ormai una categoria a sé del giornalismo contemporaneo. Lo è sempre stato, ma negli anni il distacco e l’autonomia dell’informazione trasmessa attraverso i titoli rispetto a quella propria degli articoli sono cresciuti straordinariamente soprattutto per due ragioni: la prima è l’aumento del sensazionalismo allarmistico (…) l’altra ragione è che effettivamente la quota di attenzione e tempo dedicata agli articoli da parte dei lettori è diminuita e una grandissima parte dei lettori usuali o passeggeri legge soltanto i titoli” [Luca Sofri; “Notizie che non lo erano”; 2015].

Il problema insorge quando questa pressione mediatica indiscriminata produce degli effetti sulle persone “instabili” nella nostra società. Ecco che c’è chi insulta dei turisti cinesi rei semplicemente di essere cinesi; oppure c’è addirittura chi vieta ai cinesi di entrare nel proprio esercizio commerciale. Come anche l’uso di mascherine che diviene un “must della paura”.

L’ironia è che, poi, sono gli stessi media che hanno pompata la paura a stigmatizzare i comportamenti eccessivi parlando impropriamente di “psicosi” e scaricando tutto sulla gente. Come anche ipocrita è il debole tentativo di rassicurare che “è tutto sotto controllo”, oppure (come si sta scoprendo) che ogni anno la normale influenza stagionale fa più vittime. Ormai i buoi sono scappati dalla stalla.

La responsabilità di un certo giornalismo è molto alta sul clima di paura che si genera in una società. Usare la paura della gente per chiedere attenzione ha pesanti effetti collaterali perché le persone, in queste situazioni, smettono di essere fiduciose, empatiche, critiche e si chiudono, generando comportamenti antisociali, egoistici, irrazionali. Il tutto per qualche click e qualche televisore acceso in più. Una bella responsabilità che, purtroppo, pochi professionisti dell’informazione riconoscono.

SE ARRIVANO I ROBOT, CHE FARANNO I GIORNALISTI?

Ciclicamente appaiono notizie sui media di imminenti e necessarie riforme dell’Ordine dei Giornalisti. Come anche periodicamente c’è un politico che si lascia andare dichiarando pubblicamente all’estinzione dell’Ordine stesso. Si sprecano i dibattiti e i festival sulla crisi del giornalismo, sulla vita assurda dei precari, sulle fake news che chissà da dove sbucano, sulle nuove frontiere dell’informazione su smartphone. In tutto questo chiacchiericcio manca, generalmente, la voce di chi è destinatario teorico dell’Informazione, cioè noi. Spesso, nei dibattiti, viene sottolineato dagli addetti ai lavori “quanto siamo importanti noi che vi cuciniamo le notizie”. Ma sta arrivando un tifone e chi ha le orecchie aperte sente già il vento fischiare tra i rami.

Già nel 2016, alle Olimpiadi di Rio de Janeiro, alcuni importanti giornali si sono avvalsi dell’opera dei roBOT per produrre notizie e la cosa non fece particolare scalpore. Il fenomeno, infatti, sta diventando progressivamente sempre più importante, come testimoniano le riflessioni che si stanno avviando. Da poco è stato addirittura presentato un anchormen virtuale “made in China”. Il fenomeno appare, quindi, pieno di possibili sviluppi e, visto con gli occhi dello psicologo, induce alcune riflessioni.

Da alcuni decenni l’informazione si è disposta lungo due poli: da un lato l’informazione-potere e dall’altro l’informazione-merce. Entrambi questi tipi di informazione potranno essere espletate dai robot-journalist che costano meno, non si ammalano, non si organizzano in sindacati, non richiedono contropartite per i favori fatti, non fanno inchieste scomode (se non programmati) non hanno problemi di etica e così via. È troppo troppo conveniente l’uso dei BOT per gestire l’informazione, quindi i giornalisti-umani dovranno farsene una ragione: il lavoro per i giornalisti diminuirà drasticamente, anche se progressivamente. Perché il pensiero capitalista lo impone e il bisogno asfissiante del profitto non guarda in faccia a nessuno: basta riflettere sulla selvaggia opera di precarizzazione che è stata fatta in tutto il mondo. Non basta ripetersi come un mantra che le persone (giornalisti) sono indispensabili.

Cosa potrebbe cambiare per noi utenti dell’informazione? Dipende. “NOI” è un termine vago. Chi  – e sono la maggioranza –  non si cura di ciò che gli accade appena oltre la propria sfera vitale, non cambierà nulla: continuerà a ricevere le informazioni che ha sempre avuto e continuerà ad essere “accompagnato” verso la sua opinione del mondo. Gli “altri”, quelli che conservano ancora un minimo pensiero critico saranno costretti a diventare attivi nella ricerca e, forse, nella costruzione dell’informazione. Ma dato che cercare informazioni e produrre notizie (vere e utili) è un’attività che richiede tempo, avremo bisogno di persone che lo facciano per noi. La costruzione della cornice di senso della notizia oppure l’inchiesta sul campo (non il data-journalism) hanno bisogno della visione degli umani. Anzi, di persone che siano profondamente a conoscenza dei comportamenti umani, che si voglia chiamarli giornalisti, blogger, cittadini attivi o altro. Persone che sappiano, soprattutto, comprendere gli aspetti umani delle notizie, perché un fatto è sempre frutto di un comportamento. Vi viene in mente qualcuno che fa già queste cose di mestiere?

TURISTIZZAZIONE DEI CENTRI STORICI

Non so se voi ci siete stati. Io sono andato a Venezia un paio di volte. Nel tratto dalla stazione ferroviaria a piazza San Marco mi è sembrato di essere nei corridoi della metropolitana all’ora di punta. La folla ha un suo movimento, una sua cadenza. Ma, soprattutto, non ci si può guardare intorno. Si viene sospinti inevitabilmente e badiamo a non urtarci con gli altri. Venezia, poi, negli ultimi anni è diventata, in sostanza, un parco tematico. La gente scende dai treni o

dalle navi da crociera alte il doppio della basilica di San Marco e brulica per le calli. L’effetto collaterale di questo fenomeno è stato che gli abitanti di Venezia sono migrati a Mestre o si sono sparpagliati per le isole minori della laguna, quelle fuori dagli itinerari della massa turistica.

Venezia è un caso limite, ma possiamo verificare lo stesso fenomeno in città come Firenze o Roma, in piccoli centri come Gradara o San Marino, o piccolissimi come Civita di Bagnoregio o Calcata che ho visitato di recente. Tutti questi centri storici sono stati progressivamente interessati da un fenomeno che chiamerei di turistizzazione. In pratica, quando un centro storico comincia a diventare meta del turismo  – quel turismo globalizzato per cui qualcuno parte da Haifa in Israele ed arriva a Scicli in Sicilia per vedere l’ufficio di quel Montalbano delle fiction televisive –  lentamente si compie un processo di adeguamento sociale che mira a generare guadagni da questa massa di persone: quindi, ai tradizionali negozi si sostituiscono, gelaterie, fast food, piadinerie, souvenir, cambiavalute, bancarelle varie, oltre che ristoranti, osterie e wine bar. Non finisce qui. Come accenna prima per Venezia, gli abitanti storici della zona vengono progressivamente centrifugati per fare posto ad altri. A Roma, il famoso quartiere di Trastevere ha visto la sostituzione delle proprietà e degli abitanti.

Esiste il rovescio della medaglia, soprattutto per i piccoli centri che vengono travolti dal peso del turismo in termini di risorse: serve più acqua, più pulizia, più sicurezza, più strutture sanitarie, più accoglienza alberghiera. L’economia si trasforma per far fronte a questa massa di persone che viene a “godere” di quella che era la nostra casa.

Chiedersi se tutto ciò sia un bene o un male è una domanda retorica. Il fenomeno è ormai consolidato e la globalizzazione  – soprattutto per quanto riguarda la facilità e economicità degli spostamenti –  sembra un fenomeno crescente. Crescente e, probabilmente, irreversibile. Non riesco a ricordare un solo caso di un luogo che abbia rinunciato al turismo per tornare ad un’economia locale. Forse solo una catastrofe potrebbe rallentare o fermare questo fenomeno.

Esiste, infine, una discreta quantità di persone che sono insofferenti alle folle e che, per potersi godere uno spicchio di solitudine (specie se provenienti da una metropoli) vanno in cerca di luoghi con poca gente, generando fatalmente la turistizzazione della pampas argentina, del Polo Nord e forse un giorno della Luna.

 

LE NOTIZIE AL BAR DIGITALE

È stata approvata in un primo passaggio la famigerata normativa europea sul copyright: questa notizia , analizzata anche dal sito valigiablu.it, non potrei linkarvela perché vìola questa norma. Ci vorranno degli altri passaggi da affrontare in sede di Unione Europea e poi i singoli Stati dovranno ratificarla. Molte polemiche sta suscitando e anche qui proviamo ad aggiungere un altro punto di vista.

Le informazioni e le notizie, da sempre, sono il terreno su cui si cimentano governi, dittature, agenzie di sicurezza, spin doctor, ma soprattutto giornali, radio, televisioni. Negli ultimi dieci anni è cresciuto molto il mondo dell’informazione nel web. Gli ipertesti, che permettono di inserire in una pagina foto, video e link, hanno reso capillare la possibilità di informare le popolazioni. Ma anche sono il terreno su cui si cimentano imprenditori, gruppi di potere con aziende editoriali, network televisivi che vogliono fare guadagni. L’Informazione è diventata merce e strumento di pressione della propaganda.

Noi cittadini stiamo in mezzo, usati e spremuti, perché da un lato c’è chi vuole usare le informazioni per farci acquisire una certa idea della realtà, dall’altro c’è chi ci chiede in cambio quanti più soldi possibile per queste informazioni. Entrambe delle intenzioni lecite, ma… C’è un “ma”. In tantissimi, da tutti i pulpiti, ci ripetono in continuazione che le democrazie hanno bisogno di una buona informazione perché possano rimanere efficienti e valide. Quindi molti prendono per buono l’adagio secondo cui “l’informazione è un diritto”. Con questa ultima normativa europea, l’Informazione diventa a tutti gli effetti una merce. Se si volesse applicare alla lettera questa normativa l’Europa vivrebbe un impoverimento della consapevolezza dei cittadini dell’Unione.

Ora a me è venuta in mente una similitudine. Si sa che nei bar i gestori, come servizio alla clientela, comprano dei quotidiani perché i clienti li possano leggere (e consumare qualcosa). Quei giornali consentono a molte persone di informarsi ed aumentare la propria consapevolezza. Provate ad immaginare se giornalisti e giornalai facessero approvare una legge che vieta ai bar di lasciare a disposizione i quotidiani. Venderebbero più copie? I clienti del bar correrebbero alla prima edicola a comprare il giornale per poterlo leggere al tavolino del caffè, magari evitando di far sbirciare il vicino per non beccarsi una multa? Quasi sicuramente no. Avremmo più gente informata? Sicuramente no.

Forse i nostri politici dovrebbero, al contrario, ideare nuove forme di sostegno all’informazione perché i cittadini siano sempre sufficientemente informati e non chiudere i rubinetti con la scusa del copyright. O forse vogliono proprio questo?

IL VIDEOGIOCO DEI TITOLI DI GIORNALE

Senza andare troppo indietro nel tempo, sempre dagli Stati Uniti. 2 novembre 2017, sparatoria in un supermercato a Denver: tre morti. 18 febbraio 2018, sparatoria in una scuola in Florida: 17 morti e 14 feriti. 20 marzo 2018, sparatoria in una scuola in Maryland: 1 morto e due feriti. 3 luglio 2018, sparatoria in una scuola elementare a Kansas City: 2 feriti. 26 agosto 2018, sparatoria in un centro commerciale: 4 morti e 11 feriti. In questo caso l’articolo cita espressamente cosa stava accadendo durante la sparatoria, ovvero un torneo di videogiochi. Bingo!

Esiste una tendenza scorretta da parte di buona parte del giornalismo italiano a proporre al pubblico  – implicitamente o esplicitamente –  la presunta relazione tra videogiochi e violenza, secondo lo stereotipo più consolidato, come evidenzia il titolo dell’Huffington Post che, se fosse stato scritto correttamente, sarebbe diventato: “Sparatoria in Florida in un centro commerciale”.

Appare evidente che la causa di queste sparatorie è innegabilmente la facilità di reperimento delle armi, non la frustrazione: il mondo è pieno di gente che viene frustrata dai fallimenti e non ci risulta questa ondata di omicidi. Parimenti, se fosse la frustrazione per partite e tornei di videogiochi a generare la violenza omicida, avremmo milioni di omicidi ogni giorno. Infine, viste le notizie proposte, potremmo pensare anche che, dato che molte sparatorie avvengono nelle scuole e nei centri commerciali, siano proprio questi ad essere la causa scatenante dei comportamenti omicidi. Ma siamo seri!

Il problema (negli Stati Uniti) è la presenza delle armi e una cultura da Far West che giustifica e incoraggia il possesso e l’uso delle armi. In Italia, invece, il problema è la scarsa qualità di certo giornalismo che insegue la paura del pubblico, che soffia sul fuoco consolidando gli stereotipi che finge di condannare.

Ma il problema sono i videogiochi.

SE QUESTA E’ INFORMAZIONE

Una delle accuse più frequenti che vengono mosse ai giornalisti è che i loro articoli, i loro servizi in video, le loro inchieste, siano fuorvianti perché frutto di schemi stereotipati, di pregiudizi e che, quindi, non consentono alle persone di comprendere realmente un fenomeno. Tutti si auspicano che essi riprendano un livello di correttezza e deontologia adeguata alla funzione sociale che svolgono. Si potrebbe anche ipotizzare  – come faccio nel mio libro –  che gli psicologi possano contribuire all’innalzamento degli standard informativi della nostra società. Poi accade qualcosa che palesa quanta strada vi sia ancora da percorrere.

Nell’ultimo numero della rivista Psicologia Contemporanea (n. 265)  – rivista benemerita e in corso di rinnovazione da parte del nuovo direttore –  la psicologa dello sviluppo Silvia Bonino scrive un articolo dal titolo “Relazioni disumane: il sesso con i robot“. Faccio un salto. Che coincidenza, proprio qualche settimana prima avevo scritto proprio su questo blog un articolo sullo stesso argomento. Mi lancio nella lettura e, via via che leggo, aumenta la mia perplessità. Vi spiego.

L’analisi della Bonino viene aperta da una sintesi (catenaccio) che recita: “Il diffondersi di bambole e robot con cui fare sesso rappresenta la deriva di un erotismo dove il ‘partner’ è visto come oggetto di un soddisfacimento meccanico anziché come un universo autonomo con il quale interagire“. Accidenti, è una sentenza. I titolisti avranno esagerato come al solito. Proseguo e scopro un’altra affermazione che avrebbe meritato la citazione della fonte: “Già oggi, nel mondo, alcune aziende li producono a costo elevato e per un mercato esclusivo, in alcuni casi di pedofilia“. Affermazione enorme. Un’accusa pesante. Proseguo nella lettura.

Successivamente, memore delle tante riflessioni di specialisti di cibernetica , oltre che di scrittori di fantascienza, sull’umanità possibile da parte di un un “robot”, appare un po’ semplicistica l’affermazione: “L’amore, l’affetto, la cura, l’altruismo, la cooperazione sono l’espressione quotidiana di questa socialità“. A parte il concetto di amore che, semanticamente, contiene molti significati in virtù del punto di osservazione, siamo realmente sicuri che un androide non potrà essere in grado di assolvere a quelle necessità? Il dubbio rimane.

Nella delineazione filogenetica del comportamento sessuale, leggo ancora: “Negli esseri umani il sesso si è congiunto all’affetto in una relazione emotiva e sentimentale paritaria; si è così sviluppato l’amore sessuale, in cui la sessualità non serve più solo alla riproduzione ma al mantenimenti del legame“. Dobbiamo, quindi, escludere che il sesso senza una profonda relazione d’amore sia soddisfacente? Per Silvia Bonino sembra di si perché, poco dopo, scrive: “I sex robot realizzano un preciso e univoco richiamo alla sessualità rettiliana, vale a dire a una sessualità del tutto disgiunta da qualsiasi rapporto emotivo affettivo (…) Si tratta di una sessualità preumana e disumana, antecedente alla comparsa degli affetti, in cui non si interagisce con una persona reale, ma soddisfa solo una pulsione primaria secondo una modalità del tutto autocentrate. È quanto già accade con  la prostituzione“. Ancora un’affermazione che non aiuta a capire un fenomeno che esiste da millenni. Possiamo liquidare il fenomeno della prostituzione così?

Con i robot, invece, si realizza una sessualità che è intrinsecamente di dominio e sopraffazione, poiché l’altro è oggetto completamente programmato per soddisfare i desideri dell’acquirente. In questo modo [con]  l’utilizzo dei robot si disabitua a interagire con un essere umano” continua il professore onorario di Torino. Qualcosa non torna. Se accettiamo la definizione di dominio come “avere un potere incontrastato su qualcuno” o come “tenere qualcuno sotto il proprio controllo, potere, autorità” come recita uno dei dizionari della lingua italiana ci rendiamo facilmente conto che un robot non può essere dominato in senso umano proprio perché un automa (non voglio arrivare a dire come un televisore). Tanto meno un androide può essere sopraffatto  ovvero “oggetto di una prepotenza, soperchieria o sopruso“. Infine, vista la similitudine postulata poche righe prima tra sesso con robot e prostituzione, viene da pensare che la disabituazione all’empatia, che dovrebbe essere indotta, si compia anche con le prostitute, nonostante la vasta letteratura sulle passioni e le storie d’amore tra uomini e prostitute .

Tirando le somme, ho avuto la sensazione che questa apparente analisi si riducesse ad una serie di affermazioni, poco argomentate e sostanzialmente fuorvianti. Un’analisi che lascia più dubbi che chiarezze. Perciò mi chiedo: questa è informazione? No, ovviamente no. È una dotta opinione che avrebbe meritato anche un contraddittorio ma  – si sa –  certi argomenti sono scivolosi più di una saponetta bagnata. Peccato che sia stata pubblicata da una rivista di psicologia destinata al grande pubblico. Avrebbe aiutato capire. Dovremmo fare meglio, molto meglio.

 

L’INFORMAZIONE CHE VERRÁ

Si moltiplicano gli articoli che lanciano l’allarme sulle sempre più frequenti manovre per mettere il bavaglio alla rete, dalla sua accessibilità ai contenuti stessi. È comprensibile che la libera circolazione di informazioni sul web preoccupi molto chi ha necessità di “gestire” il consenso o chi vuole semplicemente governare senza dover dare conto all’Opinione Pubblica. Negli Stati Uniti il Presidente Trump ha dato il via libera alla rete a due velocità  e ciò non stupisce perché si sa che – da sempre – chi ha più risorse può arrivare più facilmente alle informazioni, soprattutto nella logica della notizia-merce.

Ma i tentativi di normalizzazione del web vengono anche fatti indirettamente, come potrebbero suggerire i decreti legge che vengono approvati  – ufficialmente deputati alla tutela della privacy –  che mettono in allarme addirittura istituzioni come Wikipedia . Oppure si tenta di delegittimare l’intero mondo dell’informazione lanciando allarmi sulla pervasività della fake news, al punto che addirittura la Polizia di Stato ha ritenuto opportuno aprire un form con la possibilità di denuncia on line . Per chiudere con gli esempi possiamo, infine, segnalare l’ultima notizia in ordine di tempo che ci mostra che l’informazione sta diventando una maionese impazzita: la società Facebook ha deciso che saranno gli utenti stessi a decretare l’affidabilità di una notizia . Questo clima di incertezza sulla veridicità delle notizie che ci giungono dai media sta generando anche degli specifici lavori come il fact checker, il verificatore di fatti. Da tutto questo quali considerazioni si posso trarre?

Il web si è caratterizzato, in questa tumultuosa fase iniziale, nella sostanziale mancanza di regole. Essendo una situazione mai sperimentata prima, la libertà di espressione che il mezzo ha donato a tutti (mettendo tutti più o meno allo stesso livello) ha suscitato stati di ebbrezza espressiva. Inevitabile che tutto il mondo del web cominciasse ad essere plasmato, limato, limitato. Inevitabile anche che questa situazione potesse essere sfruttata da schiere di malintenzionati, siano essi dei professionisti della propaganda, analfabeti funzionali o disinformati in buonafede. Una tendenza che potrà accentuarsi ancora di più in futuro, riducendo gli sconfinati spazi di libertà e la libera circolazione delle idee.

Cosa fare di fronte a questa prospettiva? Una prima ipotesi ha come requisito il mantenimento della comunicazione digitale ad un livello dignitoso, senza eccessivi interventi sulla rete stessa in termini di connettività (come invece fanno paesi come l’Iran, la Turchia o la Cina). L’informazione mainstream difficilmente potrà tornare ad avere l’influenza sull’opinione pubblica che ha avuto nel corso del Novecento. È probabile un ritorno della newsletter come strumento di diffusione di informazioni pregiate, lasciando alle junknews siti web pagine social. La seconda ipotesi è che lo strumento digitale diventerà assolutamente inaffidabile, soprattutto per la facilità di tracciamento che renderanno facile una qualsiasi cancellazione-repressione delle informazioni scomode. Non rimarrà, a questo punto, che un ritorno alla carta. Sempre che, quando ci troveremo in questa condizione, ci sarà carta disponibile.

Fantascienza dell’informazione, forse. Una visione pessimistica, forse. Forse.

L’INGANNO DEI NUMERI

Una delle prassi più usate nel giornalismo italiano è quella di far parlare i numeri. Sparare cifre di ricerche e indagini fa molto chic e, soprattutto, permette di scaricare su entità terze le affermazioni implicite che sempre sono contenute in un articolo. Il pezzo dell’Ansa che porto ad esempio cita un’indagine statistica dell’Eures (European Employment Services) sulla violenza sulle donne. Dunque, tradotto nella abituale sloganistica giornalistica sul femminicidio (cit. uccisione della donna proprio in quanto donna. Fonte: treccani.it) ecco il titolo che viene sparato: “Violenza sulle donne: una vittima ogni due giorni”. Quindi, dal titolo si evincerebbe una triste conferma. Il lettore distratto si ferma lì. Se è donna penserà “quanti uomini bastardi!” e se è un uomo penserà “Ma che deficienti!”.
Lo stereotipo, dunque, è confermato. Chi, invece, continua a leggere l’articolo si accorge di un’anomalìa. Riportiamo un po’ di dati, ma facciamo attenzione. Quando si ricorre ai numeri per descrivere un fenomeno, ogni numero è legato agli altri, per cui chi argomenta sui numeri ha diritto a sbagliare.
Nel 2013 sono state uccise 179 donne e, rispetto alle 157 del 2012, c’è stato un aumento del 14%. Prima conclusione indotta: “gli uomini sono più bastardi dello scorso anno”. Ora arriva la delega di responsabilità. Cito testualmente: “A rilevarlo è l’Eures nel secondo rapporto sul femminicidio in Italia, che elenca le statistiche degli omicidi volontari in cui le vittime sono donne”. Si comprende, senza alcun dubbio, che si sta parlando di omicidi volontari di donne in quanto donne. Proseguiamo.
Gli omicidi di donne in ambito familiare aumentano del 16,2%, passando da 105 a 122. Qui cominciano le dolenti note perché “rientrano nel computo anche le donne uccise dalla criminalità, 28 lo scorso anno: in particolare si tratta di omicidi a seguito di rapina, delle quali sono vittime soprattutto donne anziane”. Alt! Siamo andati fuori definizione. Appare evidente che sono state accorpate al dato generale anche le donne che sono state uccise accidentalmente (es. nella rapina la morte è accidentale, non intenzionale). Inutile proseguire. Chi ha un minimo di nozioni di statistica ha già capito che i dati presentati dall’articolista non sono affidabili.
Non basta. L’articolista riporta virgolettata una dichiarazione contenuta nel rapporto Eures: “consolidando – sottolinea il dossier – un processo di femminilizzazione nella vittimologia dell’omicidio particolarmente accelerato negli ultimi 25 anni, considerando che le donne rappresentavano nel 1990 appena l’11,1% delle vittime totali”. Il dato in sé non è commentabile perché sarebbe significativo se le condizioni delle donne, dal 1990 ad oggi, fossero rimaste immutate. In realtà le donne sono uscite enormemente dalle mura familiari, lavorando e girando per strada molto di più: quindi possiamo ragionevolmente supporre che anche, scippi, incidenti, infortuni possano essere aumentati. Sono dati, quindi, non comparabili. Ma il tono della frase tradisce la tesi di fondo dell’articolo, ben specificata nel titolo.
Questo tipo di giornalismo non aiuta a capire e consolida gli stereotipi, incentivando la crescita di opposti schieramenti che poco aiutano alla comprensione delle vite degli altri.

http://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2014/11/19/femminicidi-ogni-due-giorni-viene-uccisa-una-donna_cc33c7e8-81c2-46fa-b1d6-f577eedfb727.html

Violenza sulle donne- una vittima ogni due giorni - Cronaca - ANSA.it 2014-11-19 15-12-54b

PSICOLOGIA DEL GIORNALISMO TELEVISIVO

dal sito (chiuso) psicologiadellaudiovisivo.it ripropongo questo articolo del 2008

Abbiamo poche nozioni per poter valutare le scelte a cui siamo chiamati, ma ci rendiamo conto che queste possono più o meno influenzare da vicino la nostra vita. Avvertiamo, quindi, la necessità di decidere bene. Per poter affrontare questa necessità senza avere la sensazione di essere incauti abbiamo bisogno di informazioni su cui basare le nostre decisioni. Se devo acquistare un’automobile, dovrò prevedere quanti chilometri intendo farci, che tipo di motore sarà più adatto; in base alla composizione della mia famiglia dovrò decidere quanto grande dovrà essere; in virtù della mia condizione economica dovrò decidere quanto voglio spendere e se tenerla per tutta la sua durata o cambiarla prima. Tanto meno ci affidiamo al caso, tanto più abbiamo bisogno di informazioni. Tutto può essere fonte di informazioni: un nostro vicino, la nostra esperienza, il concessionario da cui acquistiamo. Possiamo ricorrere anche alle conoscenze di sconosciuti di cui, però, ne riconosciamo l’autorevolezza, perché per decidere al meglio abbiamo bisogno di informazioni esatte. A maggior ragione abbiamo bisogno di informazioni non manipolate: il concessionario tenderà a darci solo le informazioni che possano indurci all’acquisto, mentre un nostro amico che ha la stessa auto può darci anche quelle relative ai difetti che ha riscontrato nel tempo.

Data la vastità degli ambienti in cui reperire le informazioni, siamo consapevoli di non essere in grado di andare materialmente a parlare con tutte le persone che possono avere informazioni utili. Il giornalista è la persona a cui viene delegato questo compito. Ad esso vengono dati strumenti e risorse (lavoro/stipendio e diritti) con il compito di reperire per noi le informazioni: ma, fondamentale, con l’implicito patto di riferircele correttamente, ovvero esatte e non distorte, manipolate o con delle omissioni.
È intuibile che, parimenti al nostro amico che ci indica i difetti dell’auto, il giornalista deve offrirci anche le informazioni che possono indurci a non favorire questo o quel soggetto. Si genera quindi, per il giornalista, il potere di danneggiare. Ad esso vorremmo chiedere l’assoluta imparzialità ma, nel tempo, abbiamo accettato il fatto che esso non può essere asetticamente imparziale perché, a sua volta, ha la sua personalità che dirige le considerazioni che fa delle informazioni di cui viene a conoscenza e determina l’ordine con cui decide di darle. Sul giornalista convergono le pressioni di tutti coloro che non hanno interesse a far conoscere tutta la verità: se in passato, però, le pressioni potevano arrivare dal ristretto ambito dell’area di diffusione del mezzo di informazione, la radio prima, le televisioni e la globalizzazione digitale poi, hanno moltiplicato le strade su cui possono innestarsi le pressioni. Ryszard Kapuściński, grande reporter polacco, ha detto che “il giornalista è sottoposto a molte e diverse pressioni perché scriva ciò che il suo padrone vuole che egli scriva (…) La stampa internazionale è manipolata” [Kapuściński, 2000].

Il giornalismo è stato per decine di anni un fenomeno in cui ha regnato la parola. Tanto la stampa quanto la radio si reggono sull’unico pilastro della informazione orale. Dalla metà del secolo scorso, il cinema prima e, soprattutto, la televisione hanno spostato l’asse su una modalità che ha aggiunto la visione delle notizie. L’effetto sulla società è stato formidabile. Se il giornalismo filmato nasce come elemento spettacolare da affiancare ad un’informazione che restava verbale, ben presto ne viene intuita la forza capace di plasmare le nostre rappresentazioni sociali. Queste sono, come afferma Moscovici, “un sistema cognitivo costituito da valori, nozioni e pratiche: una struttura di implicazioni che connette inestricabilmente la dimensione cognitiva a quella dei valori e delle pratiche” [Moscovici, 1989]. Il giornalismo ha, dunque, assunto una modalità bipolare che ha duplicato le possibilità di offerta di informazioni ma, al tempo stesso, ne ha aumentato i vincoli. Soprattutto rispetto alla coerenza tra le informazioni verbali e quelle visive. Sono ben tre i veicoli comunicativi che il giornalista televisivo si trova a dover gestire, quello visivo, quello sonoro e quello verbale: e ciò è tanto più vero perché nel nostro cervello, per ciascuno di essi, si attiva una parte diversa della corteccia cerebrale [Lurija, 1984].
Progressivamente la parte verbale è diventata subordinata al binomio suoni/visioni. A testimoniarlo vi sono le stesse parole dei giornalisti che, quando vengono proposte le immagini di un fatto reale, si fanno da parte con la rituale formula: “Ed ora vi proponiamo le immagini senza alcun commento”. Se da un lato diventa evidente la forza spettacolare nel poter mostrare un evento mentre è accaduto (e non riportarlo successivamente), dall’altro diventa altrettanto evidente il vantaggio di poter portare “alcune” informazioni a conoscenza di masse di persone con una modalità che non è più esclusivamente razionale/corticale (la parola scritta del giornale), né razionale/evocativa (la parola parlata della radio). Il linguaggio audiovisivo (immagini, parole e musica) è strutturalmente un veicolo emozionale. Infatti, un frequentatore di lungo corso della tv italiana, Maurizio Costanzo, ha detto: «tutta l’informazione televisiva è più espressiva che comunicativa (…) Quindi, la realtà mediata dalla televisione è filtrata dallo spettatore, il quale – per via delle caratteristiche del mezzo – è spontaneamente portato a concentrarsi sui contenuti più espressivi, sulle immagini, sui colori (via periferica). La notizia passa in secondo piano»” [Agresta, Paglia, 1998].
A conferma della dimensione emozionale del giornalismo televisivo esiste la controprova della “stampella musicale”. È diventata prassi inserire, tra lo stantìo testo e le immagini del servizio, una bella musichetta che aiuti la nascita dell’emozione che si vuole far suscitare. Quando si mira direttamente alle emozioni del telespettatore è segno che si è rotolati direttamente nella fiction e le informazioni realmente contenute nel servizio sono inevitabilmente inquinate. Ciò è tanto più vero per i rotocalchi (come quello di Iacona del Tg3 o degli pseudogiornalisti delle Iene di Italia 1) che per i telegiornali. Basta mettere una bella musica e si mira direttamente alla pancia ed all’angoscia (o al ridicolo) del telespettatore.
Uno strumento di questa potenza è diventato, inevitabilmente, preda dei gruppi di potere che hanno scopi diversi da quelli del giornalismo “puro”. Questi hanno praticamente monopolizzato mezzi e prassi dell’informazione audiovisiva.
Un altro “effetto di ritorno” della diluizione del giornalismo televisivo è la quasi costante assenza di pertinenza tra le immagini del servizio e le notizie del testo. E se per i grandi eventi è comprensibile (mica c’è sempre una telecamera in ogni evento), per i servizi generici risultano sconfortanti quelle di repertorio. La scarsa cura dell’immagine di repertorio denota la sciatteria di chi realizza il “pezzo” o di chi lo ha commissionato che, probabilmente, non ha dato i tempi adeguati per le ricerche d’archivio.

Molto si è studiato degli effetti che l’azione dei giornalisti ha sui singoli e sulle masse, molto meno si è ragionato intorno agli effetti che il giornalismo ha sui giornalisti. Come abbiamo visto, il giornalista espleta un ruolo affidatogli dalla società. Ogni società, oltre al mandato generale, mette delle regole implicite consone ad ogni area particolare: un giornalista in Cina lavorerà diversamente da un suo collega in Canada. Il giornalista italiano assumerà dei comportamenti e delle censure in osmosi con la società che lo contiene. In questi anni si è fatta sempre più evidente la corrente di pensiero che vede la categoria professionale dei giornalisti assurgere al ruolo di casta [Lopez, 2007; Grillo, 2007]. Questo approdo è, probabilmente, frutto di una strategia di autodifesa della categoria che si è trovata di fronte all’impossibilità di adempiere al mandato sociale della professione. Da un lato esiste la spinta della massa delle persone fuori dei circuiti di potere che chiede le “informazioni” (tutte le informazioni); dall’altro c’è il sistema di potere di tipo arcaico dei gruppi di interesse (dagli imprenditori alla Chiesa cattolica, dalla mafia ai vari livelli della politica). A questo punto non si tratta più di reperire e riportare semplicemente delle informazioni, ma di fare un lungo percorso attraverso varie istanze compromissorie. Per non rimanere schiacciati, i giornalisti si chiudono entro le “mura professionali” e rimangono aggrappati a due pilastri consolatori: il senso di comunanza derivata dall’identità e l’autoreferenzialità. Il primo aggrega nella difficoltà e permette di far attutire (se non sparire) gli elementi di autocritica: questi, infatti, possono alimentare il senso di colpa rimosso per non essere in grado di espletare la propria funzione. Il secondo è alimentato dal narcisismo (che è una normale difesa della personalità). Il ragionamento assolutorio è di questo tipo: “noi facciamo pochi errori perché sappiamo più cose degli altri, per cui le critiche non ci toccano perché noi sappiamo e loro no; e se facciamo degli errori sono dovuti a cause non dipendenti dalla nostra volontà”. Nei casi estremi il ragionamento assolutorio è talmente implicito che neanche i protagosti stessi ne sono consapevoli. Il punto su cui si compattano le mosse di identificazione sono incarnate dall’Ordine Professionale, che accorpa e difende la categoria, ma anche da un’etica professionale che, però, è autogenerata e non mediata con l’esigenze della società.

In questa condizione generale del giornalismo italiano, si innesta un altro fattore derivante dallo specifico televisivo, ovvero la forte esposizione della persona. Giornalisti della stampa come Giorgio Bocca, come Ettore Mo, hanno svolto tutta la loro carriera avvolgendosi nelle loro parole: tutto il loro lavoro veniva giudicato dai lettori solo in base a quanto scrivevano. I giornalisti televisivi hanno la difficoltà ulteriore di dover raccontare usando le immagini. Questa maggiore difficoltà può essere compensata dall’effetto amplificato che ha il loro lavoro. Quasi contemporaneamente, però, i giornalisti televisivi hanno cominciato a farsi vedere nell’inquadratura. Lentamente, quindi, nasce la “dittatura dello stand-up”. Lo stand-up è quella ripresa in cui viene mostrato il giornalista sul luogo della notizia. Nasce come una sorta di certificazione della veridicità della fonte ma diventa, progressivamente, specchio della corazza narcisistica sviluppata dai giornalisti. A conferma possiamo evidenziare il lavoro di alcuni giornalisti televisivi che molto di rado appaiono in video e, quando accade, magari sono di spalle o “di quinta”. Ben diversa è il “narcisismo da conduzione” che deriva dalla forte esposizione dei giornalisti che leggono le notizie del telegiornale. In essi si genera una forte pressione giudicante esercitata dall’opinione delle persone sconosciute che guardano senza che le si possa guardare a proprio volta. Questa forma di narcisismo accomuna i giornalisti televisivi con tutti i personaggi che la televisione rumina, dalle veline ai comici, dai professionisti del talk show ai conduttori dei programmi. Ma, ancor più del misterioso “parere della gente”, il narcisismo da conduzione è alimentato dalle persone che circondano il giornalista: la mamma, la portinaia, il parrucchiere, il gommista. Attraverso il feedback delle loro opinioni il giornalista si sente di acquisire autorevolezza e di godere della benevolenza della “gente”. In tutto ciò l’etica professionale e l’efficacia della comunicazione diventano assolutamente secondarie. Naturalmente, tutto quanto rimarcato fino ad ora, accade attraverso la modulazione delle personalità di ciascuno. Come anche accade in maniera differente tra maschi e femmine.

Il giornalismo televisivo risulta, quindi, essere un formidabile strumento per influenzare l’agenda setting [Losito, 1995] delle persone. La sua efficacia si avvale della potenza emozionale delle immagini. Un giornalismo televisivo fatto male è quello che mira alle emozioni della gente, un giornalismo televisivo fatto bene è quello che mira a rendere informate le persone. Oltre il dualismo emozionale, il giornalismo televisivo può essere esteticamente e linguisticamente realizzato in modo fa favorire o confondere la comprensione. Infine, il giornalismo ha effetti subdoli sulla personalità dei giornalisti non sufficientemente maturi: gli effetti possono incidere su varie strutture caratteriali con effetti più o meno distorcenti sulla percezione di sé e sul principio di realtà. Inoltre, a cascata, queste vanno ad influenzare il prodotto del loro lavoro e del servizio-delega di cui usufruiamo come utenti.

Bibliografia

– Agresta S., Paglia G.; “L’arte di guardare la Tv … e rimanere sani”; Milano, 1998; Edizioni Paoline
– Grillo, B.; beppegrillo.it
– Kapuściński R.; “Il cinico non è adatto a questo mestiere”; Roma, 2000; Edizioni e/o
– Lopez, B.; “La casta dei giornali. Così l’editoria è stata sovvenzionalta e assimilata alla casta dei politici”; 2007; Nuovi Equilibri
– Losito, G.; “Il potere dei media”; Roma, 1995; La Nuova Italia Scientifica
– Luria, A.R.; “Come lavora il cervello”; Bologna, 1984 ; Ed. Riuniti
– Moscovici, S.; “Le rappresentazioni sociali”; Bologna, 1989; Il Mulino

L’AUTOREVOLE BUFALA

Qualche mese fa, in primavera, salta fuori l’ennesima notizia della ricerca americana che giunge ad affermare che i selfie – le foto che si fanno a se stessi dagli smartphone – sono classificabili come un disturbo della personalità. Da aprile ad oggi la “notizia” è ribalzata dai media a Twitter e viceversa. Chi ha letto la notizia è possibile che sia stato raggiunto da un dubbio: quel gioco che mi sembrava goliardico e chiassoso che era fare dei selfie ripetuti è un segno di un disturbo della personalità?
Poi c’è stato chi, con pazienza, è andato a verificare la notizia e pare che sia l’ennesima bufala: non esiste alcuna ricerca dell’APA (American Psychiatric Association) che affermi quanto riportato negli articoli.
Quali sono, dunque, gli effetti collaterali della bufala giornalistica? Molte persone possono avere una percezione distorta della propria realtà e della normalità della propria vita. Inoltre, quando la bufala viene svelata, viene ulteriormente sminuita l’autorevolezza del media e del giornalismo in generale: tutto il giornalismo. Le persone non si fidano più di chi offre notizie e ciò vale anche per le notizie vere, esatte.
In un esercizio di dietrologia si potrebbe pensare che la diffusione di bufale giornalistiche, con conseguente discredito del mondo dell’informazione, possa essere il risultato dei gruppi di potere che, non potendo più controllare tutto nell’epoca di internet, puntano al totale discredito per indurre le persone a fare di tutta l’erba un fascio: “i giornalisti dicono un sacco di fesserie”.
Più semplicemente, la bufale giornalistiche diminuiscono il livello di sicurezza nel pubblico, nella società.

Ti fai il Selfie- Hai un disturbo mentale - titolo ilmattino

Lo studio USA che ha scoperto la -selfite- è una bufala - Squer.it

IMMAGINI, TELEGIORNALI E INFORMAZIONI

dal sito (chiuso) psicologiadellaudiovisivo.it ripropongo questo articolo del 2004

Qualche giorno fa il critico televisivo de La Repubblica , Sebastiano Messina, si rallegrava del ritorno in tv di Milena Gabanelli, giornalista d’assalto e pluripremiata che incarna l’inchiesta televisiva a basso costo. Nello specifico, Messina apprezzava il lungo reportage sulle derive dell’ONU e soprattutto del fatto che i giornalisti che lo avevano realizzato ci facevano vedere ciò di cui parlavano, grazie alle loro piccole telecamere, le stesse con cui noi ci giriamo i filmini delle vacanze. Riflettiamo un attimo. Un giornalista si compiace del ritorno eccezionale di un altro giornalista che riesce a fare informazione. L’ordinario diventa straordinario a detta proprio di chi lo fa. Notevole!

Se, dunque, ad un giornalista fa impressione che una collega riesca a fare dell’Informazione in tv, allora è ipotizzabile che riuscire a dare “informazioni utili” non sia così scontato. Nel senso elementare del termine, ovvero nel semplice passaggio di informazioni, tutto nella nostra vita può essere informazione. Valanghe di studi sociologici, semiologici e linguistici ci hanno mostrato il complesso universo della comunicazione. Ma il senso dell’informazione a cui si rifaceva il critico del La Repubblica evocava un mondo di informazioni utili alla comprensione del mondo: si può immaginare che le informazioni utili siano quelle che ci arrivano già organizzate. Il mondo della comunicazione globale e ridondante che stiamo vivendo ci suggerisce che una marea di informazioni ci obbliga ad un pesante lavoro di selezione che diventa, alla lunga, fine a se stesso. Ai professionisti dell’informazione (che non sono solo i giornalisti) si chiede di filtrare e organizzare per noi queste informazioni. Quindi, alla Gabanelli di turno, si chiede di dare delle informazioni che completino quelle di cui posso venire in possesso per i normali canali. La particolarità del caso citato riflette una condizione propria della televisione del nostro tempo. Il rapporto tra immagini proposte e notizie contenute è bassissimo. In una ricerca fatta dall’Associazione Italiana Telecineoperatori si prendeva in esame un telegiornale (Studio Aperto, Italia 1). Nella semplice analisi si notava come le immagini pertinenti alla notizia che si stava dando erano pochissime. E se in alcuni casi era difficile proporre delle immagini specifiche per una notizia come il rincaro del petrolio, diverso era il caso dell’incidente sul lavoro in cui le telecamere arrivano sempre molto dopo l’evento, per cui il massimo che possono farci vedere è il luogo dell’evento. Ricordo una volta che venne data una notizia di un regolamento di conti con relativo ritrovamento di conti del cadavere in una campagna. Le immagini facevano vedere degli alberi ed un campo appena arato: immagini buone per un servizio di agricoltura, ma non per un fatto di cronaca nera.

Il problema è nel fatto che per poter riprendere un evento è necessario esserci per caso o saperlo prima e appostarsi. In tutti i casi è molto difficile. Ecco perché il telegiornale è generalmente povero di immagini contenenti informazioni; come pure si comprende il fenomeno dei programmi di real-tv in cui si propongono i filmati amatoriali fatti da persone che si sono trovate al momento nel posto giusto. E’ il caso, emblematico di questa trasformazione dell’informazione televisiva, della morte di Carlo Giuliani, nel 2001 a Genova, durante il G8: c’erano tante di quelle telecamere che era fatale che qualcuna riprendesse qualcosa di significativo.

Per concludere possiamo pensare che l’unica possibilità di aumentare le informazioni contenute nelle immagini è di generare strutture on-demand in cui andare a vedere direttamente i filmati significativi, quelli che contengono veramente informazioni. I normali telegiornali si ridurrebbero in strumenti obsoleti, zeppi di notizie ridondanti (pensiamo ai testi letti prima delle notizie che ripetono pari pari le parole contenute nel servizio), condannati ad una cadenza eccessiva e quindi ripetitivi (un servizio di cronaca può essere ripresentato nella stessa forma dall’edizione del mattino a quella della notte): insomma, buoni per quelli che vogliono rimanere con la testa nella sabbia.