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VIDEO VERTICALI

Potremmo iniziare questa sintetica disamina con un’ipotetica legge. Sono gli strumenti, oltre gli scopi, a determinare le modalità di utilizzo che si consolidano nel tempo. Il risultato è una procedura, fatta di regole e convenzioni, che potremmo chiamare anche linguaggio. Con questa premessa si può partire verso una prima comprensione di genesi e utilizzi del video verticale che può partire, inevitabilmente, dal formato orizzontale. Il formato 4/3 nasce con la pellicola fotografica. Già con i caricatori a rullo in celluloide di Eastman, il  formato che si impone è quello che si riscontra nelle Kodak. I fratelli Lumière, infatti, approdano naturalmente a questo formato per i loro primi film .

Se la scelta del formato orizzontale potrebbe essere frutto del caso, il suo uso si consolida perché consente di avere più elementi nell’inquadratura, soprattutto le figure umane. Ma, soprattutto, perché noi ci muoviamo lungo linee parallele al piano (al contrario di pesci ed uccelli). Nel primo cinema-teatro rappresentato dalle comiche, le entrate e le uscite dei personaggi, il posizionamento degli elementi significativi fuori campo sono prevalentemente lungo la linea orizzontale . L’uso determina, in base alla legge generale, lo sviluppo del linguaggio, sviluppatori e raffinatosi nel tempo.

Il video verticale nasce come conseguenza della “legge generale”: lo strumento che lo genera è lo smartphone che, dato che si impugna come un telefono e che le fotocamere che li equipaggiano sono impiegabili tanto in orizzontale quanto in verticale (seguendo la funzione mutuata dalle macchine fotografiche e, prima, dalla forma delle tele dei pittori), essi conservano questa possibilità anche nella modalità video. Quindi, mentre il formato orizzontale si genera dagli addetti ai lavori (fotografi e cineasti) per arrivare ai consumatori, il video verticale fa il percorso inverso.

I social network hanno introdotto presso il grande pubblico la prassi del video verticale. Gli utilizzatori degli smartphone hanno sfruttato la possibilità di postare sui social i loro video ma, non avendo un background cinetelevisivo, hanno usato l’apparecchio secondo l’ergonomia più semplice, creando un uso ponderoso dei video verticali. A tutte le entità che si occupano di video non è rimasto che adeguarsi: software di montaggio, produttori di accessori, siti di streaming. Tutti si sono visti costretti a inseguire questa nuova modalità. Dato che l’utilizzo principale del video verticale è stato quello partecipativo e condivisivo determinato dai social (selfie, ritratti in generale, videochiamate), appare evidente che la figura umana diventa cardine dei video, consolidando nel tempo una grammatica e una sintassi che perde la dimensione orizzontale.

L’origine sociale del video verticale può essere spia degli impieghi ottimali delle riprese in verticale. Tutti i video che riguardano la figura umana ottengono una buona fruibilità. La qualità (non tecnica, bensì linguistica) comincia a decadere quando le figure umane cominciano a muoversi nello spazio. Proprio perché esse di muovono secondo direttrici orizzontali, il video in verticale rende più difficoltosa e meno descrittiva la ripresa di eventi in cui occorre una visuale più ampia per comprendere ciò che accade nella scena. Parimenti, aumenta la difficoltà a gestire le componenti verbali (grafiche e scritte) proprio perché esse si sviluppano in orizzontale.

Naturalmente, in molti hanno provato a sviluppare dei prodotti di livello professionale in forma verticale. In rete troviamo, oltre i video di emanazione del sé (quelli in cui si riprende se stessi o persone del proprio mondo), sono stati prodotti spot pubblicitari, video di informazione, qualche cortometraggio con ovvia nascita di rassegne e premi per i video in verticale. Forse, l’ambito in cui i video verticali hanno trovato la funzione ottimale è quella destinata ai monitor posizionati nelle vetrine dei negozi.

L’influenza sul linguaggio del video ergonomico da smartphone ha assunto forme e dimensioni paragonabili ad un dialetto, ovvero di forme d’espressione che privilegiano l’immediatezza della comunicazione a discapito della correttezza. Sono forme “sporche”, più vicine alla lingua orale e colloquiale che a quella scritta e formale. D’altra parte, considerando che il contesto plasma la funzione della comunicazione, il fatto che questi video finiscano tutti nel circuito social (sia di streaming come Youtube o TikTok, sia della messaggistica come Whatsapp o Telegram) rende superfluo il montaggio. I software di editing per video verticali esistono ma sono ampiamente sottoutilizzati dalla massa degli utenti.

Tutti i generatori di video in rete, qualunque essi siano, spesso ormai hanno il problema di dover conciliare in un unico prodotto le clip generate nei due orientamenti. Ecco che il problema è stato risulto attraverso il riempimento delle zone che altrimenti sarebbero vuote con la manipolazione dell’immagine originale, opportunamente tagliata e sfuocata, così di richiamare colori e movimenti dell’originale senza averne la stessa intellegibilità, quindi riducendo al minimo l’interferenza sui processi dell’attenzione.

Il video in verticale, dunque, è frutto della tecnologia ed ha goduto di un successo antropologico più che linguistico. È probabile che, in futuro, rimarrà in uso soprattutto negli ambienti in cui è nato, ovvero i social. Probabilmente si aggiungerà a tutto il panorama delle possibilità espressive consentite dalla tecnologia, ma con ambiti ristretti, come già accaduto per il 3D.

DIETRO IL MARKETING DEL PORNO

Si sa che il mercato del porno muove cifre incomparabili con tutto il resto del mondo audiovisivo, secondo solo ai videogiochi . Si sa, anche, che ormai la componente principale del porno sono i video. Il marketing, però, è in costante movimento ed uno dei principali siti web di pornografia, Pornohub, ha realizzato questo video in cui lancia un nuovo prodotto, ovvero un account in abbonamento per e coppie.

È interessante notare gli aspetti stilistici scelti per questo video promozionale. La musica è il classico tappeto, allegrotta ma non ingombrante. La scelta dei testimonial è interessante e testimonia il dosaggio nella rappresentazione del target. Coppie, dunque, etero bianche (due coppie), etero nere, gay e lesbiche, tutte sorridenti e di spirito.

Questo video e questa iniziativa commerciale testimoniano come ormai il porno stia uscendo dalla clandestinità morale e acquisti progressivamente una sua collocazione nella società. Chi di voi vuole verificare ed esplora uno di questi portali del porno, si accorge che foto e video arrivano da ogni parte del pianeta. E non si tratta solo di finzioni da set, bensì una larga parte è costituita da video amatoriali, fatti con smartphone o camcorder consumer.

Il cortocircuito creato dalla diffusione dell’accesso alla rete e dalla capacità di realizzare immagini per chiunque, ha portato gli utenti del porno a diventare attori dello stesso mercato fornendo, per di più, materiale gratuito per questi hub. Soprattutto questa partecipazione ha permesso un forte senso di partecipazione e identificazione. Molto probabilmente, che possa piacere o meno, questo fenomeno influenzerà sicuramente la percezione del sesso in vasti settori della popolazione mondiale. E l’amore? L’amore non fa parte del mondo del porno e rimane una dimensione privata.

DA CANDID CAMERA AI FINTI ESPERIMENTI SOCIALI

E’ di moda negli ultimi mesi usare il video per mostrare il comportamento delle persone. Non è un utilizzo nuovo, naturalmente. Antesignano è stato il programma televisivo statunitense, ripreso in Italia negli anni Settanta da Nanni Loy (titolo: Specchio segreto). Candid camera indica genericamente una forma di registrazione video effettuata con una macchina da presa nascosta. Il meccanismo è alla base di alcuni programmi televisivi costituiti da sketch in cui passanti o personaggi famosi sono messi di fronte a situazioni paradossali allo scopo di registrarne le loro reazioni. In questo caso, dunque, è palese l’intento di intrattenimento: si provocano le persone ignare per spiarne i comportamenti attraverso la ripresa. A conferma della dimensione ludica c’è il fatto che, alla fine, alle persone viene rivelato che sono state riprese e che era un gioco.
Spiare le persone con una telecamera diventa, quindi, un’occasione imperdibile per chi vuole mostrare il comportamento della gente. Ecco che nascono gli “esperimenti sociali candid”, ovvero delle situazioni messe in piedi con l’intento di riprendere i comportamenti delle persone.
Ha avuto una certa risonanza quello realizzato a New York in cui si cerca di mostrare le molestie sessuali verbali che una ragazza deve subire quando cammina per strada. Il titolo del video è “Dieci ore di cammino a New York” ed è una serie di percorso fatti da una ragazza e preceduta da una persona che ha una microcamera indosso. Vengono registrati 108 apprezzamenti in 10 ore di passeggiata: in media poco più di 10 ogni ora, ovvero uno ogni 6 minuti. Il video in questione è stato realizzato da un’associazione che si propone di mostrare la pressione psicologica a cui si trova sottoposta una donna a New York quando cammina per strada. L’imbeccata per i media è appetitosa ed, infatti, molte testate online rilanciano il video del “esperimento”. C’è un problema, però, che nessuno evidenzia perché rovinerebbe l’effetto “notiziabilità”: quanta scientificità c’è nei video di questo tipo? Proviamo ad analizzarlo.
L’ipotesi di ricerca (implicita) è: le ragazze a New York sono sottoposte a molte molestie sessuali verbali. E’ possibile evincere questa ipotesi anche dalla descrizione data dall’associazione Hollaback!, rintracciabile su Facebook, che è promotrice della campagna e del video in questione. Viene specificato, infatti, che “Hollaback! è un movimento internazionale che ha l’obiettivo di mettere fine alle molestie in strada”. Altrettanto esplicito è il concetto di “normalità” che viene auspicato dalla stessa associazione: “Crediamo che tutti noi abbiamo il diritto di sentirci al sicuro e a proprio agio negli spazi pubblici senza essere il bersaglio di discorsi e comportamenti sessisti, omofobici e transfobici o offensivi”. Appare evidente che lo scopo dell’esperimento video è di dimostrare queste tesi.
Se guardate il video potrete notare che i tagli in montaggio sono numerosi e – come sanno tutti quelli che praticano la nobile arte del montaggio – la dimensione che viene manipolata principalmente col montaggio è proprio il tempo. Non a caso Alfred Hitchcock soleva dire che “il cinema è la vita a cui sono stati tolti i momenti noiosi”. Questo cosa implica ai fini della tesi sostenuta dagli sperimentatori? Implica che la “pressione psicologica” sulla ragazza che cammina non è misurabile. E’ innegabile che vengano fatti degli approcci, ma in quanto tempo? Se le dieci ore di passeggiate sono state registrate in dieci giorni, la suddetta pressione sarà molto diluita; al contrario se è fatta nella stessa giornata, allora sarà molto alta. Per passare ai commenti fatti dagli uomini alla ragazza che cammina, è facile notare come la dimensione “sessista o offensiva” implicita nella tesi degli autori viene anch’essa molto diluita. Non si può certo dire che frasi come “Come stai oggi?”, “Sorridi. Non è giusto”, “Hey, come va, ragazza?” (per citare tra le prime che vengono montate) siano frasi sessiste o offensive. Sicuramente sono frasi dette per approcciare e, altrettanto certamente, alla lunga possono essere faticose da ignorare.
Tirando le somme, il video-esperimento è più empirico che scientifico. Rappresenta dei comportamenti ma non è possibile trarne delle generalizzazioni. Dà delle indicazioni ma non è una fedele rappresentazione della realtà: un modello, più che la vita. E come recita una delle laconiche Leggi di Murphy: “confondere un modello con la realtà sarebbe come andare al ristorante e mangiare il menù”.

L'esperimento di un giornalista, per 10 ore con la kippah a Parigi - Europa - ANSA.it 2015-02-18 10-22-11

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GLI ANTICORPI ALLE IMMAGINI – Le forme di resistenza alle immagini che ci impongono

dal sito (chiuso) psicologiadellaudiovisivo.it ripropongo questo articolo del 2004

Un impulso improvviso e il nostro pollice scatta inaspettatamente. Sul televisore appare un altro canale. Zapping inconscio . Oppure ricordate la vostra espressione soddisfatta quando avete cancellato la faccia beota del presentatore con un semplice click. Nessun rimpianto, era legittima difesa. Ma tutto ciò è l’esito finale di un lungo processo. Prendiamola da lontano.

Dei nostri sensi, il primo a funzionare è l’udito che, già mentre siamo nella pancia di nostra madre verso il sesto mese, comincia a farci sentire i suoni e la voce materna in particolare. A partire da allora, il suono della voce sarà il principale riferimento su ciò che accade fuori di noi. Le voci, i dialoghi, i racconti ci permettono di sapere eventi e storie lontane. La tradizione orale ha perpetuato nei secoli questa modalità fino al penultimo artificio tecnologico: la radio.

Ma, con il cinema sonoro prima e la televisione poi, la narrazione è diventata audiovisiva . Questa avuto un successo tale che ha inciso profondamente nelle nostre abitudini, come ben sanno gli studiosi di linguaggio e di società come Omar Calabrese che evidenziava l’influenza della tv nei modi di parlare [Jacomella, 2004]. La diffusione della televisione, e quindi dell’audiovisivo, è stata capillare: da indagini Istat si apprende che solo il 7% degli italiani afferma di non avere un televisore [Nardecchia, 2004]. Questa situazione ha determinato progressivamente una dipendenza del pubblico televisivo dall’informazione proveniente da questa fonte. Senza voler ricorrere ai sintomi indiretti come gli appelli del Papa e del Presidente della Repubblica, basta constatare il rapporto tra spettatori dei tg e lettori di quotidiani che al 2003 era di oltre due volte superiore [Polo, Gambaro, 2003). E se ne sono accorti i pubblicitari che investono sempre più nella comunicazione commerciale in tv. Ma c’è un effetto meno evidente ma sempre più forte, con connotati psicosociologici.

Noi ci orientiamo nella vita attraverso delle personalissime mappe cognitive , ossia un modo di ricordare una pluralità di informazioni dislocate nello spazio [Bonino, 2000]. Progressivamente si è esteso questo concetto a tutte le informazioni, quindi contemplando il tempo, le emozioni, la memoria, i valori e tutto ciò che contribuisce a farci esprimere una valutazione di noi e del mondo. Oltre alle mappe cognitive, usiamo vari artefatti come strumenti di modifica dell’ambiente che ci circonda. E se lo strumento modifica l’ambiente esso trasforma l’uomo [Smorti, 2004] che lo usa: la televisione è uno degli strumenti che usiamo in modo esponenziale. Ciò è vero a tal punto che l’estremizzazione di questo fenomeno si riassume nella famigerata frase di Marshall McLuhan: il medium è il messaggio [McLuhan, 1990].

E questa televisione contemporanea ci sta bombardando con programmi di informazione . Basti solo alla proliferazioni di edizioni dei vari telegiornali: solo nei network nazionali vie etere se ne trasmettono 49 al giorno. Senza contare tutte le altre rubriche, dal gossip all’inchiesta. I telegiornali sono istituzionalmente la realtà che entra in casa per cui la nostra idea di ciò che accade ci viene innanzitutto da lì, anche se sono innumerevoli gli studi e le opinioni che dubitano della capacità di un telegiornale di rappresentare la realtà, soprattutto in Italia. Ma esistono dei territori più confusi, ovvero quelli dell’ infotainment che uniscono informazione e intrattenimento e si riducono ad una spettacolarizzazione dell’informazione [Grasso, 2002]. Ma non basta. Fare spettacolo con la realtà è diventato un tale imperativo che è esplosa l’offerta di reality show in cui si finge di fare vedere (e riprendere) delle persone “normali”, infatti “ il reality show è una macchina narrativa implacabile, organizzata fin nei minimi particolari ” [Grasso, 2002].

La realtà viene spinta a viva forza nel teleschermo anche da altri tipi di programmi: i real TV . In questi programmi vengono proposte immagini amatoriali, girate dal pubblico stesso, che mostrano feste di compleanno, matrimoni, vacanze, cerimonie, saggi di varie forme, animali, e tutto ciò che ci è più prossimo che, a sua volte, passa attraverso la patente di veridicità e notorietà della televisione. Il passaggio in tv toglie dall’anonimato le nostre attività quotidiane. Ma, al tempo stesso, la struttura del programma tende a sottolineare “ la natura di filtro asettico della televisione, protesa sul mondo, per restituirlo in maniera affidabile, veritiero ” [Grasso, 2002].

Tutti questi programmi, informazione, infotainment, reality show, real tv, si fondano sul presupposto che la TV ti fa vedere la realtà e, noi professionisti della televisione, ci limitiamo solo a renderlo più gradevole nella forma .

Ma ci sono effetti collaterali. Tutta questa offerta di confezioni di realtà ci induce subdolamente a pensare che, se è tanto facile che la realtà entri nel televisore, allora anch’io posso finire in TV in qualsiasi momento . Ciò è tanto più possibile perché negli ultimi quindici anni c’è stata una diffusione esponenziale delle telecamere, tanto amatoriali quanto professionali [Scarta, 2004] LINK. Cominciamo a sentirci inseguiti dalle telecamere e dalle immagini audiovisive . Ma, mentre se andiamo al cinema o guardiamo un film in vhs o dvd possiamo decidere come e quando vedere le immagini, con l’immagini televisiva è diverso. Inoltre, i punti in cui ci imbattiamo in televisori accesi si stanno moltiplicando: addirittura stanno nascendo le TV per i supermarket [Angì, 2004].

La possibilità di essere carpiti e sbattuti in TV e visti dalle altre persone è suffragata da una miriade di episodi quotidiani: i passanti che vengono intervistati su qualsiasi argomento; immagini frutto di telecamere a circuito chiuso; pubblico ospite dei vari programmi; per arrivare al caso di una prostituta in Germania che ha vinto ad un quiz show e che è stata riconosciuta dai suoi clienti che, a loro volta, hanno svelato la sua vera attività [Venerdì de La Repubblica, 2004].

Non a tutti piace questa situazione. E, chi più e chi meno, mettiamo in moto dei meccanismi per difenderci da questa invasione . Le razioni più elementari sono quelle della fuga, della difesa passiva e della difesa attiva. La fuga la compiamo quando evitiamo l’aggressione senza neanche provare a gestire l’evento. Se la pubblicità irrompe in un film o in una partita ecco che il pollice sul telecomando scatta stizzito e usiamo lo zapping come uscita di sicurezza. Ma questo meccanismo è soprattutto per le persone che vivono con ansia e fastidio queste situazioni. Chi è più tranquillo riesce a “staccare” l’attenzione e si rifugia in pensieri propri. Possiamo avere, però, delle reazioni di difesa passiva in cui si usano delle opportunità esistenti per modificare la situazione: un esempio è spegnere, rinunciando a guardare il programma e andando a fare qualcos’altro. Oppure aggirare la fragorosa proposta televisiva noleggiando o acquistando film, componendosi autonomamente il proprio palinsesto (ormai il libreria e in edicola è buona l’offerta di programmi oltre che di film). Infine, quando siamo saturi, stufi e incazzati, possiamo decidere di “fare qualcosa” per inficiare questo andazzo. Una difesa attiva ci può spingere a fondare una telestreet, la tv di quartiere che aggiunge le immagini a quello che erano le radio libere degli anno ‘70. Ci può spingere a fondare addirittura una televisione di informazione underground [La Repubblica, 2004] o un canale satellitare ad azionariato popolare [Scalise, 2004].
Ma le forme più forti emotivamente sono quelle che vediamo nella foto scattata a Milano e che testimonia in modo forte il timore sull’invadenza delle telecamere. Oppure dai corsi di regìa organizzati a Lodi per i bambini, perché questi non siano più vittime della TV e nella speranza che, pur non avendo una generazione di registi, almeno di averli spettatori consapevoli [Il Messaggero, 2004].
Per arrivare, addirittura, alle forme goliardiche e artistiche di resistenza come le visite guidate alle telecamere di sorveglianza sparse per la città e relativi sberleffi davanti all’obiettivo [Reboli. 2003].

E’ cominciata la Resistenza, dunque. L’eterno conflitto tra chi ti vuole convincere e chi vuole rimanere autonomo . Si è stanchi di avere nelle nostre mappe cognitive questo monolite che invade tutto con le sue interferenze e pretende di imporre il suo modo di interpretare la realtà. E la partita potrebbe cominciare a diventare interessante, perché le risorse in campo si stanno riequilibrando leggermente proprio grazie alla tecnologia. Su internet cominciano a trovare spazio quei filmati che si vogliono occultare nelle grandi aziende di audiovisivi. Oppure, similmente a quanto è già accaduto all’informatica, con la virulenta attività degli hacker che con la loro etica slegata sono fonte di smarrimento in tanti, anche nelle immagini audiovisive potrebbero arrivare i “guastatori di immagini”: esistono già, si chiamano Adbusters e interferiscono con i messaggi pubblicitari sui manifesti stradali [Lipperini, 2004] e potrebbero arrivare tra un po’ anche agli audiovisivi.

Un bel problema, dunque, se questi telespettatori cominciano anche a fare della resistenza. Ci aspetta una guerra a colpi di dissolvenze e pianisequenza? Forse no, l’audiovisivo, e la tv in particolare, non sono ancora così importanti. Però non sarebbe male che qualcuno, in quelle stanze in cui si pensano industrialmente usi per telecamere e televisori, prendano in considerazione un altro scomodo concetto: lo sviluppo sostenibile .

Fonti e bibliografia

• Angì N.: “La TV su misura per negozi è oggi tutta made in Italy”; Affari e Finanza de La Repubblica del 19-1-04
• Bonino S. (a cura di): “Dizionario di psicologia dello sviluppo”; Torino, 2000; Einaudi
• Grasso A. (a cura di): “Enciclopedia della televisione”; Milano, 2002; Garzanti
• Jacomella, G: “Da Friends all’Isola dei Famosi”; Corriere della Sera 3-2-2004
• Lipperini L.: “I guastatori di immagini”; La Repubblica del 31-1-2004
• McLuhan M.: “Gli strumenti del comunicare”; Milano, 1990; Mondadori
• Nardecchia L.: “Chi c’è davanti al televisore”; Immaginazioneweb.it 15-4-2004
• Polo M., Gambero M.: “Informazione e pluralismo nel sistema televisivo”; la voce.info 25-11-2003
• Reboli F.: “In visita guidata contro le telecamere”; L’Espresso on line il 8-12-2003
• redazionale: “Bella di giorno, brava in tv”; Venerdì de La Repubblica 10-12-2003
• redazionale (firma F.Fer.): “Lodi: i bambini registi, non più vittime della tv”; Il Messaggero 19-1-2004
• redazionale (firma A.P.): “Quel guerrigliero dei media che promuove lo stile underground”; La Repubblica del 10-2-2004
• Scalise I.M.: “Nasce la televisione ad azionariato diffuso”; Affari e Finanza de La Repubblica del 15-3-2004
• Scarta G.: “Il destino compiuto delle telecamere”; Immaginazioneweb.it 1-15-2004
• Smorti A.; “Applausi al professore”; in Psicologia Contemporanea mag/giu-2004; Giunti

PSICOLOGIA DEL GIORNALISMO TELEVISIVO

dal sito (chiuso) psicologiadellaudiovisivo.it ripropongo questo articolo del 2008

Abbiamo poche nozioni per poter valutare le scelte a cui siamo chiamati, ma ci rendiamo conto che queste possono più o meno influenzare da vicino la nostra vita. Avvertiamo, quindi, la necessità di decidere bene. Per poter affrontare questa necessità senza avere la sensazione di essere incauti abbiamo bisogno di informazioni su cui basare le nostre decisioni. Se devo acquistare un’automobile, dovrò prevedere quanti chilometri intendo farci, che tipo di motore sarà più adatto; in base alla composizione della mia famiglia dovrò decidere quanto grande dovrà essere; in virtù della mia condizione economica dovrò decidere quanto voglio spendere e se tenerla per tutta la sua durata o cambiarla prima. Tanto meno ci affidiamo al caso, tanto più abbiamo bisogno di informazioni. Tutto può essere fonte di informazioni: un nostro vicino, la nostra esperienza, il concessionario da cui acquistiamo. Possiamo ricorrere anche alle conoscenze di sconosciuti di cui, però, ne riconosciamo l’autorevolezza, perché per decidere al meglio abbiamo bisogno di informazioni esatte. A maggior ragione abbiamo bisogno di informazioni non manipolate: il concessionario tenderà a darci solo le informazioni che possano indurci all’acquisto, mentre un nostro amico che ha la stessa auto può darci anche quelle relative ai difetti che ha riscontrato nel tempo.

Data la vastità degli ambienti in cui reperire le informazioni, siamo consapevoli di non essere in grado di andare materialmente a parlare con tutte le persone che possono avere informazioni utili. Il giornalista è la persona a cui viene delegato questo compito. Ad esso vengono dati strumenti e risorse (lavoro/stipendio e diritti) con il compito di reperire per noi le informazioni: ma, fondamentale, con l’implicito patto di riferircele correttamente, ovvero esatte e non distorte, manipolate o con delle omissioni.
È intuibile che, parimenti al nostro amico che ci indica i difetti dell’auto, il giornalista deve offrirci anche le informazioni che possono indurci a non favorire questo o quel soggetto. Si genera quindi, per il giornalista, il potere di danneggiare. Ad esso vorremmo chiedere l’assoluta imparzialità ma, nel tempo, abbiamo accettato il fatto che esso non può essere asetticamente imparziale perché, a sua volta, ha la sua personalità che dirige le considerazioni che fa delle informazioni di cui viene a conoscenza e determina l’ordine con cui decide di darle. Sul giornalista convergono le pressioni di tutti coloro che non hanno interesse a far conoscere tutta la verità: se in passato, però, le pressioni potevano arrivare dal ristretto ambito dell’area di diffusione del mezzo di informazione, la radio prima, le televisioni e la globalizzazione digitale poi, hanno moltiplicato le strade su cui possono innestarsi le pressioni. Ryszard Kapuściński, grande reporter polacco, ha detto che “il giornalista è sottoposto a molte e diverse pressioni perché scriva ciò che il suo padrone vuole che egli scriva (…) La stampa internazionale è manipolata” [Kapuściński, 2000].

Il giornalismo è stato per decine di anni un fenomeno in cui ha regnato la parola. Tanto la stampa quanto la radio si reggono sull’unico pilastro della informazione orale. Dalla metà del secolo scorso, il cinema prima e, soprattutto, la televisione hanno spostato l’asse su una modalità che ha aggiunto la visione delle notizie. L’effetto sulla società è stato formidabile. Se il giornalismo filmato nasce come elemento spettacolare da affiancare ad un’informazione che restava verbale, ben presto ne viene intuita la forza capace di plasmare le nostre rappresentazioni sociali. Queste sono, come afferma Moscovici, “un sistema cognitivo costituito da valori, nozioni e pratiche: una struttura di implicazioni che connette inestricabilmente la dimensione cognitiva a quella dei valori e delle pratiche” [Moscovici, 1989]. Il giornalismo ha, dunque, assunto una modalità bipolare che ha duplicato le possibilità di offerta di informazioni ma, al tempo stesso, ne ha aumentato i vincoli. Soprattutto rispetto alla coerenza tra le informazioni verbali e quelle visive. Sono ben tre i veicoli comunicativi che il giornalista televisivo si trova a dover gestire, quello visivo, quello sonoro e quello verbale: e ciò è tanto più vero perché nel nostro cervello, per ciascuno di essi, si attiva una parte diversa della corteccia cerebrale [Lurija, 1984].
Progressivamente la parte verbale è diventata subordinata al binomio suoni/visioni. A testimoniarlo vi sono le stesse parole dei giornalisti che, quando vengono proposte le immagini di un fatto reale, si fanno da parte con la rituale formula: “Ed ora vi proponiamo le immagini senza alcun commento”. Se da un lato diventa evidente la forza spettacolare nel poter mostrare un evento mentre è accaduto (e non riportarlo successivamente), dall’altro diventa altrettanto evidente il vantaggio di poter portare “alcune” informazioni a conoscenza di masse di persone con una modalità che non è più esclusivamente razionale/corticale (la parola scritta del giornale), né razionale/evocativa (la parola parlata della radio). Il linguaggio audiovisivo (immagini, parole e musica) è strutturalmente un veicolo emozionale. Infatti, un frequentatore di lungo corso della tv italiana, Maurizio Costanzo, ha detto: «tutta l’informazione televisiva è più espressiva che comunicativa (…) Quindi, la realtà mediata dalla televisione è filtrata dallo spettatore, il quale – per via delle caratteristiche del mezzo – è spontaneamente portato a concentrarsi sui contenuti più espressivi, sulle immagini, sui colori (via periferica). La notizia passa in secondo piano»” [Agresta, Paglia, 1998].
A conferma della dimensione emozionale del giornalismo televisivo esiste la controprova della “stampella musicale”. È diventata prassi inserire, tra lo stantìo testo e le immagini del servizio, una bella musichetta che aiuti la nascita dell’emozione che si vuole far suscitare. Quando si mira direttamente alle emozioni del telespettatore è segno che si è rotolati direttamente nella fiction e le informazioni realmente contenute nel servizio sono inevitabilmente inquinate. Ciò è tanto più vero per i rotocalchi (come quello di Iacona del Tg3 o degli pseudogiornalisti delle Iene di Italia 1) che per i telegiornali. Basta mettere una bella musica e si mira direttamente alla pancia ed all’angoscia (o al ridicolo) del telespettatore.
Uno strumento di questa potenza è diventato, inevitabilmente, preda dei gruppi di potere che hanno scopi diversi da quelli del giornalismo “puro”. Questi hanno praticamente monopolizzato mezzi e prassi dell’informazione audiovisiva.
Un altro “effetto di ritorno” della diluizione del giornalismo televisivo è la quasi costante assenza di pertinenza tra le immagini del servizio e le notizie del testo. E se per i grandi eventi è comprensibile (mica c’è sempre una telecamera in ogni evento), per i servizi generici risultano sconfortanti quelle di repertorio. La scarsa cura dell’immagine di repertorio denota la sciatteria di chi realizza il “pezzo” o di chi lo ha commissionato che, probabilmente, non ha dato i tempi adeguati per le ricerche d’archivio.

Molto si è studiato degli effetti che l’azione dei giornalisti ha sui singoli e sulle masse, molto meno si è ragionato intorno agli effetti che il giornalismo ha sui giornalisti. Come abbiamo visto, il giornalista espleta un ruolo affidatogli dalla società. Ogni società, oltre al mandato generale, mette delle regole implicite consone ad ogni area particolare: un giornalista in Cina lavorerà diversamente da un suo collega in Canada. Il giornalista italiano assumerà dei comportamenti e delle censure in osmosi con la società che lo contiene. In questi anni si è fatta sempre più evidente la corrente di pensiero che vede la categoria professionale dei giornalisti assurgere al ruolo di casta [Lopez, 2007; Grillo, 2007]. Questo approdo è, probabilmente, frutto di una strategia di autodifesa della categoria che si è trovata di fronte all’impossibilità di adempiere al mandato sociale della professione. Da un lato esiste la spinta della massa delle persone fuori dei circuiti di potere che chiede le “informazioni” (tutte le informazioni); dall’altro c’è il sistema di potere di tipo arcaico dei gruppi di interesse (dagli imprenditori alla Chiesa cattolica, dalla mafia ai vari livelli della politica). A questo punto non si tratta più di reperire e riportare semplicemente delle informazioni, ma di fare un lungo percorso attraverso varie istanze compromissorie. Per non rimanere schiacciati, i giornalisti si chiudono entro le “mura professionali” e rimangono aggrappati a due pilastri consolatori: il senso di comunanza derivata dall’identità e l’autoreferenzialità. Il primo aggrega nella difficoltà e permette di far attutire (se non sparire) gli elementi di autocritica: questi, infatti, possono alimentare il senso di colpa rimosso per non essere in grado di espletare la propria funzione. Il secondo è alimentato dal narcisismo (che è una normale difesa della personalità). Il ragionamento assolutorio è di questo tipo: “noi facciamo pochi errori perché sappiamo più cose degli altri, per cui le critiche non ci toccano perché noi sappiamo e loro no; e se facciamo degli errori sono dovuti a cause non dipendenti dalla nostra volontà”. Nei casi estremi il ragionamento assolutorio è talmente implicito che neanche i protagosti stessi ne sono consapevoli. Il punto su cui si compattano le mosse di identificazione sono incarnate dall’Ordine Professionale, che accorpa e difende la categoria, ma anche da un’etica professionale che, però, è autogenerata e non mediata con l’esigenze della società.

In questa condizione generale del giornalismo italiano, si innesta un altro fattore derivante dallo specifico televisivo, ovvero la forte esposizione della persona. Giornalisti della stampa come Giorgio Bocca, come Ettore Mo, hanno svolto tutta la loro carriera avvolgendosi nelle loro parole: tutto il loro lavoro veniva giudicato dai lettori solo in base a quanto scrivevano. I giornalisti televisivi hanno la difficoltà ulteriore di dover raccontare usando le immagini. Questa maggiore difficoltà può essere compensata dall’effetto amplificato che ha il loro lavoro. Quasi contemporaneamente, però, i giornalisti televisivi hanno cominciato a farsi vedere nell’inquadratura. Lentamente, quindi, nasce la “dittatura dello stand-up”. Lo stand-up è quella ripresa in cui viene mostrato il giornalista sul luogo della notizia. Nasce come una sorta di certificazione della veridicità della fonte ma diventa, progressivamente, specchio della corazza narcisistica sviluppata dai giornalisti. A conferma possiamo evidenziare il lavoro di alcuni giornalisti televisivi che molto di rado appaiono in video e, quando accade, magari sono di spalle o “di quinta”. Ben diversa è il “narcisismo da conduzione” che deriva dalla forte esposizione dei giornalisti che leggono le notizie del telegiornale. In essi si genera una forte pressione giudicante esercitata dall’opinione delle persone sconosciute che guardano senza che le si possa guardare a proprio volta. Questa forma di narcisismo accomuna i giornalisti televisivi con tutti i personaggi che la televisione rumina, dalle veline ai comici, dai professionisti del talk show ai conduttori dei programmi. Ma, ancor più del misterioso “parere della gente”, il narcisismo da conduzione è alimentato dalle persone che circondano il giornalista: la mamma, la portinaia, il parrucchiere, il gommista. Attraverso il feedback delle loro opinioni il giornalista si sente di acquisire autorevolezza e di godere della benevolenza della “gente”. In tutto ciò l’etica professionale e l’efficacia della comunicazione diventano assolutamente secondarie. Naturalmente, tutto quanto rimarcato fino ad ora, accade attraverso la modulazione delle personalità di ciascuno. Come anche accade in maniera differente tra maschi e femmine.

Il giornalismo televisivo risulta, quindi, essere un formidabile strumento per influenzare l’agenda setting [Losito, 1995] delle persone. La sua efficacia si avvale della potenza emozionale delle immagini. Un giornalismo televisivo fatto male è quello che mira alle emozioni della gente, un giornalismo televisivo fatto bene è quello che mira a rendere informate le persone. Oltre il dualismo emozionale, il giornalismo televisivo può essere esteticamente e linguisticamente realizzato in modo fa favorire o confondere la comprensione. Infine, il giornalismo ha effetti subdoli sulla personalità dei giornalisti non sufficientemente maturi: gli effetti possono incidere su varie strutture caratteriali con effetti più o meno distorcenti sulla percezione di sé e sul principio di realtà. Inoltre, a cascata, queste vanno ad influenzare il prodotto del loro lavoro e del servizio-delega di cui usufruiamo come utenti.

Bibliografia

– Agresta S., Paglia G.; “L’arte di guardare la Tv … e rimanere sani”; Milano, 1998; Edizioni Paoline
– Grillo, B.; beppegrillo.it
– Kapuściński R.; “Il cinico non è adatto a questo mestiere”; Roma, 2000; Edizioni e/o
– Lopez, B.; “La casta dei giornali. Così l’editoria è stata sovvenzionalta e assimilata alla casta dei politici”; 2007; Nuovi Equilibri
– Losito, G.; “Il potere dei media”; Roma, 1995; La Nuova Italia Scientifica
– Luria, A.R.; “Come lavora il cervello”; Bologna, 1984 ; Ed. Riuniti
– Moscovici, S.; “Le rappresentazioni sociali”; Bologna, 1989; Il Mulino

LA CAMORRA NON GIOCA CON PHARRELL

Il video è talmente entrato nella nostro spettro espressivo che tutti, ormai, sentono di farne parte. Dopo cinquanta anni di “esposizione” al linguaggio cinematografico e televisivo, la tecnologia ci ha dato gli trumenti per “parlarlo”. E capita, così, che il popolo in trincea che vive a Scampìa, alla periferia di Napoli, comincia a parlarlo ed usarlo. Lo usa ringraziando Pharrell Williams che, con il suo videoclip “Happy”, ha dato a chiunque nel mondo la possibilità di giocare con lui: di giocare a rappresentare la felicità. A Scampìa, quartiere di camorra e di degrato, è andata in scena la vita e il divertimento, il piacere di rappresentare se stessi e la propria bellezza, come un germoglio dall’asfalto.