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PSICOLOGI NELLA SOCIETÀ, PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI

Questo articolo che ho scritto circa un anno fa sul sito psiconline.it era frutto di alcune mie riflessioni sulla professione dello psicologo. Lo ripubblico su questo blog perché, a distanza di un anno, il mio ragionamento ha prodotto vari sviluppi e mi piace condividerlo anche su queste pagine personali, a mo’ di promemoria.

Questo articolo è un racconto, un’indagine, una teoria e una sfida al tempo stesso. Psicologi e psicoterapeuti, ve la sentite di leggerlo? Chi non vuole impegnarsi, se ne astenga. Tutti gli altri seguano i miei pensieri

Tutto prende avvio da un intervento ad uno dei TED che si svolgono nel mondo. Parla “Carole Cadwalladr, la cronista dell’Observer che ha scoperchiato lo scandalo di Cambridge Analityca (e che è stata bannata a vita da Facebook per questo), ha spiegato come i social hanno influito sulla Brexit. E come stanno facendo del male alle democrazie di tutto il mondo”.

Ma prima di proseguire nella lettura di alcuni passaggi del discorso di Carole proviamo a ricordare una premessa indispensabile.

L’articolo 3 del nostro codice deontologico comincia con: “Lo psicologo considera suo dovere accrescere le conoscenze sul comportamento umano ed utilizzarle per promuovere il benessere psicologico dell’individuo, del gruppo e della comunità”. L’altro passaggio fondamentale del codice ai fini di questo articolo è nel primo articolo: “Le regole del presente Codice Deontologico sono vincolanti per tutti gli iscritti all’Albo degli psicologi”. Fatta questa premessa, seguiamo il discordo di Carole Cadwalladr.

La giornalista inglese (riassumendo) è andata nel paesino dove nacque nel Galles per comprendere il fenomeno della Brexit. La sua indagine rilevava che, nonostante fossero tanti e ben evidenti gli interventi a favore delle popolazioni fatti con i fondi dell’Unione Europea, i residenti si dichiaravano insoddisfatti e ostili verso l’Unione che veniva vista come fonte di insicurezza e minaccia.

Facendo interviste la Cadwalladr si accorge che le persone erano state oggetto di una massiccia dose di disinformazione perpetrata attraverso Facebook. Dalle sue indagini, dal comportamento del colosso di Zuckemberg alle richieste di informazioni delle autorità, arriva ad ipotizzare una complicità diretta di Facebook. “Questa è stata la più grande frode elettorale del Regno Unito degli ultimi cento anni. Un voto che ha cambiato le sorti di una generazioni deciso dall’uno per cento dell’elettorato”.

E poco dopo afferma: “Ho passato mesi per rintracciare un ex dipendente, Christopher Wiley. E lui mi ha rivelato che questa società, che aveva lavorato sia per Trump che per la Brexit, aveva profilato politicamente le persone per capire le paure di ciascuno di loro, per meglio indirizzare dei post pubblicitari su Facebook”. Infine: “In questo esperimento globale e di massa che stiamo tutti vivendo con i social network, noi britannici siamo i canarini. Noi siamo la prova di quello che accade in una democrazia occidentale quando secoli di norme elettorali vengono spazzate via dalla tecnologia. La nostra democrazia è in crisi, le nostre leggi non funzionano più, e non sono io a dirlo, è un report del nostro parlamento ad affermarlo. Questa tecnologia che avete inventato è meravigliosa. Ma ora è diventata la scena di un delitto”.

Volendo riassumere, quella che sembrava la grande via verso la libertà di pensiero e una democratizzazione di massa, si sta rivelando uno strumento di confusione, manipolazione e malessere. Senza voler scendere nell’argomentazione (sicuramente ne avrete percepito la portata) è evidente che tutto ciò collide con quanto leggevamo prima dal nostro codice deontologico.

Il benessere delle persone (che fanno parte della società e che sono chiamate al voto) dovrebbe essere uno dei nostri scopi e il nostro sapere non ci può esimere dall’intervenire, non ci si può nascondere dietro la motivazione della mancanza di un onorario. Ci vantiamo di essere paragonabili ai medici, abbiamo fatto fuoco e fiamme per farci assimilare nel mondo sanitario, ma non credo che in caso di sciagura, con feriti e sofferenti per strada, alcuni medico si astenga dall’intervenire perché nessuno lo paga. Poi, certamente si può discutere e concordare su delle forme di aiuto, in questa azione di soccorso sociale, che non ricadano sulle spalle di pochi.

È possibile per noi psicologi e psicoterapeuti il disimpegno dalle sorti della società che viviamo? Non dovremmo cominciare a intraprendere attivamente delle forme di disinnesco di queste trappole che minano il benessere di tutte le persone perpetrate attraverso web e social?

La domanda finale di Carole Cadwalladr è: “La mia domanda per tutti gli altri è: è questo che vogliamo? Che la facciano franca mentre noi ci sediamo per giocare con i nostri telefonini, mentre avanza il buio?”. E voi? Cosa pensate di fare?

STAT “PSY” PRISTINE NOMINA, NOMINA NUDA TENEMOS

È parafrasando l’ultima frase contenuta nel famoso best seller di Umberto Eco (Il nome della rosa) che mi piace aprire questo post. Parliamo di nomi e di quanto questi siano importanti nella definizione dell’identità.

La riflessione mi è nata ogni volta che mi trovo a parare con amici, colleghi e conoscenti della nostra professione. Quando accenno a qualcuno che agisce dal campo della psicologia mi trovo a dover scegliere con che nome qualificarlo. Psicologo? Psicoterapeuta? Analista? So che ognuno è molto attento a distinguersi, a meglio definirsi attraverso il nome. Quando nel biglietto da visita si fa scrivere “psicologo psicoterapeuta” si percepisce il senso accrescitivo rispetto al semplice “psicologo”. D’altronde è lo Stato che ne fa due figure differenti.

Eppure non sarebbe forse sbagliato avere una sola parola, un solo nome, che definisca tutti coloro che, avendo fatto un percorso formativo psicologico, lavorano per il benessere delle persone e delle comunità. Giusto per fare un paragone con i vicini di casa. Quando diciamo “devo farmi vedere da un medico” non abbiamo bisogno di specificazioni. Successivamente potremo specificare in cosa consiste il sapere specifico del medico che ci occorre. Se vi presento il mio amico, l’ingegnere Taldeitali, non ho bisogno di specificare se è elettronico, civile o idraulico. Intanto è ingegnere.

Forse, questa assenza di un nome che ci accomuni potrebbe essere proprio la spia di un’identità giovane al punto da essere “fragile”. Che nome si potrebbe scegliere?

LO STUPRO ATAVICO

Nelle scorse settimane ho letto un libretto che mi ha dato spunto per molte riflessioni. Si tratta del testo “Donne nelle mani del nemico” di Alberto Redaelli. Ancor più esplicito il sottotitolo, ovvero “storia dello stupro di guerra dai tempi antichi ad oggi”. Il mio interesse rientra nella voglia di capire realmente le ragioni dei tanti omicidi di donne di cui la cronaca mediatica è piena. Quindi mi sono chiesto cosa accadeva in passato. Questo libro ha dato alcune risposte. Ecco le indicazioni secondo il rigoroso ordine con cui mi sono apparse scorrendo nella lettura.

Cominciamo dal fatto che gli uomini di tutti i popoli, in qualunque epoca, hanno stuprato le donne in guerra. Ciò accade ancora oggi.

Si hanno testimonianze di stupri seguenti alle guerre dal tempo dell’Egitto dei faraoni e degli assiri. Inevitabile pensare che lo stupro di guerra fosse già perpetrato prima o  – addirittura –  che sia stato sempre praticato ma mai considerato degno di lasciare traccia per i posteri. Le donne, a pari di bambini, bestiame e oggetti di valore, venivano considerate “bottino“. Gli uomini  – raramente –  erano ridotti in schiavitù ma, più frequentemente, semplicemente uccisi perché pericolosi. Di conseguenza, le donne, in quanto più sfruttabili, avevano più probabilità di sopravvivere ad una sconfitta. Tra i possibili destini delle donne “conquistate” in guerra, l’avviamento alla prostituzione era una prassi diffusa, perché esse erano considerate come un bene da far fruttare.

Un altro aspetto che emerge da questa ricerca storica sullo stupro di guerra è che può essere usato con una valenza simbolica: quando viene inflitto a sfregio, per sottoporre all’umiliazione. Un atto di disprezzo tanto verso gli uomini quanto verso le donne stesse. Innumerevoli sono i casi riportati di uomini (mariti/parenti) costretti ad assistere alla violenza sessuale perpetrata a mogli, madri e figlie. Per questo, da un lato gli uomini preferivano morire combattendo piuttosto che subire un simile spettacolo, dall’altro si intuisce la genesi del famoso adagio lanciato in caso di pericolo “Prima donne e bambini!”.

Un altro aspetto da rimarcare è che lo stupro (come la violenza in genere) era molto spesso considerato una ricompensa per chi aveva combattuto rischiando la vita, al punto che lo stupro era considerato anche una sorta di “diritto di guerra”. Inoltre, vi sono documenti in cui si fa riferimento che la capacità di stuprare (o fare violenza) era considerato un segno di valore nei capi.

Nel Novecento non vengono fatte eccezioni e i generali americani alle prese di questo fenomeno, temendo la pressione dei mass media del loro paese, trovarono la soluzione semplicemente nell’applicare la censura.

Ma lo stupro di guerra, nel corso dei secoli, ha sempre più assunto connotazioni negative. Il primo tentativo di limitare e punire questa pratica è del 1385 ad opera di Riccardo II d’Inghilterra nel corso di una guerra contro la Scozia. Ma bisogna arrivare al 1863 per avere documentate le prime condanne per gli stupri di guerra. Nel 1949 (ONU) viene scritta la prima norma internazionale di condanna dello stupro di guerra, ma questa norma non è mai stata un vero deterrente.

Proverò, in un prossimo articolo a fare delle considerazioni più approfondite, anche provando a capire quanto le motivazioni descritte per gli stupri di guerra possano essere rintracciabili negli stupri al di fuori delle guerre. Sempre nel tentativo di capire.

SUICIDI PER LE GERARCHIE OBSOLETE

Spesso, molto spesso, appaiono in cronaca piccoli articoli con la notizi di uomini delle forze dell’ordine che si suicidano. È successo a Foggia  qualche giorno fa per un carabiniere, a Fiumicino  qualche giorno prima. Una strage silenziosa che non riguarda solo chi appartiene alle forze dell’ordine, ma anche ad agenti della polizia penitenziaria  o militari. Un fenomeno che non riguarda solo l’Italia ma anche la Francia, Israele o gli Stati Uniti.

Esiste un’abbondante letteratura scientifica sul suicidio e, senza entrare in dettaglio (potete consultare una delle tante pubblicazioni sul tema), il suicidio può essere visto principalmente tanto come un modo drastico di comunicare il proprio malessere, quanto il tentativo di smettere di soffrire. Nel caso dei suicidi tra i militari possiamo ipotizzare uno schiacciamento della personalità che è chiamata a rimanere in equilibrio tra l’adesione agli ordini  – lealtà al gruppo di appartenenza – e la consapevolezza della propria responsabilità nella sofferenza altrui (soprattutto in caso di guerra). Per chi, invece, fa parte delle forze dell’ordine esiste l’ulteriore pressione dovuta all’interazione di queste con autori e vittime di reati, a volte raccapriccianti.

Molto probabilmente, essendo le strutture militari e delle forze di polizia fortemente gerarchizzate, con una conformazione derivante dai canoni maschili (chi è uomo non si fa prendere dalle emozioni), in molti non riescono a elaborare queste forme di burnout esasperate. Molto probabilmente sarebbe d’aiuto la presenza stabile di presidi (esterni alla gerarchia, magari in convenzione) psicologici/terapeutici per poter fronteggiare questo fenomeno che viene poco raccontato dai media.

IL FIGLIO INTERIORE

A volte pensiamo di saper riconoscere al volo cosa accade nella nostra vita ma non sempre ci rendiamo conto che alcuni aspetti ci possono sfuggire. Poi capita di trovarsi dentro certe situazioni ed allora realizziamo. D’altra parte, il sagace Arthur Bloch nelle sue Leggi di Murphy, teorizzava che “se osservi attentamente il tuo problema, ti accorgerai di farne parte“. A me è accaduta una cosa del genere.

Volendo fare qualche premessa, possiamo citare quei fenomeni studiati inizialmente da Freud e Ferenczi definiti introiezioni, poi anche ripresi e ampliati da Jacobson e Kernberg nelle relazioni oggettuali. Sostanzialmente, nel corso del nostro sviluppo costruiamo una serie di rappresentazioni nella nostra mente in riferimento alle persone che amiamo, ovvero interiorizziamo. Il bambino lo fa innanzitutto con i genitori, ma si posso sviluppare con fratelli e sorelle, zie e nonni, amici e amiche, per finire agli amori della propria vita. Ciò che amiamo tendiamo a portarlo dentro, in una presenza ricostruita nella nostra mente, così che ne avvertiamo il “calore” anche quando non sono vicine. È ciò che permette al bambino di andare all’asilo o di essere lasciato dai nonni o con la babysitter quando andiamo al lavoro.

Generalmente si tende a vedere questo fenomeno come un’efficace strategia per sopravvivere alle dipendenze affettive in presenza di un allontanamento. Da adulti un caso frequente è nelle relazioni a distanza: lui e lei con 500km in mezzo. Ma dimentichiamo che esiste una situazione molto più frequente che, però, negli ultimi anni sta subendo un’involuzione. Viene chiamata anche Sindrome del Nido Vuoto, ovvero quando i genitori vedono i figli andare via da casa per costruirsi una vita altrove: cominciano a soffrire e, molte volte, tendono a riavvicinare i figli a sé, magari comprandogli casa nello stesso stabile o alimentando la loro dipendenza economica (di questi tempi è operazione facile). Nei casi virtuosi, invece, il genitore aiuta e favorisce l’indipendenza dei figli, l’autonomia e l’avvio verso strade e mete loro, non quelle desiderate e proiettate dai genitori stessi. Come riescono questi genitori a resistere alla lontananza? Proprio attraverso l’interiorizzazione della figura del figlio. Un processo inverso ed equivalente a quello vissuto dai figli. Il figlio vive dentro di sé e la sua autonomia restituisce la misura della propria riuscita di genitori. Dunque, viva il figlio interiore.

LA PROSSEMICA DELLA CONVIVENZA

Vi sarà sicuramente capitato di osservare quelle persone che si muovono per strada incuranti dei pericoli, come se ci fossero solo loro per strada. A volte viene fatto in assoluta distrazione, altre volte con atteggiamenti di sfida. Viene da domandarsi perché una persona metta a rischio la propria incolumità in modo così inspiegabile. Con quale logica riusciamo a comprendere questi comportamenti? Proviamo a partire da lontano.

Nel corso della nostra vita costruiamo nella nostra mente l’immagine di ciò che pensiamo di essere. La “percezione di sé” è proprio quel fenomeno che ci permette di costruire questa idea-immagine. Di conseguenza, ci muoviamo e ci regoliamo nello spazio e nel tempo in base proprio in base a questa idea di noi stessi che abbiamo inconsapevolmente costruito. Ma noi non viviamo soli e dividiamo lo spazio assieme agli altri

La prossemica, cioè la disciplina che ha studiato il comportamento delle persone nello spazio,  ha definito alcune osservazioni sulle regole che usiamo per tenere le giuste distanze rispetto agli altri. La “bolla prossemica” è quella invisibile distanza che riteniamo ottimale rispetto alle altre persone: più siamo in confidenza con gli altri, minore sarà la distanza che reputiamo adatta.

Una probabile estensione della bolla prossemica è la percezione dello “spazio pubblico“, ovvero quello spazio che è nostro ma anche di altri. È facile intuire che il valore (e il rispetto) dello spazio pubblico denota la maturità della nostra personalità: siamo noi che apparteniamo allo spazio pubblico e non viceversa.

Chi ha una bolla prossemica sociale chiusa, blindata e poco empatica, non percepisce più la comunanza dello spazio: questo viene vissuto solo in funzione dei propri bisogni. Qualche esempio?

  • Bisogno di defecare, gettando rifiuti di sé nello spazio pubblico, dalle cicche ai frigoriferi
  • Bisogno di autoaffermazione, imbrattando i muri con bombolette spry con tag perché si ha una personalità piccola piccola
  • Bisogno di violazione delle regole, parcheggiando l’auto sulle strisce, negli spazi riservati ai disabili, in seconda fila, non pagando il biglietto sui mezzi pubblici e altro ancora
  • Bisogno di essere incuranti dei pericoli, attraversando senza guardare, al cellulare o semplicemente non guardando, guidando in bici di notte, vestiti di scuro, senza luci o casacche catarifrangenti o andando in gruppo in due o tre file, a venti all’ora, in strade tortuose

La nostra epoca, in cui facciamo fatica a “sentire” i nostri limiti, non ci aiuta e la prossemica pubblica ne risente. Salvo poi lamentarci che “gli altri” non la rispettano.

 

 

URLA DI GUERRA E MILITANZA DI GENERE

La paura. Un’emozione che, assieme al dolore, sono tra le fondamentali reazioni per la sopravvivenza degli esseri umani. Scappare perché si ha paura può essere la salvezza. Ma anche immobilizzarsi perché si ha paura può esserlo.

Il ricordo di un dolore o la prospettiva di un dolore è ciò che ci incute paura davanti a una minaccia e, quando ci sentiamo minacciati, abbiamo due forti reazioni: fuggire o aggredire, magari urlando. Proprio urlando perché  – si sa –  urlare infonde coraggio, ma anche perché urlare può spaventare chi ci aggredisce. Magari questi si ferma proprio perché ci sente urlare.

Però c’è un problema. Se si comincia ad avere paura di sentirsi minacciati (previsione di dolore) possiamo vivere in uno stato di paura inconsapevole, di ansia. Il rischio, permanendo in questo stato di attesa della minaccia, è di cominciare a diventare aggressivi nei confronti di qualsiasi comportamento ci possa apparire come una minaccia potenziale. Si diventa aggressivi (e urlanti) a prescindere dalle situazioni, anche se non c’è nulla che effettivamente ci minacci.

In questo stato di permanente e inconscia attesa della minaccia  – inconsapevolmente terrorizzati –  possiamo cadere in errore e scambiare il dissenso di altri con una minaccia, per cui possiamo essere indotti ad aggredire preventivamente, magari ricorrendo ad un urlo: ad un urlo di guerra.

Cosa può accadere se diventiamo aggressivi in assenza di una minaccia? Può accadere, tra le varie cose, che le persone intorno a noi potrebbero non capire perché li aggrediamo e diventare diffidenti nei nostri confronti. Ma noi, notando questo cambio di atteggiamento nei nostri confronti, potremmo viverlo anche come qualcosa di minaccioso, per cui potremmo aumentare l’aggressività, per intensità e frequenza. Lungo questa escalation, ci troveremo ad avere intorno solo persone che, sottomesse, non osano contraddirci. Così non avremo più modo di notare l’incongruenza del comportamento e ci sentiremo sempre nel giusto. Soprattutto, non capiremo più perché delle altre persone cominciano ad aggredirci (perché non ne comprendiamo il motivo). Ma un’altro effetto collaterale è che coloro che ci sono ostili avranno meno remore a trattarci male.

A questo ragionamento è possibile fare tre postille. La prima è che se si vive una condizione di paura generalizzata, se si vive il proprio ambiente come minaccioso, abbiamo un’alternativa al comportamento aggressivo ovvero stringere alleanze.

La seconda è che avere qualcuno con cui condividere la sensazione di paura permette di lenire questa sensazione e, soprattutto, di verificare se possano esserci reazioni diverse nella stessa situazione che stiamo vivendo e che ci terrorizza.

La terza è che quando ci troviamo in un confronto/trattativa può essere determinante trovare dei canali di dialogo con parti dello schieramento antagonista perché l’empatia con le altre persone aiuta. Si può trovare un punto comune da cui ognuno può vivere la propria peculiare condizione senza perdere identità e dignità. In questo modo diventa possibile trovare una soluzione ad un problema dell’altra parte pur mantenendo il proprio punto di vista. I termini collaborazione e compromesso sono gli effetti di questo atteggiamento alternativo al binomio paura/contrapposizione.

Questo mio ragionamento “teorico” ha avuto, naturalmente, una genesi dovuta ad un fatto reale che mi è accaduto. Proverò a raccontarlo in modo sintetico.

Ho scritto tempo fa un articolo sul tema della comunicazione che alcuni psicologi fanno sui social, citando due episodi a me capitati. Il terreno su cui interveniva l’articolo era una proposta di legge in Spagna sul perseguimento penale degli stupratori. A questo articolo sono seguite delle “alzate di scudi” che non vertevano sull’argomento dell’articolo ma sulla dinamica uomo-donna in riferimento alle violenze sessuali. È stata talmente forte l’incoerenza delle contestazioni che ho cominciato a chiedermi il perché di tanta veemenza. Ho chiesto a molte donne di leggere quell’articolo e, alla fine, una è riuscita a darmi la chiave di lettura che mi ha permesso di capire. Infatti, mi ha scritto: “molte donne pensano di essere in uno stato di guerra, di dover combattere una battaglia – me compresa – perché questo è il momento di combattere e cambiare le cose. Questa convinzione ci induce, anzi ci obbliga in un certo senso, a non ammettere né giustificare nessun tipo di commento che vada contro quello per cui stiamo combattendo (…) l’appartenenza di genere è risultata più saliente rispetto a quella di psicologa (…) In un momento così delicato ogni cosa diventa una minaccia, anche quando proviene dagli amici. Ci sarà un tempo per le sfumature, per ridimensionare le reazioni, per ascoltare e parlare, ma ora no, non c’è spazio per questo: le donne devono dimostrare di non essere inferiori, di avere dei diritti. Forse non capiscono che reagendo in questo modo non fanno altro che dimostrare di avere paura. Un dubbio ora non è accettabile. Dobbiamo essere spietate, anche con noi stesse. Anche a costo di rinunciare ad essere psicologhe“.

A lei, naturalmente, va il mio ringraziamento perché ha ragionato con me, senza invettive e senza rabbia.

LO PSICOLOGO SENZA DISSENSO

Due episodi recenti, strettamente collegati, mi hanno fatto sorgere il dubbio che i social stiano sfuggendo di mano agli psicologi. Protagoniste sono due psicoterapeute. Ve li racconto.

Il tutto nasce da un articolo dal titolo: “La Spagna introduce legge sul consenso esplicito: se l’altro non dice “si” è stupro”. La prima psicoterapeuta posta sulla propria bacheca Facebook (n.b. aperta ai commenti) l’articolo ed io, perplesso, commento con un semplice “bah”. Mi arriva via messaggio la richiesta della collega di rimuovere il mio commento. L’ho invitata a farlo lei, cosa regolarmente avvenuta. La seconda psicoterapeuta, invece, a commento delle probabili reazioni che qualcuno deve aver manifestato alla notizia, così commenta; “Mi spiace, dolci e amati maschioni, che la legge spagnola sullo stupro non vi garbi. Sapete, secoli e secoli di abusi, stupri, discriminazioni e violenze ci hanno costrette a tralasciare quelle sfumature di romanticismo che tanto rimpiangete e a cui siete notoriamente interessati. D’altronde sono sicura che, come riuscite a tenere il pisello alzato in situazioni francamente improponibili a livello di eccitazione sessuale, ce la farete anche questa volta. Forza guerrieri, vi sono vicina [NdR. aggiunge un emoticon-cuore] “.

Pur intuendo la delicatezza dell’argomento e comprendendo la reattività che l’argomento può innescare, ribadendo che reputo stupidi gli uomini che aggrediscono le donne, mi ha lasciato molto perplesso il comportamento di queste due colleghe. La prima considerazione è che stare sui social, anche e titolo personale, non fa smettere di essere uno psicologo. A maggior ragione se si usano abitualmente i social per il proprio marketing on line, attraverso siti, pagine Facebook o account su Twitter o Instagram. Ritengo (sarò all’antica) che uno dei primi compiti etici di uno psicologo sia l’inclusione. Uno psicologo che non tollera il dissenso, soprattutto se manifestato in termini civili e educati, come nel primo caso, è probabile che non appaia come qualcuno in grado di comprendere. Poi, come nel secondo caso, la militanza di genere, quella del “noi nel giusto, voi nel male”, crea antagonismi che mirano deliberatamente a escludere, a dividere, perdendo di vista qualsiasi sfumatura o differenza nel comportamento. Inoltre, il linguaggio intriso di sfida e di scherno (con tanto di emoticon-cuore finale), mette di fronte i lettori alla consapevolezza che non può esistere dialogo (quindi collaborazione) con chi si pone in questo modo, aumentando conseguentemente la distanza con chi non aderisce fidelisticamente a quella posizione.

Questi sono solo due episodi tra i tanti che mi inducono a pensare che in molti non abbiano ancora compreso la valenza della comunicazione attraverso i social. Quando capita a dei “colleghi”, rimane un po’ di amaro in bocca perché è facile, poi, essere valutati dal pubblico come una categoria professionale non affidabile.

Naturalmente, posso sbagliare in queste mie valutazioni.

L’ESPERIENZA DELLA “KLIMT EXPERIENCE”

Qualche giorno fa sono andato ad immergermi nella “Klimt experience”, ovvero la mostra multimediale sulle opere di Gustav Klimt. Non conoscevo bene la storia dell’artista e poco conoscevo delle sue opere, soprattutto quelle rilanciate sui media. Sapevo quello che mi aspettava perché avevo già visto l’analoga mostra su Van Gogh.

Questo tipo di mostre possono essere viste comeuna sorta di portale che introduce poi i ragazzi verso i musei nella scoperta delle opere originali. Uno strumento di conoscenza al pari di un catalogo o di una trasmissione televisiva. Non bisogna insomma considerare la performance un’alternativa alle opere originali ma solo una loro amplificazione per quel tipo di pubblico ormai abituato a informarsi soprattutto attraverso immagini“. Peccato che la stragrande maggioranza del pubblico volontario (non quelli che ci sono portati di proposito, come possono esserlo le scolaresche) sia adulto, generalmente sopra i 30 anni e la cosa non meraviglia.

Le mostre come il Klimt Experience sono efficaci quando siamo predisposti all’abbandono, ovvero quando arriviamo già con l’intenzione di farci prendere dal racconto sensoriale costruito dal progettista [Nota a margine: il progettista risulta essere un certo “Stefano Fake”]. Il mix di musica e immagini, con queste ultime proiettate su pareti di grandi dimensioni, ha l’intenzione proprio di farci perdere la normale percezione di noi stessi. L’occhio non riesce a vedere tutto contemporaneamente e si è circondati sia dalle immagini in movimento, sia dalla musica. Le immagini sono delle opere di Klimt, mentre la musica è un po’ un guazzabuglio di generi di musica classica che mirano più alle risonanze emozionali che alla fedeltà storiografica. Infatti, oltre a Mahler e Wagner, contemporanei di Klimt e viventi dello stesso panorama culturale, vengono assemblate anche le note di Mozart che è vissuto un bel po’ prima.

Altro aspetto che devo notare è che, al contrario della mostra su Van Gogh, che permetteva di lasciarsi andare a terra su enormi cuscinoni, questa vedeva tutti irregimentati in sedute da polli in batteria. Il corpo non è libero di lasciarsi andare e l’affollamento della sala non aiuta l’immersività.

Per finire, è stata esilarante la scena che si è proposta nella Sala degli Specchi che nelle intenzioni del progettista doveva essere un ulteriore spazio di immersività e si è ridotto a sala-selfie, con i visitatori che scattavano le immancabili foto ricordo. Sempre a proposito di foto ricordo, è sempre stupefacente notare come ormai non siamo disposti a vivere un’esperienza semplicemente vivendola. Mentre la musica impazzava e le immagini delle opere di Klimt scorrevano, praticamente tutti stavano con i loro smartphone a riprendere e scattare foto. Sostanzialmente erano incapaci di “lasciar andare” l’esperienza per conservarla come semplice ricordo ma diventava irrinunciabile catturarne la traccia per poterla condividere ad altri e poter implicitamente affermare “io faccio, io esisto e lo mostro”.

LE MELODIE CINETICHE

Il movimento fa parte della nostra vita. E’ essenziale. Ma è anche bello. La nostra competenza nell’apprezzare il movimento ha da sempre generato il piacere di riprodurre i movimenti belli ed anche di migliorarli per renderli ancora più belli, più armonici.

Il neuropsicologo russo Alexander Lurija, nel secolo scorso, definì melodie cinetiche proprio i movimenti più complessi e fluidi che percepiamo come belli. Non a caso, Howard Gardner, docente di Scienze dell’Educazione e Psicologia all’università di Harvard, ha teorizzato l’esistenza di vari tipi di intelligenza, tra cui l’intelligenza corporeo-cinestetica, che genera il piacere di muoversi e di guardare il movimento.

Strettamente legato al movimento c’è la nostra percezione della scansione del tempo. Daniel Levitin, docente di Psicologia e Neuroscienze Comportamentali all’università di McGill (Canada)  sottolinea come “Il tempo è un fattore molto importante nell’espressione delle emozioni (…) La base neurale di questa accuratezza è probabilmente il cervelletto che, a quanto pare, contiene un “metronomo” per la nostra vita quotidiana e per sincronizzarsi sulla musica che stiamo sentendo. Ciò significa che in qualche modo il cervelletto è in grado di ricordare i “settaggi” che usa per sincronizzarsi sulla musica mentre la sentiamo e può ricordarli quando vogliamo cantare a memoria un brano“.

Il cervelletto, quindi, ci dà il tempo nei nostri movimenti e siamo talmente abituati a valutarli che li apprezziamo anche se sono senza la musica, in quell’esperienza che chiamiamo ballo. Perché, come afferma sempre Levitin, “Studi condotti da Marcelo Wanderley della McGill e da Bradley Vines hanno mostrato che gli ascoltatori non musicisti sono estremamente sensibili ai gesti fisici compiuti dai musicisti. Guardando un’esibizione musicale con il volume a zero e osservando ad esempio il braccio, la spalla e i movimenti del busto del musicista, i comuni ascoltatori riescono a cogliere una buona parte delle intenzioni espressive di chi suona“.

Il nostro cervello è ormai talmente abituato a tradurre vicendevolmente il movimento e la musica che, come confessa il pianista Giovanni Allevi, è possibile sentire e comporre la musica simulando nella mente il movimento per produrlo. Infatti, egli dice in un’intervista: “Suono tutto nella mia testa, immagino l’album intero senza mai toccare un tasto. Passo le giornate intere a farlo“.

Così ci troviamo a godere dei movimenti che facciamo quando li percepiamo come armonici nella loro complessità. E ci piace, poi, vederli.

 

Bibliografia

Lurija, A.; “Come lavora il cervello”; Il Mulino

Levitin, D.: “Fatti di musica”; Codice edizioni

Gardner, H.; “Formae mentis”; Feltrinelli

Allevi, G.: http://cinquantamila.corriere.it/storyTellerThread.php?threadId=ALLEVI+Giovanni

SCENARI PER PSICOLOGI FATTI FUORI DALLA TECNOLOGIA COGNITIVA

In un recente articolo di Giuseppe Riva (docente di Psicologia della Comunicazione all’Università Cattolica di Milano) apparso su Psicologia Contemporanea n. 267, si prospettano le future evoluzioni della tecnologia applicata alla psicologia. Il quadro che ne esce è inquietante. Se, come afferma Riva, “la prima sfida dello psicologo del futuro è quella di comprendere i cambiamento in atto, per valutare e sostenere gli individui all’interno di nuovi contesti“, viene da domandarsi quanti psicologi riusciranno effettivamente a farsi pagare. Come la tecnologia informatica sta spazzando via molti lavori  – il primo che viene in mente è l’edicolante –  è molto probabile che anche gli psicologi faranno la fine dei giornalisti, sempre più spesso sostituiti dai robot.

Gli esempi fatti da Riva sono illuminanti. La IBM ha messo a punto Watson che è un primo tentativo di creare un’intelligenza artificiale in grado di rispondere a domande non strutturate, datato 2005. Da questo progetto è stato, poi, sviluppato Personality Insight che sarebbe in grado di stilare un profilo della personalità a partire da testi scritti con sole cinquecento parole. Il problema per gli psicologi è che questo test costa dieci centesimi rispetto ai cinquanta euro che vengono chiesto per la somministrazione di un Big Five. Non è tutto.

I “Servizi cognitivi di Microsoft“, senza necessitare di alcuna competenza psicologica, sono capaci di analizzare in tempo reale testi, immagini, video ed espressioni facciali. Ancora, Woebot è un app che simula le capacità di conversazione di una persona e, destinato a monitorare gli stati emotivi, è stato efficacemente testato sulla capacità di ridurre i livelli di ansia e di depressione. Ultimo esempio di tecnologia cognitiva già pronta è SimSensei che ha realizzato un vero e proprio psicoterapeuta virtuale, capace addirittura di analizzare la comunicazione non-verbale ed è già impiegato nei colloqui preliminari con i veterani di guerra esposti al rischio di stress post-traumatico.

È facile intuire che i margini di lavoro per le schiere di aspiranti psicologi generati dalle Facoltà di Psicologia si riducono notevolmente. Cosa potranno fare per vivere senza cercarsi un altro mestiere? Forse fare un altro mestiere, ma da psicologi. La conoscenza delle dinamiche del comportamento pone le condizioni per ottime performance nel caso in cui si uniscano ad un altro sapere. Nel mio piccolo ho unito le mie conoscenze psicologiche al mondo degli audiovisivi, come anche a quello dell’informazione. È possibile fare il regista, il videomaker, l’autore o il giornalista rimanendo psicologi. La costruzione della nostra identità come psicologi forse deve adeguarsi ai tempi. Questa evoluzione professionale, probabilmente, potrebbe essere una delle soluzioni alla sfida dei robot-psicologi.

LE BAMBOLE DESIDERATE

La scorsa estate mi sono imbattuto in un articolo su un argomento strano: le bambole con fattezze di donne a grandezza naturale. Più esattamente, bambole in silicone destinate a soddisfare i desideri sessuali e non solo. In sostanza, un artigiano spagnolo ottiene un cospicuo finanziamento da parte di un imprenditore cinese ed è convinto di avere un grande successo. Le foto che ritraggono il creatore delle donne-manichino fanno intuire la ricerca di una sensualità immobile. È evidente che queste bambole a dimensione naturale sono l’evidente evoluzione delle bambole gonfiabili che si vendevano nei sexy shop ed hanno il compito di soddisfare i desideri sessuali dei loro compratori. Addirittura, in questa versione dialogano.

La notizia viene accolta dal pubblico in un misto di divertimento e riprovazione per i maschietti che compreranno questi costosi manufatti, ma anche che di disapprovazione verso il loro creatore. Ma perché sono create queste bambole dalle prosperose forme? Proviamo a fare lo sforzo di andare oltre gli schemi mentali stereotipati che scattano su certi argomenti e cerchiamo di percorrere uno dei possibili scenari psicologici che ne determinano la dinamica.

Partiamo da un primo assioma: se nasce un comportamento è segno che c’è una necessità. Quale potrebbe essere la necessità di chi compra una bambola in silicone? Una risposta potrebbe essere che questa dovrebbe supplire ad una carenza di sesso del proprietario. Cosa potrebbe impedire all’uomo di avere una vita sessuale? Le ipotesi possibili potrebbero essere tante: 1) essere brutto; 2) essere povero; 3) sentirsi timido e inadatto; 4) essere spaventato dall’aggressività femminile; o forse un misto di queste ed altre ragioni. Quali sarebbero, dunque, le qualità che soddisfa una bambola sessuale del genere? Non ti giudica, non richiede un continuo impegno di soldi (a parte i costo iniziale), non ti rifiuta, è immobile (non passiva) e rimane dove la lasci. Aggiungerei che si lascia abbigliare secondo i gusti e le fantasia del proprietario. Potremmo definirla l’incarnazione di una donna ideale per un uomo? Naturalmente no. Sicuramente non è una donna. Tuttalpiù un sogno materializzato.

Queste considerazioni chiamano in causa il più ampio fenomeno della sessualità maschile e, conseguentemente, della sessualità femminile, della loro interrelazione, delle dinamiche che generano tutta la gamma di emozioni che esistono tra la soddisfazione e la frustrazione, tra il piacere e la rabbia.

Il problema delle bambole del sesso  – tornando all’origine di questo post –  non è facile da liquidare. L’iniziativa iberico-cinese è solo l’ultimo step di una serie di azioni che portano verso la realizzazione di un probabile sogno maschile, ovvero il sesso secondo necessità. Del sesso puro, senza comportamenti propiziatori, seduzioni, balletti corteggiatori, ricatti e riscatti, centellinazioni e negazioni. Perché dentro la sessualità (è sciocco negarlo) esiste anche il senso del potere, il potere di concedere sesso e di arrogarsi violentemente il sesso. Il potere è un afrodiasiaco potentissimo se, come si sostiene, la migliore zona erogena è il cervello.

Un essere con fattezze di donna che assecondi i desideri è presente nella mentalità maschile al punto che degli scrittori di fantascienza l’hanno immaginato nel futuro. Nel romanzo di Philip Dick del 1968, Blade Runner, uno dei quattro replicanti che vengono inseguiti dal cacciatore è Bliss “modello standard di piacere per i lavoratori delle colonie”. Ma anche nella saga dei robot scritta da Isaac Asimov i robot umanoidi altamente perfezionati e indistinguibili dagli esseri umani (se non nel comportamento) diventano compagni sessuali degli uomini e (udite! udite!) delle donne. Eh già, perché ci si può chiedere perché una donna non possa trovare in un umanoide robotico il compagno sessuale delle proprie idealizzazioni, paziente e adorante, che sostenga quanto occorra ogni singola donna a rincorrere la propria soddisfazione.

E le emozioni? Le emozioni non fanno parte di questo post. Però, se proprio siete intrigati da questo scenario, provate a leggere il romanzo di Asimov “I robot dell’alba”.

LA SEGNALETICA TEORICA SULLA STRADA

Pensavo di fare una trattazione scientifica di questo fenomeno, ma ogni volta che trovavo la causa di un comportamento mi ritrovavo collegato ad un altro fenomeno della mente. Per questo mi limiterò ad esporre le mie impressioni sul fenomeno che descriverò, con la promessa di approfondire in futuro con un saggio più articolato.

Tutto comincia dall’esperienza quotidiana fatta alla guida della mia auto. Nel fare attenzione alla segnaletica stradale, soprattutto quella verticale, mi sono accorto che spesso risultava incoerente o assurda. Questa sensazione nasceva principalmente dalla comparazione tra le prescrizioni dei segnali ed i comportamenti degli automobilisti (me compreso, naturalmente) che frequentemente divergono, soprattutto per i limiti di velocità.

Premetto che mi asterrò da valutazioni morali, proprio perché impegnarmi in una valutazione “morale” delle violazioni delle regole mi porterebbe molto lontano dalla pura descrizione del fenomeno. Mi limiterò a fare delle considerazioni in base alle prassi comportamentali.

La prima di queste considerazioni è che gli esseri umani regolano il proprio comportamento in base al contesto in cui vivono, ovvero in funzione del luogo, delle condizioni e del comportamento delle altre persone, oltre che in base alle proprie intenzioni e necessità. Se così non fosse, saremmo una massa di corpi contundenti in moto caotico nello spazio.

La seconda è che esiste la percezione della congruenza di una norma che è funzione della possibilità di rispettarla. Se il rispetto di un comportamento frutto di una regola “imposta” risulta troppo “difficile da raggiungere, diviene fattibile la violazione della regola: ciò soprattutto se la repressione della trasgressione non è puntuale.

Per illustrare quanto appena ipotizzato ho realizzato un piccolo esperimento. Sono andato in auto lungo una delle strade più trafficate  di Roma. È una strada a doppia carreggiata e a doppia corsia per senso di marcia quindi, in deroga al limite di 50 km/h vigente nelle città, si può arrivare fino a 70. Il problema nasce quando, lungo il percorso, vengono posti i segnali di limitazioni a velocità inferiori perché praticamente nessun guidatore le rispetta. Non solo. Diventa oggettivamente difficile rispettare il limite senza diventare un intralcio al flusso e diventare un fattore di rischio. Ecco il video dell’esperimento.

In pratica ho constatato che è effettivamente difficile non violare i limiti e, quando ci riuscivo, ero sistematicamente il veicolo più lento. Infine, alla comparsa di un limite di 30 km/h ho percepito l’assoluta impossibilità di rispettarlo se non effettuando una brusca frenata che, non avendo alcun ostacolo davanti, sarebbe stata inaspettata dai guidatori che mi seguivano e, quindi, pericolosa.

Riassumendo, se rispettavo la segnaletica sulla velocità percepivo di essere in moto disarmonico con quanto mi accadeva intorno. Forse per questo viene naturale adattarsi all’andamento delle altre auto, quindi violando la prescrizione. Inoltre, appariva palese l’incongruenza delle prescrizioni, soprattutto in considerazioni delle capacità cognitive medie dei guidatori, per cui viene il sospetto che le norme applicate in virtù del codice della strada siano sottilmente teoriche, nel sospetto che ai responsabili non interessi effettivamente la riduzione degli incidenti ma solo essersi scaricati una responsabilità (Noi il divieto lo abbiamo messo e sono gli automobilisti gli unici responsabili degli incidenti).

Come postilla a questo ragionamento dirò che la mia opinione può essere obiettata in più punti. In un prossimo futuro mi riservo di soddisfare con un saggio questa mia ipotesi.

COME VOLEVASI DIMOSTRARE

In uno degli articoli precedenti affermavo che uno dei pochi modi di affrontare il fenomeno dei writer infestanti i muri della città era l’antagonismo, come nell’agricoltura biologica si usano gli insetti per combattere gli insetti.
Segnalai che appena un muro fa bella mostra di sé con una parete nuda, viene segnato.

Nel caso nella foto il disegno era rivendicativo e manteneva una sua godibilità (al di là del messaggio sociale che conteneva). Notavo che, in quel caso, una parete era sottratta al ruvido “tag”. Ma qualcuno ha pensato bene che quel murales fosse indecoroso e l’ha cancellato, ridipingendo la parete.
Risultato. Oggi la parete è stata ridipinta ed è stata taggata con banale contrassegno da writer elementare.
Bel colpo! Avrei preferito il murales precedente.

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LO SPAZIO CONTESO AI WRITERS

Uno dei fenomeni urbani più evidenti è quello dei “writers“. Le loro scritte su muri, metropolitane, barriere antirumore e altri luoghi sono diventati endemiche nelle metropoli italiane. A seconda dei punti di vista vengono considerati atti di vandalismo (la maggioranza) o manifestazioni culturali e artistiche (la minoranza). Secondo la legge italiana l’atto del writer è punibile civilmente e penalmente e qualche volta (raramente) le autorità di polizia hanno provato a contrastare il fenomeno ma con scarsi risultati.
Il graffitismo, di cui le scritte sui muri (tags) sono una delle possibili espressioni, nasce a New York ma presto diventa un fenomeno mondiale. Prevalentemente consiste nel dipingere su una superficie una propria firma: il problema è che questi spazi non sono di proprietà del writer ma di altri. La scrittura sul proprio muro esterno di casa, sul proprio citofono, sulla serranda del proprio negozio, ha come effetto un vissuto da parte di chi lo subisce paragonabile ad un’aggressione o – almeno – di un’invasione fraudolenta, come avviene quando ci entrano i ladri in casa e mettono tutto a soqquadro.
Le motivazioni che spingono a questo comportamento sono varie e possono spiegare in parte il fenomeno. La necessità di affermare se stessi attraverso un segno visibile agli altri è una delle strategie che la personalità umana escogita per sostenere la propria stima di sé. Chi ha necessità di far vedere ad altri la propria esistenza- evidentemente – teme che altri non la vedano naturalmente. Ecco che si escogitano dei segnali che possano essere “visti e riconosciuti”. Generalmente si mostrano questi segnali con l’abbigliamento, con l’abbellimento di sé (per esempio truccandosi) o con gli oggetti (sfoggiando un’auto costosa). Nel caso dei writer la strategia si attua dipingendo su tutte le superfici accessibili il proprio tags (o una scritta qualsiasi nella modalità più elementare): Ma con un passo in più rispetto ai casi già proposti. I writers “impongono” il proprio tag. Invadono spazi non propri per affermare il proprio Sé; una modalità che rimanda alle dinamiche adolescenziali che “si ribellano” alla normalità, esagerando e sfidando il mondo degli adulti.
Andando oltre il problema della contrapposizione tra pro e contro il fenomeno, esiste per molti la necessità di mantenere un certo “decoro” della cosa pubblica o privata. Esiste un modo per eliminare o attenuare questa invasione? Il writer, in fondo, va ad “occupare uno spazio libero” con il proprio dipinto con una modalità che ricorda l’espansione demografica di alcuni animali. Ogni organismo vivente occupa tutto lo spazio disponibile fino ad un punto di equilibrio nell’ecosistema in cui vive. Se supera il punto critico cominciano a generarsi delle contro-azioni che portano al riequilibrio del sistema. Ecco che su questa legge della natura può essere tratta l’azione di contrasto al fenomeno e, come avviene nell’agricoltura biologica, che gli insetti parassiti vengono neutralizzati con altri insetti antagonisti, l’azione dei writers può essere contrastata con modalità simili. Questa azione di contrasto sullo stesso “habitat” è già in corso ed ho provato a verificarlo.
Accade che alcuni commercianti fanno dipingere la serranda del proprio negozio, un po’ per abbellimento e un po’ – forse – per contrastare i tags dei writers (non possiamo escludere che le dipingano gli stessi che vanno di notte a taggare). E’ una strategia efficace. Ho provato a prendere in considerazione le serrande di un quartiere di Roma, più esattamente un quartiere popolare come Centocelle. L’osservazione ha generato questi risultati.
Le serrande non dipinte subiscono le scritte per un 65% (116/177), mentre le serrande dipinte si fermano ad un 8,3% (12/145). Una proporzione evidente che attesta come la presenza di un’altra opera sullo spazio libero inibisca le azioni dei writers. Quella percentuale di serrande violate in presenza di altro dipinto riguarda una percentuale minore se si considera che, delle dodici rilevate sei appartengono a due soli esercizi commerciali (sembra quasi uno sfregio): quindi si potrebbe ipotizzare che quella percentuale possa scendere al 5,5%.
In conclusione, posso dire che la mia piccola indagine ha verificato che effettivamente la strategia di occupazione degli spazi liberi nel tessuto urbano con disegni e dipinti sia di contrasto al fenomeno dei writers. Quanto, poi, sia preferibile “educare” a non sporcare i giovani delle bombolette spry o reprimerli con pesanti punizioni che possano fungere da deterrente, non è oggetto di questo post.