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SIAMO TUTTI IN ORBITING DI QUALCUNO

Qualche giorno fa mi è capitato di leggere l’articolo dell’ottima collega Giorgia Lauro che riferiva di quanto ipotizzava Anna Iovine  – in un suo articolo –  su un fenomeno particolarmente evidente nel mondo delle “relazioni social”, ovvero l’orbiting. Per definirlo userò esattamente quanto letto nell’articolo: “un fenomeno in cui una persona interrompe tutte le comunicazione dirette e significative, ma continua a interagire tramite i social (…) non commenta le vostre foto o invia un messaggio, ma guarda tutte le vostre Instagram Stories, condivide i vostri tweet, guarda le vostre foto su Facebook esprimendo un “like”, nel tentativo di mantenere un’interazione seppur superficiale“.

Questo articolo mi ha innescato un paio di considerazioni. La prima è che i social network favoriscono questa forma di “interazione debole“, in cui possiamo mantenere una partecipazione defilata, evitando il face-to-face che implica il coraggio-responsabilità di guardarsi. Chi non avrebbe mai espresso apertamente un gradimento ora può avere questa forma ibrida e “autorizzabile” dal nostro censore interno. La seconda considerazione è che, in fondo, noi abbiamo sempre praticato qualche forma di orbiting. Quando da ragazzi si finiva una storia, una relazione, magari si continuava a chiedere ad amici comuni cosa facesse e come stava l’ex partner; oppure si tornava davanti scuola per poterlo/la vedere ancora di nascosto. La tecnologia ha solo facilitato quello che probabilmente è una tendenza che c’è sempre stata. In fondo, i social media hanno stimolato e ingigantito quella dimensione narcisistica di base presente in ognuno di noi e che, in questo trend crescente di “emanazione del Sé“, viene frullata e centrifugata verso gli altri in modo indistinto.

Ecco perché si riesce più facilmente a rimanere in orbiting e  – senza darle necessariamente una connotazione negativa –  godere di questa interazione debole che potrebbe essere tanto una forma di micro-apprezzamenti, quanto una forma di micro-invidia. Dipende, come tutte le cose umane.

GENITORI, FIGLI E LA COMPETIZIONE NELLA VITA

Chiunque abbia avuto dei figli passa attraverso il lungo percorso di istruzione dei figli. Si comincia addirittura con l’asilo nido e si finisce con il master o la specializzazione all’università. Nella ipotesi peggiore è un percorso che dura anche venticinque anni. In tutto questo tempo si combatte una silenziosa disputa tra genitori e figli, con i primi che spingono verso lo studio e i secondi che cercano di soddisfare queste richieste. Fin qui lo schema, ma la faccenda è molto, molto più complessa.

Qualche considerazione preventiva può aiutare a chiarire il quadro. I piccoli imparano senza alcun bisogno di stimolazione preventiva, per esposizione e per gioco. Nella tassonomia dell’apprendimento nello sviluppo evolutivo, ogni scuola ha generato la sua teoria. Più semplicemente, possiamo dire che il salto di qualità dell’apprendimento avviene per una mutazione della Motivazione. In condizioni naturali il bambino apprende ciò che gli serve nel suo spazio vitale. Ma sappiamo che, in una società complessa come quella che viviamo, non basta imparare basic, ma è opportuno proiettarsi molto in avanti. Ecco che quel  comportamento istintivo e fondamentale per la sopravvivenza che porta i piccoli a fare ciò che gli viene chiesto dai genitori diventa la motivazione di livello superiore. Per un bambino è fondamentale avere l’approvazione del genitori ed il suo comportamento viene ampiamente plasmato da questo tipo di dinamica. Ma la faccenda si complica a causa della correlazione tra istruzione e competizione per le risorse. Uno degli assiomi consolidati negli ultimi duecento anni è che ad una maggiore istruzione corrisponde un maggiore benessere. Essere “istruiti” ha dato molti vantaggi a chi poteva diventarlo. Un medico dell’inizio del Novecento era un’autorità assoluta per la comunità. Questo assioma si è consolidato quando, a partire dagli anni Cinquanta, la scuola è diventata un fenomeno di massa. Se da un lato la scolarizzazione generalizzata ha innalzato i livelli culturali delle nostre società, dall’altro questo fenomeno ha incastonato questo percorso in quello più ampio della gestione delle Risorse. Fino a quando la società ha mantenuto un livello ottimale di crescita economica, esistevano risorse sufficienti per far intravedere a tutti  – soprattutto ai genitori –  la possibilità di un miglioramento della condizione di arrivo dei figli rispetto a quella dei genitori stessi. Lo chiamano “ascensore sociale“. Ma, quando comincia a declinare la crescita economica, si crea una situazione di scarsità di risorse tale che l’ascensore sociale si ferma o, addirittura, scende. La competizione diventa micidiale.

In questa situazione, i bambini ed i ragazzi, si trovano nella poco invidiabile condizione che descrive perfettamente Silvia Vegetti Finzi in un suo articolo apparso sulla rivista Psicologia Contemporanea, lo scorso gennaio 2017. La psicologa e psicoterapeuta dice: “Viviamo in una società competitiva, dove il futuro è incerto e minaccioso: molti giovani resteranno probabilmente senza lavoro e ben pochi troveranno un’attività corrispondente alle loro aspirazioni per cui, nella corsa della vita, i genitori tendono a trasformarsi in allenatori (…) Prigionieri dell’ansia da prestazione, questi ragazzi incrementano competenze e abilità a scapito dell’evoluzione complessiva. Non essendo liberi di scegliere, non possono sbagliare“. La spinta competitiva dei genitori li porta a riempire la vita dei propri figli di percorsi “formativi” per potergli dare qualche gettone in più da giocare alla slot della competizione delle risorse: imparano inglese (perché dove vai senza sapere l’inglese?); fanno sport (perché fa bene e plasma il carattere, allenando alla competizione); portano voti alti a scuola (perché nella classifica delle opportunità è meglio avere molti punti per apparire più appetibili); frequentano gli ambienti giusti (perché senza conoscenze non si va da nessuna parte). Ancora la Vegetti Finzi nota che “sono sempre più i ragazzini che, schiacciati da richieste insostenibili, incapaci di corrispondere alle aspettative della famiglia, finiscono per sentirsi inadeguati sino a perdere sicurezza e autostima. Di conseguenza, aumentano le patologie legate all’ansia, come l’iperattività e le difficoltà a concentrarsi“. Non solo, troviamo dall’adolescenza in poi che molti “mollano” e si riscontrano situazioni di irritabilità con seguente litigiosità in famiglia, depressione che induce il ricorso a additivi di varia natura (soprattutto alcool e droghe leggere), ai casi di rifiuto della realtà come gli hikikomori.

Cosa fare? Quale ponderoso dilemma si trovano davanti i genitori! Esiste un’alternativa alla corsa alla competizione, in cui alcuni arrivano alla meta ma molti “si schiantano” per strada?

Lo scopo dell’educazione consiste soprattutto nel far emergere il desiderio del ragazzo e, coniugandolo con il senso di responsabilità, sostenerne la realizzazione (…) L’Io contro tutti non paga, meglio sostituirlo con il senso della comunità, con un Noi solidale, che si forma in situazioni di convivenza e collaborazione tanto nella scuola, quanto in ambiti extrascolastici” afferma ancora Silvia Vegetti Finzi. In molte parti del mondo si comincia a comprendere che scendere nell’arena della competitività da soli si perde. Saranno i gruppi, col reciproco sostegno, ad avere più possibilità di benessere. Non a caso nei paesi scandinavi già si affacciano nuovi percorsi formativi che aiutano i bambini ad imparare la collaborazione, l’empatia ed i comportamenti altruistici. In tutti i casi di situazioni difficoltose, è sempre il gruppo ad avere le migliori possibilità, quindi bisogna insegnare i nostri figli a collaborare, ad essere solidali, ad aiutare: cominciando dalla famiglia in cui si cresce. Proprio da lì che si comincia ad imparare. Dei genitori che collaborano, sono sensibili agli altri membri, che aiutano chi è in difficoltà, sono il viatico migliore.

Dalla competitività estrema, spietata, che non fa prigionieri, si può lavorare per una sorta di decrescita felice o, più esattamente, verso una riformulazione dei paradigmi di formazione e crescita dei figli. È inutile dotare i figli degli strumenti per arrivare alle risorse se questi, poi, non avranno modo di goderle perché impegnati ad un accumulo forsennato delle risorse stesse, che siano case, danari, conoscenze o incarichi prestigiosi.

Quando chiacchiero con altri genitori amo affermare che  – esagerando –  preferisco un figlio carrozziere felice che Nobel suicida.

LO SPAZIO CONTESO AI WRITERS

Uno dei fenomeni urbani più evidenti è quello dei “writers“. Le loro scritte su muri, metropolitane, barriere antirumore e altri luoghi sono diventati endemiche nelle metropoli italiane. A seconda dei punti di vista vengono considerati atti di vandalismo (la maggioranza) o manifestazioni culturali e artistiche (la minoranza). Secondo la legge italiana l’atto del writer è punibile civilmente e penalmente e qualche volta (raramente) le autorità di polizia hanno provato a contrastare il fenomeno ma con scarsi risultati.
Il graffitismo, di cui le scritte sui muri (tags) sono una delle possibili espressioni, nasce a New York ma presto diventa un fenomeno mondiale. Prevalentemente consiste nel dipingere su una superficie una propria firma: il problema è che questi spazi non sono di proprietà del writer ma di altri. La scrittura sul proprio muro esterno di casa, sul proprio citofono, sulla serranda del proprio negozio, ha come effetto un vissuto da parte di chi lo subisce paragonabile ad un’aggressione o – almeno – di un’invasione fraudolenta, come avviene quando ci entrano i ladri in casa e mettono tutto a soqquadro.
Le motivazioni che spingono a questo comportamento sono varie e possono spiegare in parte il fenomeno. La necessità di affermare se stessi attraverso un segno visibile agli altri è una delle strategie che la personalità umana escogita per sostenere la propria stima di sé. Chi ha necessità di far vedere ad altri la propria esistenza- evidentemente – teme che altri non la vedano naturalmente. Ecco che si escogitano dei segnali che possano essere “visti e riconosciuti”. Generalmente si mostrano questi segnali con l’abbigliamento, con l’abbellimento di sé (per esempio truccandosi) o con gli oggetti (sfoggiando un’auto costosa). Nel caso dei writer la strategia si attua dipingendo su tutte le superfici accessibili il proprio tags (o una scritta qualsiasi nella modalità più elementare): Ma con un passo in più rispetto ai casi già proposti. I writers “impongono” il proprio tag. Invadono spazi non propri per affermare il proprio Sé; una modalità che rimanda alle dinamiche adolescenziali che “si ribellano” alla normalità, esagerando e sfidando il mondo degli adulti.
Andando oltre il problema della contrapposizione tra pro e contro il fenomeno, esiste per molti la necessità di mantenere un certo “decoro” della cosa pubblica o privata. Esiste un modo per eliminare o attenuare questa invasione? Il writer, in fondo, va ad “occupare uno spazio libero” con il proprio dipinto con una modalità che ricorda l’espansione demografica di alcuni animali. Ogni organismo vivente occupa tutto lo spazio disponibile fino ad un punto di equilibrio nell’ecosistema in cui vive. Se supera il punto critico cominciano a generarsi delle contro-azioni che portano al riequilibrio del sistema. Ecco che su questa legge della natura può essere tratta l’azione di contrasto al fenomeno e, come avviene nell’agricoltura biologica, che gli insetti parassiti vengono neutralizzati con altri insetti antagonisti, l’azione dei writers può essere contrastata con modalità simili. Questa azione di contrasto sullo stesso “habitat” è già in corso ed ho provato a verificarlo.
Accade che alcuni commercianti fanno dipingere la serranda del proprio negozio, un po’ per abbellimento e un po’ – forse – per contrastare i tags dei writers (non possiamo escludere che le dipingano gli stessi che vanno di notte a taggare). E’ una strategia efficace. Ho provato a prendere in considerazione le serrande di un quartiere di Roma, più esattamente un quartiere popolare come Centocelle. L’osservazione ha generato questi risultati.
Le serrande non dipinte subiscono le scritte per un 65% (116/177), mentre le serrande dipinte si fermano ad un 8,3% (12/145). Una proporzione evidente che attesta come la presenza di un’altra opera sullo spazio libero inibisca le azioni dei writers. Quella percentuale di serrande violate in presenza di altro dipinto riguarda una percentuale minore se si considera che, delle dodici rilevate sei appartengono a due soli esercizi commerciali (sembra quasi uno sfregio): quindi si potrebbe ipotizzare che quella percentuale possa scendere al 5,5%.
In conclusione, posso dire che la mia piccola indagine ha verificato che effettivamente la strategia di occupazione degli spazi liberi nel tessuto urbano con disegni e dipinti sia di contrasto al fenomeno dei writers. Quanto, poi, sia preferibile “educare” a non sporcare i giovani delle bombolette spry o reprimerli con pesanti punizioni che possano fungere da deterrente, non è oggetto di questo post.

IL DOTTOR PSICOLOGO

Durante i preparativi di un seminario, chiamo l’avvocato Pinco Pallino che accetta di intervenire. Al momento di mandare gli inviti, Pinco Pallino mi sollecita a correggere la qualifica accanto al suo nome: vuole che venga scritto Dott. Pinco Pallino. Ma capita anche che l’interprete chieda una correzione uguale, completando il suo nome in Dott.sa Tal dei Tali. Se vi capitasse una cosa del genere vi sembrerebbe strano?
Il termine “dottore” viene usato per indicare il conseguimento di una laurea: una qualsiasi. Dottore in Scienze Biologiche, Dottore in Ingegneria e così via. Ma nel linguaggio corrente si identifica il dottore come il medico. E’ difficile che un ingegnere pretenda di stampare sui biglietti da visita che è Dottore: vero il contrario e leggeremo “Ing. Ghino di Tacco”.
Perché la generazione di psicologi che escono dall’università di massa fa uso preponderante della qualifica di Dottore prima del nome e del cognome? Possiamo fare un’ipotesi.
Partiamo dalla definizione di stima di sé (detta anche autostima). La prendiamo a prestito da Wikipedia, ma sostanzialmente è quella anche rispetto ad altre autorevoli opinioni. William James la definisce come il rapporto tra il sé percepito e il sé ideale, ovvero come il risultato del peso di come pensiamo di essere e come, invece, vorremmo essere. Maggiore è la distanza tra queste due immagini, maggiore sarà l’insoddisfazione.
I due concetti di autostima e insoddisfazione potrebbero spiegare quello che pare il desiderio di affiliazione di chi cerca sostegno nell’acquisizione di una qualifica presa da un’altra categoria professionale. Diventare la Dott.sa Tal dei Tali o il Dott. Pinco Pallino può apparire come il modo per ottenere un’autorevolezza a buon mercato, ovvero un segno di debolezza professionale.
Forse potrebbe essere opportuno, per chi fa il lavoro dello psicologo, riflettere su questi aspetti. Purtroppo, sembra che il percorso di affiliazione sia il peccato comune a tutto il movimento della Psicologia se addirittura il Consiglio Nazionale degli Ordini degli Psicologi (Newsletter n.4 – 2015) si sente di specificare “E come tutti sanno, l’Ordine degli Psicologi sta completando il passaggio verso la piena vigilanza del Ministero della Salute e la Psicologia sta diventando completamente una professione sanitaria, tramite un processo deciso e iniziato già dal precedente Consiglio Nazionale“.

Stefano Paolillo (psicologo)

RICONOSCERE IL VALORE

Quante volte abbiamo assistito a persone che sfoggiavano una certa parola, neanche fosse un diamante o un vestito formato. Una delle parole più usate per questo scopo è “meritocrazia”. Sempre volendo partire dall’etimologia, meritocrazia rintracciando la parola su treccani.it: “meritocrazìa s. f. [dall’ingl. meritocracy, comp. del lat. meritum «merito» e -cracy «-crazia»]. – Concezione della società in base alla quale le responsabilità direttive, e specie le cariche pubbliche, dovrebbero essere affidate ai più meritevoli, ossia a coloro che mostrano di possedere in maggior misura intelligenza e capacità naturali, oltreché di impegnarsi nello studio e nel lavoro”.
Il passaggio fondamentale di questa definizione è nel mostrano di possedere intelligenza e capacità. Con una certa disillusione accettiamo questa definizione sapendo che nella nostra società il riconoscimento del valore è una forma di onestà poco praticata: soprattutto quando si sale nelle gerarchie. Però, come segnala Guido Sarcinelli, “i complimenti per il proprio lavoro, oltre a far piacere, rappresentano una strategia di feedback positivo che in genere, sembra produrre nei contesti lavorativi potenti effetti motivanti” [Sarcinelli; Psicologia Contemporanea n. 239]. Ovviamente, come in tutte le interazioni umane, la valenza del complimento dipende anche dal contesto. Per esempio, i complimenti possono avere valori diversi se espressi in pubblico o in privato; oppure se espressi da un amico, uno sconosciuto, il proprio capo o la propria madre.
C’è un altro aspetto da considerare. Per poter essere in grado di ammettere con l’interessato (più a meno pubblicamente) che è bravo e, magari, anche più bravo di noi, dobbiamo avere un’ottima stima di noi stessi. Chi non ha stima di sé rischia di essere preda dell’invidia che è un sentimento che si basa proprio sulla scarsa stima: questa induce comportamenti di depredazione dell’Altro e sua distruzione morale. Chi si sente inferiore spesso può cercare di mettere in cattiva luce l’altra persona. Quindi, ne disconosce il valore, anche se intimamente sa che l’Altro gli è superiore.
Saper riconoscere il valore è, dunque, un segno di maturità della personalità. Produce effetti positivi in noi e negli altri e non va confuso con le forme di gregarismo che – nei casi estremi – portano all’adulazione. Un fattore correlato, inoltre, è che il riconoscimento del valore dell’Altro induce un senso di lealtà da parte delle persone che ci circondano e, quindi, viene favorito il senso di appartenenza al gruppo. “Il capitale umano va là dove è desiderato e starà là dove verrà trattato bene. Non si tratta di qualcosa che si può controllare in qualche modo; si può solamente attirare e trattenere nel modo giusto ” Walter Wriston (ex Presidente di Citicorp/Citibank)

I COMPLIMENTI DI CHI COMANDA

Nel n. 239 di Psicologia Contemporanea leggo il sintetico articolo sugli “effetti collaterali” dei complimenti sul luogo di lavoro. Se da un lato l’apprezzamento di un datore di lavoro verso i dipendenti può essere un ottimo sostegno alle motivazioni, dall’altro possono essere fraintesi, creando effetti opposti a quelli desiderati.

“Studi recenti identificano differenti forme di esplicitazione dell’ammirazione per un lavoro svolto bene che possono tradursi in esiti indesiderati: a) complimenti manifestati con linguaggio ambiguo (…) Da ciò deriva il dubbio che il giudizio, anche senza volerlo, sia percepito come un espediente linguistico non pienamente favorevole; b) complimenti troppo frequenti per piccole cose (…) determinano una perdita del loro valore per eccesso di offerta; c) complimenti inappropriati, quando si supera il contesto professionale mettendo in risalto aspetti dello stile di vita o del modo di vestirsi o delle caratteristiche di genere (…) in questi casi si rischia facilmente di incrinare il clima delle relazioni interpersonali con il sospetto di intenzioni manipolatorie (…); d) complimenti imbarazzanti si verificano quando un manager indirizza l’apprezzamento ad una singola persona di fronte ad altri membri di un gruppo di lavoro (…) la stessa persona che riceve l’elogio prova l’imbarazzante sensazione di doversi giustificare per uno stile comunicativo a rischio di favoritismi; e) complimenti grossolani e sgraziati (…) possono sortire effetti indesiderati facendo pensare che il complimento non sia genuino, non si basi sulla reale conoscenza dei risultati (…); f) complimenti da piazzista (…) assai frequenti nei rituali collettivi che grandi organizzazioni multinazionali promuovono per cercare di riconoscere il valore del loro personale (…) In questi casi, l’ammirazione per i risultati ottenuti non è certo personalizzata e spesso assomiglia a forme di adulazione tipiche dei venditori porta a porta”.

La tassonomica categorizzazione fatta in questo articolo segnala solo un fenomeno più ampio, ovvero la capacità di stabilire socialmente un valore delle persone. Facciamo alcune puntualizzazioni. Innanzitutto bisogna considerare che sui luoghi di lavoro la stragrande maggioranza dei “capi” sono uomini, per cui non possiamo escludere che esistano delle differenze stilistiche nel fare i complimenti. Inoltre, bisogna considerare che il confine tra riconoscimento del valore e tentativo di seduzione (entrambi possibili nel complimento) sono molto sfumati. Infine, i complimenti (intesi come manifestazione di riconoscimento del valore) sono uno dei mattoni delle strategie persuasive.

La comunicazione tra le persone è un fenomeno molto sofisticato e ci permette di comprendere tanto ciò che viene detto, quanto ciò che è implicito. Maggiore è la maturità della personalità e maggiore la capacità di comprensione della comunicazione. Direi che, volendo trovare una chiosa, se vogliamo dare riconoscimento ad una persona sarebbe preferibile farlo da uno all’altro e riservare i riconoscimenti sociali al territorio delle azioni formali e ritualizzate. Quindi, se sei bravo te lo dico in privato e se lo devono sapere gli altri lo faccio pubblicamente con una bella medaglia al petto.