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PSICOLOGI NELLA SOCIETÀ, PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI

Questo articolo che ho scritto circa un anno fa sul sito psiconline.it era frutto di alcune mie riflessioni sulla professione dello psicologo. Lo ripubblico su questo blog perché, a distanza di un anno, il mio ragionamento ha prodotto vari sviluppi e mi piace condividerlo anche su queste pagine personali, a mo’ di promemoria.

Questo articolo è un racconto, un’indagine, una teoria e una sfida al tempo stesso. Psicologi e psicoterapeuti, ve la sentite di leggerlo? Chi non vuole impegnarsi, se ne astenga. Tutti gli altri seguano i miei pensieri

Tutto prende avvio da un intervento ad uno dei TED che si svolgono nel mondo. Parla “Carole Cadwalladr, la cronista dell’Observer che ha scoperchiato lo scandalo di Cambridge Analityca (e che è stata bannata a vita da Facebook per questo), ha spiegato come i social hanno influito sulla Brexit. E come stanno facendo del male alle democrazie di tutto il mondo”.

Ma prima di proseguire nella lettura di alcuni passaggi del discorso di Carole proviamo a ricordare una premessa indispensabile.

L’articolo 3 del nostro codice deontologico comincia con: “Lo psicologo considera suo dovere accrescere le conoscenze sul comportamento umano ed utilizzarle per promuovere il benessere psicologico dell’individuo, del gruppo e della comunità”. L’altro passaggio fondamentale del codice ai fini di questo articolo è nel primo articolo: “Le regole del presente Codice Deontologico sono vincolanti per tutti gli iscritti all’Albo degli psicologi”. Fatta questa premessa, seguiamo il discordo di Carole Cadwalladr.

La giornalista inglese (riassumendo) è andata nel paesino dove nacque nel Galles per comprendere il fenomeno della Brexit. La sua indagine rilevava che, nonostante fossero tanti e ben evidenti gli interventi a favore delle popolazioni fatti con i fondi dell’Unione Europea, i residenti si dichiaravano insoddisfatti e ostili verso l’Unione che veniva vista come fonte di insicurezza e minaccia.

Facendo interviste la Cadwalladr si accorge che le persone erano state oggetto di una massiccia dose di disinformazione perpetrata attraverso Facebook. Dalle sue indagini, dal comportamento del colosso di Zuckemberg alle richieste di informazioni delle autorità, arriva ad ipotizzare una complicità diretta di Facebook. “Questa è stata la più grande frode elettorale del Regno Unito degli ultimi cento anni. Un voto che ha cambiato le sorti di una generazioni deciso dall’uno per cento dell’elettorato”.

E poco dopo afferma: “Ho passato mesi per rintracciare un ex dipendente, Christopher Wiley. E lui mi ha rivelato che questa società, che aveva lavorato sia per Trump che per la Brexit, aveva profilato politicamente le persone per capire le paure di ciascuno di loro, per meglio indirizzare dei post pubblicitari su Facebook”. Infine: “In questo esperimento globale e di massa che stiamo tutti vivendo con i social network, noi britannici siamo i canarini. Noi siamo la prova di quello che accade in una democrazia occidentale quando secoli di norme elettorali vengono spazzate via dalla tecnologia. La nostra democrazia è in crisi, le nostre leggi non funzionano più, e non sono io a dirlo, è un report del nostro parlamento ad affermarlo. Questa tecnologia che avete inventato è meravigliosa. Ma ora è diventata la scena di un delitto”.

Volendo riassumere, quella che sembrava la grande via verso la libertà di pensiero e una democratizzazione di massa, si sta rivelando uno strumento di confusione, manipolazione e malessere. Senza voler scendere nell’argomentazione (sicuramente ne avrete percepito la portata) è evidente che tutto ciò collide con quanto leggevamo prima dal nostro codice deontologico.

Il benessere delle persone (che fanno parte della società e che sono chiamate al voto) dovrebbe essere uno dei nostri scopi e il nostro sapere non ci può esimere dall’intervenire, non ci si può nascondere dietro la motivazione della mancanza di un onorario. Ci vantiamo di essere paragonabili ai medici, abbiamo fatto fuoco e fiamme per farci assimilare nel mondo sanitario, ma non credo che in caso di sciagura, con feriti e sofferenti per strada, alcuni medico si astenga dall’intervenire perché nessuno lo paga. Poi, certamente si può discutere e concordare su delle forme di aiuto, in questa azione di soccorso sociale, che non ricadano sulle spalle di pochi.

È possibile per noi psicologi e psicoterapeuti il disimpegno dalle sorti della società che viviamo? Non dovremmo cominciare a intraprendere attivamente delle forme di disinnesco di queste trappole che minano il benessere di tutte le persone perpetrate attraverso web e social?

La domanda finale di Carole Cadwalladr è: “La mia domanda per tutti gli altri è: è questo che vogliamo? Che la facciano franca mentre noi ci sediamo per giocare con i nostri telefonini, mentre avanza il buio?”. E voi? Cosa pensate di fare?

STAT “PSY” PRISTINE NOMINA, NOMINA NUDA TENEMOS

È parafrasando l’ultima frase contenuta nel famoso best seller di Umberto Eco (Il nome della rosa) che mi piace aprire questo post. Parliamo di nomi e di quanto questi siano importanti nella definizione dell’identità.

La riflessione mi è nata ogni volta che mi trovo a parare con amici, colleghi e conoscenti della nostra professione. Quando accenno a qualcuno che agisce dal campo della psicologia mi trovo a dover scegliere con che nome qualificarlo. Psicologo? Psicoterapeuta? Analista? So che ognuno è molto attento a distinguersi, a meglio definirsi attraverso il nome. Quando nel biglietto da visita si fa scrivere “psicologo psicoterapeuta” si percepisce il senso accrescitivo rispetto al semplice “psicologo”. D’altronde è lo Stato che ne fa due figure differenti.

Eppure non sarebbe forse sbagliato avere una sola parola, un solo nome, che definisca tutti coloro che, avendo fatto un percorso formativo psicologico, lavorano per il benessere delle persone e delle comunità. Giusto per fare un paragone con i vicini di casa. Quando diciamo “devo farmi vedere da un medico” non abbiamo bisogno di specificazioni. Successivamente potremo specificare in cosa consiste il sapere specifico del medico che ci occorre. Se vi presento il mio amico, l’ingegnere Taldeitali, non ho bisogno di specificare se è elettronico, civile o idraulico. Intanto è ingegnere.

Forse, questa assenza di un nome che ci accomuni potrebbe essere proprio la spia di un’identità giovane al punto da essere “fragile”. Che nome si potrebbe scegliere?

LO PSICOLOGO SENZA DISSENSO

Due episodi recenti, strettamente collegati, mi hanno fatto sorgere il dubbio che i social stiano sfuggendo di mano agli psicologi. Protagoniste sono due psicoterapeute. Ve li racconto.

Il tutto nasce da un articolo dal titolo: “La Spagna introduce legge sul consenso esplicito: se l’altro non dice “si” è stupro”. La prima psicoterapeuta posta sulla propria bacheca Facebook (n.b. aperta ai commenti) l’articolo ed io, perplesso, commento con un semplice “bah”. Mi arriva via messaggio la richiesta della collega di rimuovere il mio commento. L’ho invitata a farlo lei, cosa regolarmente avvenuta. La seconda psicoterapeuta, invece, a commento delle probabili reazioni che qualcuno deve aver manifestato alla notizia, così commenta; “Mi spiace, dolci e amati maschioni, che la legge spagnola sullo stupro non vi garbi. Sapete, secoli e secoli di abusi, stupri, discriminazioni e violenze ci hanno costrette a tralasciare quelle sfumature di romanticismo che tanto rimpiangete e a cui siete notoriamente interessati. D’altronde sono sicura che, come riuscite a tenere il pisello alzato in situazioni francamente improponibili a livello di eccitazione sessuale, ce la farete anche questa volta. Forza guerrieri, vi sono vicina [NdR. aggiunge un emoticon-cuore] “.

Pur intuendo la delicatezza dell’argomento e comprendendo la reattività che l’argomento può innescare, ribadendo che reputo stupidi gli uomini che aggrediscono le donne, mi ha lasciato molto perplesso il comportamento di queste due colleghe. La prima considerazione è che stare sui social, anche e titolo personale, non fa smettere di essere uno psicologo. A maggior ragione se si usano abitualmente i social per il proprio marketing on line, attraverso siti, pagine Facebook o account su Twitter o Instagram. Ritengo (sarò all’antica) che uno dei primi compiti etici di uno psicologo sia l’inclusione. Uno psicologo che non tollera il dissenso, soprattutto se manifestato in termini civili e educati, come nel primo caso, è probabile che non appaia come qualcuno in grado di comprendere. Poi, come nel secondo caso, la militanza di genere, quella del “noi nel giusto, voi nel male”, crea antagonismi che mirano deliberatamente a escludere, a dividere, perdendo di vista qualsiasi sfumatura o differenza nel comportamento. Inoltre, il linguaggio intriso di sfida e di scherno (con tanto di emoticon-cuore finale), mette di fronte i lettori alla consapevolezza che non può esistere dialogo (quindi collaborazione) con chi si pone in questo modo, aumentando conseguentemente la distanza con chi non aderisce fidelisticamente a quella posizione.

Questi sono solo due episodi tra i tanti che mi inducono a pensare che in molti non abbiano ancora compreso la valenza della comunicazione attraverso i social. Quando capita a dei “colleghi”, rimane un po’ di amaro in bocca perché è facile, poi, essere valutati dal pubblico come una categoria professionale non affidabile.

Naturalmente, posso sbagliare in queste mie valutazioni.

IL DOTTOR PSICOLOGO

Durante i preparativi di un seminario, chiamo l’avvocato Pinco Pallino che accetta di intervenire. Al momento di mandare gli inviti, Pinco Pallino mi sollecita a correggere la qualifica accanto al suo nome: vuole che venga scritto Dott. Pinco Pallino. Ma capita anche che l’interprete chieda una correzione uguale, completando il suo nome in Dott.sa Tal dei Tali. Se vi capitasse una cosa del genere vi sembrerebbe strano?
Il termine “dottore” viene usato per indicare il conseguimento di una laurea: una qualsiasi. Dottore in Scienze Biologiche, Dottore in Ingegneria e così via. Ma nel linguaggio corrente si identifica il dottore come il medico. E’ difficile che un ingegnere pretenda di stampare sui biglietti da visita che è Dottore: vero il contrario e leggeremo “Ing. Ghino di Tacco”.
Perché la generazione di psicologi che escono dall’università di massa fa uso preponderante della qualifica di Dottore prima del nome e del cognome? Possiamo fare un’ipotesi.
Partiamo dalla definizione di stima di sé (detta anche autostima). La prendiamo a prestito da Wikipedia, ma sostanzialmente è quella anche rispetto ad altre autorevoli opinioni. William James la definisce come il rapporto tra il sé percepito e il sé ideale, ovvero come il risultato del peso di come pensiamo di essere e come, invece, vorremmo essere. Maggiore è la distanza tra queste due immagini, maggiore sarà l’insoddisfazione.
I due concetti di autostima e insoddisfazione potrebbero spiegare quello che pare il desiderio di affiliazione di chi cerca sostegno nell’acquisizione di una qualifica presa da un’altra categoria professionale. Diventare la Dott.sa Tal dei Tali o il Dott. Pinco Pallino può apparire come il modo per ottenere un’autorevolezza a buon mercato, ovvero un segno di debolezza professionale.
Forse potrebbe essere opportuno, per chi fa il lavoro dello psicologo, riflettere su questi aspetti. Purtroppo, sembra che il percorso di affiliazione sia il peccato comune a tutto il movimento della Psicologia se addirittura il Consiglio Nazionale degli Ordini degli Psicologi (Newsletter n.4 – 2015) si sente di specificare “E come tutti sanno, l’Ordine degli Psicologi sta completando il passaggio verso la piena vigilanza del Ministero della Salute e la Psicologia sta diventando completamente una professione sanitaria, tramite un processo deciso e iniziato già dal precedente Consiglio Nazionale“.

Stefano Paolillo (psicologo)

METAPSICOLOGIA DA FACEBOOK, OVVERO PSICOLOGI DA SOCIAL NETWORK

C’è abbondanza di psicologi su Facebook. Almeno a me è sembrato. Sarà per “deformazione professionale” che vado a cercarli, perciò li noto. Stavo quasi per buttare giù un post di commento quando ho pensato che le mie considerazioni potevano risultare troppo parziali.
Così ho pensato di fare una piccola indagine. Ho fatto una domanda a duecento psicologi e psicoterapeuti presenti su Facebook e poi sono andato a fare altre domande di verifica alle persone comuni presenti su questo social network.
E’ emerso che poco più del 20% degli psicologi intervistato ha affermato di aver ottenuto un paziente/cliente/ingaggio direttamente da Facebook, ma una buona parte di loro ha anche ammesso che ciò è accaduto una sola volta. Alle persone comuni, invece, ho chiesto prima se avessero mai notato psicologi o servizi di psicologia su Fb e il 37% del campione ha risposto affermativamente. Poi ho chiesto loro se fossero stati mai contattati da psicologi o servizi di psicologia, anche solo attraverso una richiesta di “like” o l’invito ad un evento: si scende drasticamente al 16%. Infine, ho chiesto se li avessero mai contattati di loro iniziativa e la percentuale scende ulteriormente ad un esiguo al 4%.
Alcune considerazioni, dunque. L’attività degli psicologi/psicoterapeuti su Facebook non produce cospicuo lavoro ma, come anche segnalato da uno degli intervistati, “FB è più utile come strumento indiretto, quindi per farti una buona reputazione più che essere ricercato in modo diretto dai pz”. Tutto il lavorìo degli psicologi in termini di ricerca della visibilità – stando al mio empirico campione – produce oltre un terzo di persone che hanno effettivamente notato qualcosa che, però, si traduce in un’esile richiesta di contatto fattivo. E fin qui le conclusioni dirette che è possibile trarre. Ma si possono provare a trarre altre impressioni sugli psicologi su Fb.
Innanzitutto, nel corso della raccolta delle risposte, è stato possibile osservare il “social-comportamento”. Il primo dato che colpisce è che, ad una richiesta di aiuto, ben il 29% di psicologi e psicoterapeuti contattati non ha risposto. Se consideriamo che un social network è per definizione uno “strumento di contatto e di relazione” , allora il dato è impressionante perché denota un’indisponibilità al contatto: un peccato mortale per un socio-cybernauta. C’è stato anche chi ha pubblicato un post puntiglioso su come interpretare la propria presenza su Fb, scrivendo tra l’altro: “i messaggi sono aperti per richiesta di informazioni relative alla psicologia e la mia attività ma non per ‘fare due chiacchiere’ (se non sui temi proposti), per ‘fare conoscenza’ (…) Non solo non è lo scopo della pagina ma oggettivamente non potrei stare dietro a tutti i messaggi”. Se questa presa di posizione fosse stata scritta su un sito personale (es. picopallino.it) o un blog sarebbe stata legittima, ma in un social network sembra un’ingenuità. Perché stare su Facebook se non per entrare in contatto? Similmente, è inutile stare professionalmente su Facebook e non frequentarlo regolarmente. Essere su Facebook appare imprescindibile proprio perché è diventato l’agorà globale in cui ricordare a tutti che esistiamo e che facciamo qualcosa: ma, come una piazza reale, la nostra capacità di entrare in relazione, in contatto, con gli altri dipende proprio dalla nostra disponibilità. Poi ognuno usa il proprio account secondo una personale “linea editoriale”: c’è chi lo usa per dispensare pillole di saggezza, chi lo usa per un serrato marketing professionale, chi ne mescola frammenti della vita privata e chi vorrebbe stare da solo con i propri amici e non si capisce perché abbia specificato che è psicologo/psicoterapeuta.
Infine, ho notato un fenomeno bizzarro. Molto, molto spesso, appena chiedevo l’amicizia ad un collega (e mi veniva accordata), a ruota seguita la richiesta di like ad una o più pagine. Una strana reciprocità convulsa.
Per chi vuole curiosare nei dati dell’indagine, eccoli a seguire.

– Il campione di psicologi è stato scelto in base alla presenza in foto della persona (al momento della richiesta di amicizia) e della dichiarazione esplicita (nome o informazioni pubbliche) della professione di psicologo/psicoterapeuta. Il criterio è stato scelto perché uno psicologo/psicoterapeuta che si cela dietro la foto di un gattino, di una stella o di qualsiasi altra cosa, probabilmente può mostrare inconsapevolmente una paura di “esporsi” agli sconosciuti.
– Il campione è composto da 200 psicologi e psicoterapeuti su tutto il territorio nazionale. Il 29% di quelli contattati non ha risposto. Così ripartiti per generi: 23% degli uomini; 31% delle donne.
– Alla domanda “Hai mai ottenuto un paziente/cliente/ingaggio tramite il profilo Facebook?”. SI: 22% del campione. NO: 46% del campione. Non esercito: 3%
– Il campione delle “persone comuni” è composto da 159 soggetti su tutto il territorio nazionale. Il 13% delle persone contattate non hanno risposto. Così ripartiti per generi: 16% degli uomini; 11% delle donne.
– Alla domanda “hai mai notato psicologi o servizi di psicologia su Facebook?”. SI: 37% del campione, così ripartiti per generi: 13% degli uomini; 24% delle donne. – NO: 63% del campione.
– Alla domanda “Sei mai stato contattato da psicologi o servizi di psicologia (es. inviti a eventi e richiesta di “mi piace”)?”. SI: 16% del campione, così ripartiti per generi: 3% degli uomini; 13% delle donne. NO: 84% del campione.
– Alla domanda “Hai mai chiesto qualcosa a psicologi o servizi di psicologia su Facebook?”. SI: 4% del campione, così ripartiti per generi: 0,5% degli uomini; 3% delle donne. NO: 96% del campione.