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STAT “PSY” PRISTINE NOMINA, NOMINA NUDA TENEMOS

È parafrasando l’ultima frase contenuta nel famoso best seller di Umberto Eco (Il nome della rosa) che mi piace aprire questo post. Parliamo di nomi e di quanto questi siano importanti nella definizione dell’identità.

La riflessione mi è nata ogni volta che mi trovo a parare con amici, colleghi e conoscenti della nostra professione. Quando accenno a qualcuno che agisce dal campo della psicologia mi trovo a dover scegliere con che nome qualificarlo. Psicologo? Psicoterapeuta? Analista? So che ognuno è molto attento a distinguersi, a meglio definirsi attraverso il nome. Quando nel biglietto da visita si fa scrivere “psicologo psicoterapeuta” si percepisce il senso accrescitivo rispetto al semplice “psicologo”. D’altronde è lo Stato che ne fa due figure differenti.

Eppure non sarebbe forse sbagliato avere una sola parola, un solo nome, che definisca tutti coloro che, avendo fatto un percorso formativo psicologico, lavorano per il benessere delle persone e delle comunità. Giusto per fare un paragone con i vicini di casa. Quando diciamo “devo farmi vedere da un medico” non abbiamo bisogno di specificazioni. Successivamente potremo specificare in cosa consiste il sapere specifico del medico che ci occorre. Se vi presento il mio amico, l’ingegnere Taldeitali, non ho bisogno di specificare se è elettronico, civile o idraulico. Intanto è ingegnere.

Forse, questa assenza di un nome che ci accomuni potrebbe essere proprio la spia di un’identità giovane al punto da essere “fragile”. Che nome si potrebbe scegliere?

LO PSICOLOGO SENZA DISSENSO

Due episodi recenti, strettamente collegati, mi hanno fatto sorgere il dubbio che i social stiano sfuggendo di mano agli psicologi. Protagoniste sono due psicoterapeute. Ve li racconto.

Il tutto nasce da un articolo dal titolo: “La Spagna introduce legge sul consenso esplicito: se l’altro non dice “si” è stupro”. La prima psicoterapeuta posta sulla propria bacheca Facebook (n.b. aperta ai commenti) l’articolo ed io, perplesso, commento con un semplice “bah”. Mi arriva via messaggio la richiesta della collega di rimuovere il mio commento. L’ho invitata a farlo lei, cosa regolarmente avvenuta. La seconda psicoterapeuta, invece, a commento delle probabili reazioni che qualcuno deve aver manifestato alla notizia, così commenta; “Mi spiace, dolci e amati maschioni, che la legge spagnola sullo stupro non vi garbi. Sapete, secoli e secoli di abusi, stupri, discriminazioni e violenze ci hanno costrette a tralasciare quelle sfumature di romanticismo che tanto rimpiangete e a cui siete notoriamente interessati. D’altronde sono sicura che, come riuscite a tenere il pisello alzato in situazioni francamente improponibili a livello di eccitazione sessuale, ce la farete anche questa volta. Forza guerrieri, vi sono vicina [NdR. aggiunge un emoticon-cuore] “.

Pur intuendo la delicatezza dell’argomento e comprendendo la reattività che l’argomento può innescare, ribadendo che reputo stupidi gli uomini che aggrediscono le donne, mi ha lasciato molto perplesso il comportamento di queste due colleghe. La prima considerazione è che stare sui social, anche e titolo personale, non fa smettere di essere uno psicologo. A maggior ragione se si usano abitualmente i social per il proprio marketing on line, attraverso siti, pagine Facebook o account su Twitter o Instagram. Ritengo (sarò all’antica) che uno dei primi compiti etici di uno psicologo sia l’inclusione. Uno psicologo che non tollera il dissenso, soprattutto se manifestato in termini civili e educati, come nel primo caso, è probabile che non appaia come qualcuno in grado di comprendere. Poi, come nel secondo caso, la militanza di genere, quella del “noi nel giusto, voi nel male”, crea antagonismi che mirano deliberatamente a escludere, a dividere, perdendo di vista qualsiasi sfumatura o differenza nel comportamento. Inoltre, il linguaggio intriso di sfida e di scherno (con tanto di emoticon-cuore finale), mette di fronte i lettori alla consapevolezza che non può esistere dialogo (quindi collaborazione) con chi si pone in questo modo, aumentando conseguentemente la distanza con chi non aderisce fidelisticamente a quella posizione.

Questi sono solo due episodi tra i tanti che mi inducono a pensare che in molti non abbiano ancora compreso la valenza della comunicazione attraverso i social. Quando capita a dei “colleghi”, rimane un po’ di amaro in bocca perché è facile, poi, essere valutati dal pubblico come una categoria professionale non affidabile.

Naturalmente, posso sbagliare in queste mie valutazioni.

SCENARI PER PSICOLOGI FATTI FUORI DALLA TECNOLOGIA COGNITIVA

In un recente articolo di Giuseppe Riva (docente di Psicologia della Comunicazione all’Università Cattolica di Milano) apparso su Psicologia Contemporanea n. 267, si prospettano le future evoluzioni della tecnologia applicata alla psicologia. Il quadro che ne esce è inquietante. Se, come afferma Riva, “la prima sfida dello psicologo del futuro è quella di comprendere i cambiamento in atto, per valutare e sostenere gli individui all’interno di nuovi contesti“, viene da domandarsi quanti psicologi riusciranno effettivamente a farsi pagare. Come la tecnologia informatica sta spazzando via molti lavori  – il primo che viene in mente è l’edicolante –  è molto probabile che anche gli psicologi faranno la fine dei giornalisti, sempre più spesso sostituiti dai robot.

Gli esempi fatti da Riva sono illuminanti. La IBM ha messo a punto Watson che è un primo tentativo di creare un’intelligenza artificiale in grado di rispondere a domande non strutturate, datato 2005. Da questo progetto è stato, poi, sviluppato Personality Insight che sarebbe in grado di stilare un profilo della personalità a partire da testi scritti con sole cinquecento parole. Il problema per gli psicologi è che questo test costa dieci centesimi rispetto ai cinquanta euro che vengono chiesto per la somministrazione di un Big Five. Non è tutto.

I “Servizi cognitivi di Microsoft“, senza necessitare di alcuna competenza psicologica, sono capaci di analizzare in tempo reale testi, immagini, video ed espressioni facciali. Ancora, Woebot è un app che simula le capacità di conversazione di una persona e, destinato a monitorare gli stati emotivi, è stato efficacemente testato sulla capacità di ridurre i livelli di ansia e di depressione. Ultimo esempio di tecnologia cognitiva già pronta è SimSensei che ha realizzato un vero e proprio psicoterapeuta virtuale, capace addirittura di analizzare la comunicazione non-verbale ed è già impiegato nei colloqui preliminari con i veterani di guerra esposti al rischio di stress post-traumatico.

È facile intuire che i margini di lavoro per le schiere di aspiranti psicologi generati dalle Facoltà di Psicologia si riducono notevolmente. Cosa potranno fare per vivere senza cercarsi un altro mestiere? Forse fare un altro mestiere, ma da psicologi. La conoscenza delle dinamiche del comportamento pone le condizioni per ottime performance nel caso in cui si uniscano ad un altro sapere. Nel mio piccolo ho unito le mie conoscenze psicologiche al mondo degli audiovisivi, come anche a quello dell’informazione. È possibile fare il regista, il videomaker, l’autore o il giornalista rimanendo psicologi. La costruzione della nostra identità come psicologi forse deve adeguarsi ai tempi. Questa evoluzione professionale, probabilmente, potrebbe essere una delle soluzioni alla sfida dei robot-psicologi.