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IL MARKETING BOOMERANG DEI GIORNALI

Vi sarà capitato, se ricevete i post delle testate giornalistiche on line sui social, di trovare la notizia che vi stuzzica la curiosità o l’interesse. Cliccate sopra e si apre la pagina on line dell’articolo che però, dopo poche righe si interrompe. Lo segue un avviso che quell’articolo è un contenuto a pagamento e, se vuoi continuare a leggerlo, devi abbonarti (addirittura abbonarti, neanche pagare il singolo articolo!).

Una strategia di marketing, dunque. Prima ti faccio venire l’acquolina e poi te lo nego, dicendoti che devi pagare per averlo. Alla base c’è la supposizione che il lettore, avendo capito che è interessato a quel contenuto, sia disposto a pagare un abbonamento per poter leggere quello e altri articoli. Si, potrebbe essere un buon ragionamento. C’è un “però”.

Però il lettore potrebbe anche viverla diversamente. In questi post con queste notizie civetta non c’è mai scritto “articolo a pagamento“, così la delusione nel lettore diventa frustrazione e indispettimento nei confronti di chi lo aveva illuso. A maggior ragione perché le testate hanno l’abitudine di offrire anche articoli gratuitamente, per cui è probabile che anche quell’articolo potesse essere gratuito. Non solo. Quando si fa ripetutamente l’esperienza di questa delusione, ci si sente presi in giro e, quindi, l’effetto su di noi potrebbe essere quello di perdita della fiducia nella testata, perché “se mi hanno mentito su questo, potrebbero mentirmi su altro“.

Ecco che una strategia di marketing editoriale attraverso i social potrebbe diventare un boomerang. Volete la prova? Chiedetevi, visto che questa tecnica viene ormai usata da alcuni anni, come mai non sia diventata la principale fonte di sostentamento delle testate nelle versioni on line. Andate a cercare i numeri e scoprirete che è così. Improvvisazione ingenua o sciatteria? O forse entrambe?

UN VIRUS ANTICO NELL’INFORMAZIONE

Come l’influenza stagionale, c’è un virus endemico che sta imperversando nei media informativi italiani. Il nome esatto è “cerca la paura” ed alberga  – come fosse la malaria –  nelle redazioni italiane. Perché si sa che la paura fa audience e, tanto i giornali quanto i notiziari radiofonici, campano di audience. Ma soprattutto la tv e i social hanno tutto l’interesse ad alimentare “il traffico” per tenere sempre attaccati ai loro televisori o ai loro smartphone le persone. Ogni volta si cerca un pretesto: un giorno è l’attacco terroristico in Gran Bretagna, poi ci sono i femminicidi, poi c’è l’immondizia e l’emergenza sanitaria.

Proprio a proposito di emergenza sanitaria, ecco che è scoppiata l’ultima paura in virtù del “pericolosissimo” coronavirus che si è manifestato in Cina: prontamente, i media informativi hanno montato la panna della paura. Catastrofi evocate, pestilenze paventate, untori che si aggiravano colpevolmente, precauzioni distribuite random, interviste a politici, medici, funzionari delle istituzioni. È stato generato un riverbero informativo accecante che cercava deliberatamente la paura del pubblico. D’altra parte è noto, come afferma anche il giornalista (critico) Luca Sofri, che “il titolismo è ormai una categoria a sé del giornalismo contemporaneo. Lo è sempre stato, ma negli anni il distacco e l’autonomia dell’informazione trasmessa attraverso i titoli rispetto a quella propria degli articoli sono cresciuti straordinariamente soprattutto per due ragioni: la prima è l’aumento del sensazionalismo allarmistico (…) l’altra ragione è che effettivamente la quota di attenzione e tempo dedicata agli articoli da parte dei lettori è diminuita e una grandissima parte dei lettori usuali o passeggeri legge soltanto i titoli” [Luca Sofri; “Notizie che non lo erano”; 2015].

Il problema insorge quando questa pressione mediatica indiscriminata produce degli effetti sulle persone “instabili” nella nostra società. Ecco che c’è chi insulta dei turisti cinesi rei semplicemente di essere cinesi; oppure c’è addirittura chi vieta ai cinesi di entrare nel proprio esercizio commerciale. Come anche l’uso di mascherine che diviene un “must della paura”.

L’ironia è che, poi, sono gli stessi media che hanno pompata la paura a stigmatizzare i comportamenti eccessivi parlando impropriamente di “psicosi” e scaricando tutto sulla gente. Come anche ipocrita è il debole tentativo di rassicurare che “è tutto sotto controllo”, oppure (come si sta scoprendo) che ogni anno la normale influenza stagionale fa più vittime. Ormai i buoi sono scappati dalla stalla.

La responsabilità di un certo giornalismo è molto alta sul clima di paura che si genera in una società. Usare la paura della gente per chiedere attenzione ha pesanti effetti collaterali perché le persone, in queste situazioni, smettono di essere fiduciose, empatiche, critiche e si chiudono, generando comportamenti antisociali, egoistici, irrazionali. Il tutto per qualche click e qualche televisore acceso in più. Una bella responsabilità che, purtroppo, pochi professionisti dell’informazione riconoscono.

ANSIA DA PRESTAZIONE GIORNALISTICA

In presenza di un accadimento, di una notizia o presunta tale, accade molto spesso di assistere ad un tumultuoso rincorrersi dei media informativi nel tentativo di essere davanti, essere i primi a dare l’ultimo aggiornamento. È sufficiente che una testata dia una presunta “notizia clamorosa” che tutti gli altri cominciano a rilanciare la stessa notizia. Questa sorta di conformismo giornalistico si traduce in quella che essi stessi chiamano la paura di bucare la notizia. Quindi si genera quel fenomeno in cui più i media trattano un tema, più si persuadono (collettivamente) che quel tema sia “indispensabile”, crogiolandosi in modo esagitato in un eccesso centrifugo di informazione: nei fatti, un riverbero informativo da ansia da prestazione.

Un effetto collaterale di questa prassi ansiosa è che molto spesso (grandi e piccole testate) rilanciano la “notizia” nel più breve tempo possibile, senza procedere ad una rigorosa verifica (in gergo detto fact checking). Gli errori e le inesattezze che vengono diffuse non sono poi rettificate, confidando nell’oblìo del pubblico e sentendosi coperti dell’effetto distraente del continuo flusso di informazioni. Ciò è vero soprattutto, ormai, ad opera dei social media che gli utenti si vedono piovere sui propri schermi, tanto in forma di post sponsorizzati, quanto in forma di articoli condivisi (di cui si legge solo il titolo). Nei rarissimi casi in cui si assiste ad una rettifica, queste hanno una visibilità irrisoria rispetto al clamore dato precedentemente alla notizia falsa di partenza. Si sa che la smentita non ha dignità di notizia.

Ma esistono anche altri vantaggi derivanti da questo modo di “fare informazione” perché ingigantire un evento e riproporlo attraverso continue minime varianti porta alla narrazione: non siamo più di fronte ad un semplice elemento di informazione ma davanti ad una narrazione in piena regola. Narrare  – si sa –  induce alla fidelizzazione, ovvero si rimane ad attendere gli “sviluppi della storia” come si fosse alla visione di una vera e propria soap opera.

Un altro effetto di questo martellamento informativo ad alzo zero fu dimostrato da una ricerca che appurò che se non si dispone del tempo necessario per valutare le informazioni, il nostro cervello tende a considerare vere quelle che vengono diffuse in modo rapido e con un flusso continuo, ovvero le valutiamo secondo le dinamiche del pensiero euristico che è quel tipo di ragionamento che si basa su scarsi elementi e che ci restituisce una valutazione intuitiva. La penetrazione pervasiva delle notizie, grazie alla capacità capillare di contatto che ci viene dalla rete (soprattutto in quel terminale privato che è lo smartphone), può far percepire come vero ciò che non lo è. È la diffusione stessa a creare l’evento secondo la regola che un fatto esiste perché ne parlano (il fenomeno dell’Agenda Setting si basa su questa percezione). Quando uno pseudoevento, un’opinione, un pregiudizio, un pettegolezzo, una diffamazione, ha assunto un valore di verità per tanti, diventa difficilissimo smontarlo.

Con questa forma è possibile identificare anche un altro effetto, caratteristico di radio e tv, che potremmo definire effetto Mentana: il parlare veloce e senza pause in tv genera facilmente una sensazione di credibilità (“parla così perché sa quello che dice“) ben al di là dei reali contenuti.

Insomma, una vera e propria ansia da prestazione giornalistica è alla basa dei fenomeni descritti che, però, hanno pesanti ricadute nella vita della nostra società. Questi (ed altri) meccanismi consentono di infiltrare la paura nelle menti delle persone. E sappiamo a cosa porta la paura in un regime democratico.

MATTARELLA INCAPPA NELLA DISINFORMAZIONE DI GENERE-CALCIO

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha ricevuto al Quirinale la nazionale femminile di calcio e, nel discorso che ha pronunciato, è incappato in uno sfondone da eccesso di politically correct. Mattarella, ad un certo punto, ha detto: “Avete conquistato l’opinione pubblica e acceso i riflettori sul calcio femminile: non si torna indietro. È irrazionale e inaccettabile una diversa condizione tra calcio maschile e femminile“. Sarà stato l’eccesso di entusiasmo per la bella prova agonistica delle ragazze, saranno state le parole “nazionale italiana”, ma il Presidente ha detto una cosa sbagliata. Il calcio, ormai, è uno spettacolo professionistico e, come in tutti gli spettacoli, gli ingaggi dipendono dalla quantità di pubblico che riescono a muovere e, quindi, da quanti soldi riescono ad attirare. Un giocatore (maschio) di Lega Pro  – considerati semiprofessionisti –  guadagnano in media 2.500 euro al mese; in Italia ci sono 1.100.000 tesserati alla Federazione Italiana Gioco Calcio e le donne sono poco più di 23mila. Solo questi numeri dovrebbero far capire che un qualsiasi imprenditore troverebbe assurdo pagare alle donne gli stessi ingaggi degli uomini. È una banale questione di economia, se non di aritmetica. Discorso diverso sarebbe il chiedere, più semplicemente, di essere professionisti.

Complice la debâcle della nazionale di calcio maschile dello scorso anno e quella Under 21; complice l’acquisto dei diritti di trasmissione da parte della Rai che, quindi, aveva bisogno di rientrare dell’investimento; complice il battage mediatico che ha “spinto” l’evento innescando la curiosità del pubblico, i mondiali di calcio femminile hanno avuto un’audience eccezionale. Da qui a dire, però, che “è inaccettabile” che le donne non abbiano pari condizioni con gli uomini (soprattutto economiche) sembra un eccesso di galanteria istituzionale. O forse  – viene il sospetto –  anche il Presidente della Repubblica ha perso lucidità quando affronta le valutazioni sulla parità di genere. Un vero peccato e un ennesimo caso di disinformazione.

SE ARRIVANO I ROBOT, CHE FARANNO I GIORNALISTI?

Ciclicamente appaiono notizie sui media di imminenti e necessarie riforme dell’Ordine dei Giornalisti. Come anche periodicamente c’è un politico che si lascia andare dichiarando pubblicamente all’estinzione dell’Ordine stesso. Si sprecano i dibattiti e i festival sulla crisi del giornalismo, sulla vita assurda dei precari, sulle fake news che chissà da dove sbucano, sulle nuove frontiere dell’informazione su smartphone. In tutto questo chiacchiericcio manca, generalmente, la voce di chi è destinatario teorico dell’Informazione, cioè noi. Spesso, nei dibattiti, viene sottolineato dagli addetti ai lavori “quanto siamo importanti noi che vi cuciniamo le notizie”. Ma sta arrivando un tifone e chi ha le orecchie aperte sente già il vento fischiare tra i rami.

Già nel 2016, alle Olimpiadi di Rio de Janeiro, alcuni importanti giornali si sono avvalsi dell’opera dei roBOT per produrre notizie e la cosa non fece particolare scalpore. Il fenomeno, infatti, sta diventando progressivamente sempre più importante, come testimoniano le riflessioni che si stanno avviando. Da poco è stato addirittura presentato un anchormen virtuale “made in China”. Il fenomeno appare, quindi, pieno di possibili sviluppi e, visto con gli occhi dello psicologo, induce alcune riflessioni.

Da alcuni decenni l’informazione si è disposta lungo due poli: da un lato l’informazione-potere e dall’altro l’informazione-merce. Entrambi questi tipi di informazione potranno essere espletate dai robot-journalist che costano meno, non si ammalano, non si organizzano in sindacati, non richiedono contropartite per i favori fatti, non fanno inchieste scomode (se non programmati) non hanno problemi di etica e così via. È troppo troppo conveniente l’uso dei BOT per gestire l’informazione, quindi i giornalisti-umani dovranno farsene una ragione: il lavoro per i giornalisti diminuirà drasticamente, anche se progressivamente. Perché il pensiero capitalista lo impone e il bisogno asfissiante del profitto non guarda in faccia a nessuno: basta riflettere sulla selvaggia opera di precarizzazione che è stata fatta in tutto il mondo. Non basta ripetersi come un mantra che le persone (giornalisti) sono indispensabili.

Cosa potrebbe cambiare per noi utenti dell’informazione? Dipende. “NOI” è un termine vago. Chi  – e sono la maggioranza –  non si cura di ciò che gli accade appena oltre la propria sfera vitale, non cambierà nulla: continuerà a ricevere le informazioni che ha sempre avuto e continuerà ad essere “accompagnato” verso la sua opinione del mondo. Gli “altri”, quelli che conservano ancora un minimo pensiero critico saranno costretti a diventare attivi nella ricerca e, forse, nella costruzione dell’informazione. Ma dato che cercare informazioni e produrre notizie (vere e utili) è un’attività che richiede tempo, avremo bisogno di persone che lo facciano per noi. La costruzione della cornice di senso della notizia oppure l’inchiesta sul campo (non il data-journalism) hanno bisogno della visione degli umani. Anzi, di persone che siano profondamente a conoscenza dei comportamenti umani, che si voglia chiamarli giornalisti, blogger, cittadini attivi o altro. Persone che sappiano, soprattutto, comprendere gli aspetti umani delle notizie, perché un fatto è sempre frutto di un comportamento. Vi viene in mente qualcuno che fa già queste cose di mestiere?

LE NOTIZIE AL BAR DIGITALE

È stata approvata in un primo passaggio la famigerata normativa europea sul copyright: questa notizia , analizzata anche dal sito valigiablu.it, non potrei linkarvela perché vìola questa norma. Ci vorranno degli altri passaggi da affrontare in sede di Unione Europea e poi i singoli Stati dovranno ratificarla. Molte polemiche sta suscitando e anche qui proviamo ad aggiungere un altro punto di vista.

Le informazioni e le notizie, da sempre, sono il terreno su cui si cimentano governi, dittature, agenzie di sicurezza, spin doctor, ma soprattutto giornali, radio, televisioni. Negli ultimi dieci anni è cresciuto molto il mondo dell’informazione nel web. Gli ipertesti, che permettono di inserire in una pagina foto, video e link, hanno reso capillare la possibilità di informare le popolazioni. Ma anche sono il terreno su cui si cimentano imprenditori, gruppi di potere con aziende editoriali, network televisivi che vogliono fare guadagni. L’Informazione è diventata merce e strumento di pressione della propaganda.

Noi cittadini stiamo in mezzo, usati e spremuti, perché da un lato c’è chi vuole usare le informazioni per farci acquisire una certa idea della realtà, dall’altro c’è chi ci chiede in cambio quanti più soldi possibile per queste informazioni. Entrambe delle intenzioni lecite, ma… C’è un “ma”. In tantissimi, da tutti i pulpiti, ci ripetono in continuazione che le democrazie hanno bisogno di una buona informazione perché possano rimanere efficienti e valide. Quindi molti prendono per buono l’adagio secondo cui “l’informazione è un diritto”. Con questa ultima normativa europea, l’Informazione diventa a tutti gli effetti una merce. Se si volesse applicare alla lettera questa normativa l’Europa vivrebbe un impoverimento della consapevolezza dei cittadini dell’Unione.

Ora a me è venuta in mente una similitudine. Si sa che nei bar i gestori, come servizio alla clientela, comprano dei quotidiani perché i clienti li possano leggere (e consumare qualcosa). Quei giornali consentono a molte persone di informarsi ed aumentare la propria consapevolezza. Provate ad immaginare se giornalisti e giornalai facessero approvare una legge che vieta ai bar di lasciare a disposizione i quotidiani. Venderebbero più copie? I clienti del bar correrebbero alla prima edicola a comprare il giornale per poterlo leggere al tavolino del caffè, magari evitando di far sbirciare il vicino per non beccarsi una multa? Quasi sicuramente no. Avremmo più gente informata? Sicuramente no.

Forse i nostri politici dovrebbero, al contrario, ideare nuove forme di sostegno all’informazione perché i cittadini siano sempre sufficientemente informati e non chiudere i rubinetti con la scusa del copyright. O forse vogliono proprio questo?

IL VIDEOGIOCO DEI TITOLI DI GIORNALE

Senza andare troppo indietro nel tempo, sempre dagli Stati Uniti. 2 novembre 2017, sparatoria in un supermercato a Denver: tre morti. 18 febbraio 2018, sparatoria in una scuola in Florida: 17 morti e 14 feriti. 20 marzo 2018, sparatoria in una scuola in Maryland: 1 morto e due feriti. 3 luglio 2018, sparatoria in una scuola elementare a Kansas City: 2 feriti. 26 agosto 2018, sparatoria in un centro commerciale: 4 morti e 11 feriti. In questo caso l’articolo cita espressamente cosa stava accadendo durante la sparatoria, ovvero un torneo di videogiochi. Bingo!

Esiste una tendenza scorretta da parte di buona parte del giornalismo italiano a proporre al pubblico  – implicitamente o esplicitamente –  la presunta relazione tra videogiochi e violenza, secondo lo stereotipo più consolidato, come evidenzia il titolo dell’Huffington Post che, se fosse stato scritto correttamente, sarebbe diventato: “Sparatoria in Florida in un centro commerciale”.

Appare evidente che la causa di queste sparatorie è innegabilmente la facilità di reperimento delle armi, non la frustrazione: il mondo è pieno di gente che viene frustrata dai fallimenti e non ci risulta questa ondata di omicidi. Parimenti, se fosse la frustrazione per partite e tornei di videogiochi a generare la violenza omicida, avremmo milioni di omicidi ogni giorno. Infine, viste le notizie proposte, potremmo pensare anche che, dato che molte sparatorie avvengono nelle scuole e nei centri commerciali, siano proprio questi ad essere la causa scatenante dei comportamenti omicidi. Ma siamo seri!

Il problema (negli Stati Uniti) è la presenza delle armi e una cultura da Far West che giustifica e incoraggia il possesso e l’uso delle armi. In Italia, invece, il problema è la scarsa qualità di certo giornalismo che insegue la paura del pubblico, che soffia sul fuoco consolidando gli stereotipi che finge di condannare.

Ma il problema sono i videogiochi.

L’INFORMAZIONE CHE VERRÁ

Si moltiplicano gli articoli che lanciano l’allarme sulle sempre più frequenti manovre per mettere il bavaglio alla rete, dalla sua accessibilità ai contenuti stessi. È comprensibile che la libera circolazione di informazioni sul web preoccupi molto chi ha necessità di “gestire” il consenso o chi vuole semplicemente governare senza dover dare conto all’Opinione Pubblica. Negli Stati Uniti il Presidente Trump ha dato il via libera alla rete a due velocità  e ciò non stupisce perché si sa che – da sempre – chi ha più risorse può arrivare più facilmente alle informazioni, soprattutto nella logica della notizia-merce.

Ma i tentativi di normalizzazione del web vengono anche fatti indirettamente, come potrebbero suggerire i decreti legge che vengono approvati  – ufficialmente deputati alla tutela della privacy –  che mettono in allarme addirittura istituzioni come Wikipedia . Oppure si tenta di delegittimare l’intero mondo dell’informazione lanciando allarmi sulla pervasività della fake news, al punto che addirittura la Polizia di Stato ha ritenuto opportuno aprire un form con la possibilità di denuncia on line . Per chiudere con gli esempi possiamo, infine, segnalare l’ultima notizia in ordine di tempo che ci mostra che l’informazione sta diventando una maionese impazzita: la società Facebook ha deciso che saranno gli utenti stessi a decretare l’affidabilità di una notizia . Questo clima di incertezza sulla veridicità delle notizie che ci giungono dai media sta generando anche degli specifici lavori come il fact checker, il verificatore di fatti. Da tutto questo quali considerazioni si posso trarre?

Il web si è caratterizzato, in questa tumultuosa fase iniziale, nella sostanziale mancanza di regole. Essendo una situazione mai sperimentata prima, la libertà di espressione che il mezzo ha donato a tutti (mettendo tutti più o meno allo stesso livello) ha suscitato stati di ebbrezza espressiva. Inevitabile che tutto il mondo del web cominciasse ad essere plasmato, limato, limitato. Inevitabile anche che questa situazione potesse essere sfruttata da schiere di malintenzionati, siano essi dei professionisti della propaganda, analfabeti funzionali o disinformati in buonafede. Una tendenza che potrà accentuarsi ancora di più in futuro, riducendo gli sconfinati spazi di libertà e la libera circolazione delle idee.

Cosa fare di fronte a questa prospettiva? Una prima ipotesi ha come requisito il mantenimento della comunicazione digitale ad un livello dignitoso, senza eccessivi interventi sulla rete stessa in termini di connettività (come invece fanno paesi come l’Iran, la Turchia o la Cina). L’informazione mainstream difficilmente potrà tornare ad avere l’influenza sull’opinione pubblica che ha avuto nel corso del Novecento. È probabile un ritorno della newsletter come strumento di diffusione di informazioni pregiate, lasciando alle junknews siti web pagine social. La seconda ipotesi è che lo strumento digitale diventerà assolutamente inaffidabile, soprattutto per la facilità di tracciamento che renderanno facile una qualsiasi cancellazione-repressione delle informazioni scomode. Non rimarrà, a questo punto, che un ritorno alla carta. Sempre che, quando ci troveremo in questa condizione, ci sarà carta disponibile.

Fantascienza dell’informazione, forse. Una visione pessimistica, forse. Forse.

LE NOTIZIE INVECCHIANO?

Qualche giorno fa mi è apparso sulla bacheca di Facebook il post di Alberto Puliafito, direttore di blogo.it, che affrontava il problema delle notizie che invecchiano. Lui scrive: “Come si fa a capire se un pezzo è inutile? Be’, proviamo a rispondere a queste tre domande: può sopravvivere nel tempo? E per quanto tempo? Serve a qualcuno veramente e per più di pochi minuti? Ad esempio: che senso ha scrivere un articolo che parli delle “probabili formazioni” di due squadre di calcio che stanno per affrontarsi per poi abbandonarlo e scriverne uno sulle “formazioni ufficiali”? E ancora, che senso ha scrivere 300 o 600 articoli su un caso di cronaca nera? E come si può risolvere la questione?“. Così sollecitati, alcuni hanno postato le loro considerazioni. Tutti concordi che è brutto lanciare 300 articoli di aggiornamento e che sarebbe più organico aggiornare e arricchire il primo articolo (come si fa all’estero): però, poi, tutti ammettono che questa prassi è frutto della dipendenza delle testate online dal clickbaiting, ovvero dalla necessità di fare il maggior numero di click per poter incassare il più possibile dagli inserzionisti pubblicitari.

Ma torniamo alla domanda del titolo: le notizie invecchiano? Ragioniamoci.

La notizia riporta un fatto, un evento. Questo evento diventa “passato” un attimo dopo che si è concluso. Un incidente ferroviario si conclude al momento dell’arresto del treno. Gli succede un altro evento, ovvero i soccorsi. Poi, finito quest’ultimo (o mentre è ancora in corso) ne nasce un altro che possiamo chiamare “la ricerca del colpevole”. Due eventi che hanno una scansione temporale differente: mentre la fase dei soccorsi ha una durata breve (alcune ore), la ricerca delle responsabilità offre un percorso che può dispiegarsi per giorni, mesi o anni. Nasce un ulteriore filone di notizie legate al disastro ferroviario che possiamo definire “come evitare che accada ancora”. Maggiori sono le implicazioni dell’evento, più numerose saranno le storie da poter raccontare perché  – qui è il vulnus del problema sollevato da Puliafito –  il giornalismo è pervaso dalla pratica dello storytelling. Se i giornali, cartacei o digitali, volessero proporre solo le notizie, morirebbero, dal momento che il sistema di finanziamento ( e di sopravvivenza) dipende da comportamenti che si realizzano attraverso like, condivisioni, click. Inevitabile che diventi indispensabile “allungare il brodo”, per cui le notizie diventano storie e le storie che diventano più avvincenti si tramutano in danaro.

Ecco svelato il perché le notizie non invecchiano: invecchiano le storie.

LA COMPRENSIONE DELLE INFORMAZIONI NELL’ERA DEL WEB

Qualche giorno fa mi è arrivato da un amico un link ad un articolo con la richiesta di esprimere la mia opinione. Lui sa che mi occupo di psicologia dell’informazione e del giornalismo e il link è un’intrigante provocazione. Naturalmente cedo e vado leggere. È un’argomentazione articolata e volentieri rispondo alla provocazione dell’amico facendo qualche considerazione che condivido con voi.

L’articolo in questione si intitola “Perché abbiamo sconfitto l’Ignoranza grazie ad Internet ma rischiamo di morire di Ignoranza grazie ad Internet“. Un tema, quindi, molto attuale e implicitamente pessimista. Per questa ragione procederò ad una sua analisi per concludere con qualche riflessione su tutta la questione.

La tesi dell’autore dell’articolo è che la moltiplicazione delle informazioni indotta dallo sviluppo di Internet ha reso sempre più difficile per le persone essere e comprendere realmente le informazioni a causa dell’eccesso di offerta rispetto al tempo a disposizione. Una regressione che appare paradossale.

Una prima precisazione è necessaria sul termine “ignoranza” e, conseguentemente, su chi è ignorante. Etimologicamente, ignorare significa non sapere. Nella sua estensione psicologica, potremmo dire che ignorare equivale anche a “non essere consapevoli”. In una cornice sociologica, l’ignoranza può essere quella condizione in cui i gruppi umani vivono i vincoli di una cultura limitata che determina, come conseguenza, una carenza negli schemi valutativi della realtà e nelle possibilità di adeguati comportamenti di risposta.

Ecco che l’affermazione dell’autore secondo cui “siamo più ignoranti pur non essendo più ignoranti” è inesatta. L’assioma più corretto sarebbe: “abbiamo più fonti di informazione e tale abbondanza può diventare anche una difficoltà, non solo una risorsa“. Di pende dalle condizioni di offerta delle informazioni, oltre che dalle condizioni della persona ricevente, tanto cognitive quanto sociali.

Un altro problema che si manifesta nell’articolo è la confusione semantica intorno al termine “informazione”. Esistono due accezioni che  – purtroppo –  vengono scambiate con leggerezza. La prima è quella dell’informazione nella sua forma elementare (dov’è la farmacia più vicina o che orario di apertura ha l’officina di fiducia). La seconda è quella dell’Informazione come prodotto del giornalismo (l’ultima legge sulle tasse comunali o l’efferato fatto di cronaca nera). I due mondi semantici sono solo parzialmente sovrapponibili. Confonderli è facile ma fuorviante. Questa differenza funzionale tra i due tipi di informazione determina la differenza tra due comportamenti, ovvero tra “ottenere” informazioni e “usare” le informazioni: il primo può essere passivo, il secondo è inevitabilmente attivo, quindi elaborativo. Teorizzare un’ignoranza informativa e un’ignoranza elaborativa implica, nel secondo caso, una mancanza di conoscenza/consapevolezza dei modi per comprendere le implicazioni dell’informazione. Dato che l’autore del saggio cita, ad esempio dell’ignoranza elaborativa, il caso delle notizie-bufala, useremo il termina “informazione” nella sua accezione giornalistica.

Far discendere la nascita di un’ignoranza elaborativa dalla correlazione tra l’eccesso di offerta e la riduzione del tempo a disposizione per discernerle, appare azzardato. Non abbiamo dati sull’assenza di questa condizione in tempi passati e possiamo dedurre solo un’accentuazione dovuta alla progressione mediatica dell’offerta informativa che è cominciata nel secolo scorso. Nel corso dello sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa nel Novecento, le persone hanno avuto modo di cimentarsi progressivamente con le dilatazioni della propria “infosfera”. Prima con i giornali, poi con radio e televisione, per finire col web, le fonti di informazione (in entrambe le accezioni) si sono moltiplicate e la nostra mente ha dovuto fronteggiare ma nuova condizione. Due sono state le strategie adottate: la prima cognitiva e la seconda culturale. Quella cognitiva consiste nelle scorciatoie ( e nelle debolezze) del pensiero euristico. Quella culturale è insita nella delega sociale ai giornalisti che genera il senso di affidabilità delle interpretazioni delle informazioni offerte da questi.

Successivamente, nell’articolo viene stigmatizzato il fenomeno secondo cui le persone considerano l’opinione dei “pari” equivalente a quella degli “esperti”. Immagino che con questo ultimo termine si intenda tanto quella di persone competenti i campi specifici (il geologo o l’avvocato), quanto quella dei professionisti della comunicazione (soprattutto giornalisti). Come è noto a chi studia gli effetti della comunicazione di massa, quando diminuisce la percezione di affidabilità negli organi di informazione, aumenta il ricorso (e l’autorevolezza) dell’opinione dei pari. Ciò vale per la creazione/diffusione delle informazioni, ma vale anche per l’interpretazione delle stesse. Come notava Annamaria Testa, “L’informazione sul mondo appare scompaginata, anche perché oggi pochi dei mass media che trasmettono informazione si preoccupano di impaginare le notizie (…) e parlando di impaginare intendo proprio il lavoro materiale del selezionare e del disporre ordinatamente (…) insomma, dell’attribuire a ciascun testo un rilievo, una posizione e un contesto“. Sostanzialmente, il declino dell’affidabilità è frutto anche della loro elusione della costruzione della cornice interpretative delle informazioni e delle notizie.

Per concludere, il concetto di “ignoranza elaborativa” segnala un fenomeno reale ma viene male espresso. L’esplosione dell’offerta informativa e l’erosione della percezione dell’affidabilità sono i due fenomeni che pongono il cittadino di fronte alla necessità di discernere autonomamente tra le informazioni offerte dal web, oltre che da quelle che continuano a fluire dagli “old media”. Il fenomeno della credulità alle bufale, che dovrebbe essere la prova provata di questo “stress da eccesso di offerta”, evidenzia l’amplificazione fatta dall’informazione digitale di una dinamica che esiste da sempre. La reazione auspicabile dei cittadini di fronte a questa situazione è quella della ricostruzione di una rete di “fonti affidabili” che, ovviamente, non può più essere costituita dai soli giornalisti.

L’INGANNO DEI NUMERI

Una delle prassi più usate nel giornalismo italiano è quella di far parlare i numeri. Sparare cifre di ricerche e indagini fa molto chic e, soprattutto, permette di scaricare su entità terze le affermazioni implicite che sempre sono contenute in un articolo. Il pezzo dell’Ansa che porto ad esempio cita un’indagine statistica dell’Eures (European Employment Services) sulla violenza sulle donne. Dunque, tradotto nella abituale sloganistica giornalistica sul femminicidio (cit. uccisione della donna proprio in quanto donna. Fonte: treccani.it) ecco il titolo che viene sparato: “Violenza sulle donne: una vittima ogni due giorni”. Quindi, dal titolo si evincerebbe una triste conferma. Il lettore distratto si ferma lì. Se è donna penserà “quanti uomini bastardi!” e se è un uomo penserà “Ma che deficienti!”.
Lo stereotipo, dunque, è confermato. Chi, invece, continua a leggere l’articolo si accorge di un’anomalìa. Riportiamo un po’ di dati, ma facciamo attenzione. Quando si ricorre ai numeri per descrivere un fenomeno, ogni numero è legato agli altri, per cui chi argomenta sui numeri ha diritto a sbagliare.
Nel 2013 sono state uccise 179 donne e, rispetto alle 157 del 2012, c’è stato un aumento del 14%. Prima conclusione indotta: “gli uomini sono più bastardi dello scorso anno”. Ora arriva la delega di responsabilità. Cito testualmente: “A rilevarlo è l’Eures nel secondo rapporto sul femminicidio in Italia, che elenca le statistiche degli omicidi volontari in cui le vittime sono donne”. Si comprende, senza alcun dubbio, che si sta parlando di omicidi volontari di donne in quanto donne. Proseguiamo.
Gli omicidi di donne in ambito familiare aumentano del 16,2%, passando da 105 a 122. Qui cominciano le dolenti note perché “rientrano nel computo anche le donne uccise dalla criminalità, 28 lo scorso anno: in particolare si tratta di omicidi a seguito di rapina, delle quali sono vittime soprattutto donne anziane”. Alt! Siamo andati fuori definizione. Appare evidente che sono state accorpate al dato generale anche le donne che sono state uccise accidentalmente (es. nella rapina la morte è accidentale, non intenzionale). Inutile proseguire. Chi ha un minimo di nozioni di statistica ha già capito che i dati presentati dall’articolista non sono affidabili.
Non basta. L’articolista riporta virgolettata una dichiarazione contenuta nel rapporto Eures: “consolidando – sottolinea il dossier – un processo di femminilizzazione nella vittimologia dell’omicidio particolarmente accelerato negli ultimi 25 anni, considerando che le donne rappresentavano nel 1990 appena l’11,1% delle vittime totali”. Il dato in sé non è commentabile perché sarebbe significativo se le condizioni delle donne, dal 1990 ad oggi, fossero rimaste immutate. In realtà le donne sono uscite enormemente dalle mura familiari, lavorando e girando per strada molto di più: quindi possiamo ragionevolmente supporre che anche, scippi, incidenti, infortuni possano essere aumentati. Sono dati, quindi, non comparabili. Ma il tono della frase tradisce la tesi di fondo dell’articolo, ben specificata nel titolo.
Questo tipo di giornalismo non aiuta a capire e consolida gli stereotipi, incentivando la crescita di opposti schieramenti che poco aiutano alla comprensione delle vite degli altri.

http://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2014/11/19/femminicidi-ogni-due-giorni-viene-uccisa-una-donna_cc33c7e8-81c2-46fa-b1d6-f577eedfb727.html

Violenza sulle donne- una vittima ogni due giorni - Cronaca - ANSA.it 2014-11-19 15-12-54b

DELLA RESPONSABILITA’ EVITATA

Partiamo dai fatti. Una donna viene uccisa dal convivente. Il colpevole viene preso e processato. La madre della donna si costituisce parte civile per ottenere il risarcimento dei danni. L’uomo viene condannato alla detenzione, ma anche al pagamento del risarcimento. Lo Stato si accorge che l’uomo risulta nullatenente e, dato che la legge prescrive che tutte le parti processuali (tutti coloro che sono coinvolti) “sono solidalmente obbligati al pagamento delle imposte tutte le parti in causa”, alla madre della donna uccisa arriva una cartella esattoriale di 7.500 euro. La conclusione feroce e beffarda di questo processo diventa “cibo per i media”. Le testate on line sparano la notizia e i social media la capillarizzano, gonfiando l’indignazione. Il giorno dopo, le stesse testate pubblicano la notizia che qualcuno all’Agenzia delle Entrare ha annullato l’avviso di pagamento. Questi i nudi fatti. Proviamo a ipotizzare la storia.
Una madre è colpita profondamente dal dolore per l’uccisione della propria figlia e tenta di giungere alla catarsi inseguendo la punizione del colpevole. Per “essere presente” nel rito di punizione entra nel processo. Lo Stato, attraverso le sue istituzioni, riesce a dare la solita risposta dissociata: da un lato punisce il colpevole condannandolo al carcere, dall’altro segue pedissequamente la legge e va a chiedere dei soldi alla madre della vittima. Le persone di questo dramma/rito diventano, nelle procedure dello Stato (quelle fatte in nome della collettività, di tutti noi), semplicemente delle parole. Se la legge dice che tutti devono contribuire alle spese, tutti dovranno farlo, a prescindere dalla giustezza. Per questa ragione il Tribunale ha comunicato l’esito all’Agenzia delle Entrate e questa, attraverso l’impiegato/funzionario di competenza, ha avviato il procedimento. Probabilmente nessuna delle persone che hanno perpetrato questo “delitto morale” hanno minimamente badato a cosa facevano. Nessuno si sarà posto il problema di cosa contribuivano a fare. La madre addolorata è stata de-personificata.
Ed è a questo punto che i media, i giornali, svolgono la loro funzione pubblica. Si impossessano della storia, la pubblicano, la connotano di riprovazione morale e la seguono. Così veniamo a sapere che qualcuno all’Agenzia delle Entrate si è accorto del caso. Magari non ne sapeva nulla e chiama i suoi sottoposti. Ma anche i superiori. Immaginiamo la sostanza di cosa si sono detti: “Gente, abbiamo fatto un’altra figura di merda. Passiamo sempre per gli avvoltoi che si nutrono della sofferenza della povera gente. Bisogna rimediare per recuperare un’immagine di giustezza del nostro operato”. Ecco che l’avviso di pagamento viene annullato. I giornali sono soddisfatti e “la gente” percepisce di essere servita a qualcosa, di aver potuto incidere il corso degli eventi.
Cosa è successo? Il problema nasce proprio da quella dinamica di depersonalizzazione a cui accennavo prima. Quando si lavora con la sofferenza delle persone, che sia un giudice, un chirurgo o uno volontario, la nostra personalità tende a proteggerci dalla possibile empatia che ci porterebbe a soffrire a nostra volta: e se si soffre troppo, non si è più in grado di portare aiuto. Quindi ci si “distanzia” emotivamente da chi soffre. L’estremizzazione di questo processo è proprio la depersonalizzazione. E’ come quando i componenti di un plotone di esecuzione, di fronte all’inflizione della morte che stanno per dare, pensano “sto solo eseguendo gli ordini”. Proprio questo pensiero è quello che ha l’impiegato quando non si assume la responsabilità di ciò che fa. C’è sempre qualcuno di superiore (il capufficio, il direttore generale, la legge) su cui scaricare la responsabilità. Inoltre, dato che chi esegue queste “condanne” è sempre inserito in una gerarchia, si aggiunge il timore di ritorsioni e punizioni se non si eseguono gli ordini. Nessuno, quindi, si prende la responsabilità di fermare un’azione palesemente sbagliata.
E’ così che alla signora Rosa Polce, madre della povera Carmen, arriva la cartella esattoriale.

Per approfondire: Zamperini, A.; “Psicologia sociale della responsabilità”; 1998, Torino; UTET

la notizia dall’Ansa

PSICOLOGIA DEL GIORNALISMO TELEVISIVO

dal sito (chiuso) psicologiadellaudiovisivo.it ripropongo questo articolo del 2008

Abbiamo poche nozioni per poter valutare le scelte a cui siamo chiamati, ma ci rendiamo conto che queste possono più o meno influenzare da vicino la nostra vita. Avvertiamo, quindi, la necessità di decidere bene. Per poter affrontare questa necessità senza avere la sensazione di essere incauti abbiamo bisogno di informazioni su cui basare le nostre decisioni. Se devo acquistare un’automobile, dovrò prevedere quanti chilometri intendo farci, che tipo di motore sarà più adatto; in base alla composizione della mia famiglia dovrò decidere quanto grande dovrà essere; in virtù della mia condizione economica dovrò decidere quanto voglio spendere e se tenerla per tutta la sua durata o cambiarla prima. Tanto meno ci affidiamo al caso, tanto più abbiamo bisogno di informazioni. Tutto può essere fonte di informazioni: un nostro vicino, la nostra esperienza, il concessionario da cui acquistiamo. Possiamo ricorrere anche alle conoscenze di sconosciuti di cui, però, ne riconosciamo l’autorevolezza, perché per decidere al meglio abbiamo bisogno di informazioni esatte. A maggior ragione abbiamo bisogno di informazioni non manipolate: il concessionario tenderà a darci solo le informazioni che possano indurci all’acquisto, mentre un nostro amico che ha la stessa auto può darci anche quelle relative ai difetti che ha riscontrato nel tempo.

Data la vastità degli ambienti in cui reperire le informazioni, siamo consapevoli di non essere in grado di andare materialmente a parlare con tutte le persone che possono avere informazioni utili. Il giornalista è la persona a cui viene delegato questo compito. Ad esso vengono dati strumenti e risorse (lavoro/stipendio e diritti) con il compito di reperire per noi le informazioni: ma, fondamentale, con l’implicito patto di riferircele correttamente, ovvero esatte e non distorte, manipolate o con delle omissioni.
È intuibile che, parimenti al nostro amico che ci indica i difetti dell’auto, il giornalista deve offrirci anche le informazioni che possono indurci a non favorire questo o quel soggetto. Si genera quindi, per il giornalista, il potere di danneggiare. Ad esso vorremmo chiedere l’assoluta imparzialità ma, nel tempo, abbiamo accettato il fatto che esso non può essere asetticamente imparziale perché, a sua volta, ha la sua personalità che dirige le considerazioni che fa delle informazioni di cui viene a conoscenza e determina l’ordine con cui decide di darle. Sul giornalista convergono le pressioni di tutti coloro che non hanno interesse a far conoscere tutta la verità: se in passato, però, le pressioni potevano arrivare dal ristretto ambito dell’area di diffusione del mezzo di informazione, la radio prima, le televisioni e la globalizzazione digitale poi, hanno moltiplicato le strade su cui possono innestarsi le pressioni. Ryszard Kapuściński, grande reporter polacco, ha detto che “il giornalista è sottoposto a molte e diverse pressioni perché scriva ciò che il suo padrone vuole che egli scriva (…) La stampa internazionale è manipolata” [Kapuściński, 2000].

Il giornalismo è stato per decine di anni un fenomeno in cui ha regnato la parola. Tanto la stampa quanto la radio si reggono sull’unico pilastro della informazione orale. Dalla metà del secolo scorso, il cinema prima e, soprattutto, la televisione hanno spostato l’asse su una modalità che ha aggiunto la visione delle notizie. L’effetto sulla società è stato formidabile. Se il giornalismo filmato nasce come elemento spettacolare da affiancare ad un’informazione che restava verbale, ben presto ne viene intuita la forza capace di plasmare le nostre rappresentazioni sociali. Queste sono, come afferma Moscovici, “un sistema cognitivo costituito da valori, nozioni e pratiche: una struttura di implicazioni che connette inestricabilmente la dimensione cognitiva a quella dei valori e delle pratiche” [Moscovici, 1989]. Il giornalismo ha, dunque, assunto una modalità bipolare che ha duplicato le possibilità di offerta di informazioni ma, al tempo stesso, ne ha aumentato i vincoli. Soprattutto rispetto alla coerenza tra le informazioni verbali e quelle visive. Sono ben tre i veicoli comunicativi che il giornalista televisivo si trova a dover gestire, quello visivo, quello sonoro e quello verbale: e ciò è tanto più vero perché nel nostro cervello, per ciascuno di essi, si attiva una parte diversa della corteccia cerebrale [Lurija, 1984].
Progressivamente la parte verbale è diventata subordinata al binomio suoni/visioni. A testimoniarlo vi sono le stesse parole dei giornalisti che, quando vengono proposte le immagini di un fatto reale, si fanno da parte con la rituale formula: “Ed ora vi proponiamo le immagini senza alcun commento”. Se da un lato diventa evidente la forza spettacolare nel poter mostrare un evento mentre è accaduto (e non riportarlo successivamente), dall’altro diventa altrettanto evidente il vantaggio di poter portare “alcune” informazioni a conoscenza di masse di persone con una modalità che non è più esclusivamente razionale/corticale (la parola scritta del giornale), né razionale/evocativa (la parola parlata della radio). Il linguaggio audiovisivo (immagini, parole e musica) è strutturalmente un veicolo emozionale. Infatti, un frequentatore di lungo corso della tv italiana, Maurizio Costanzo, ha detto: «tutta l’informazione televisiva è più espressiva che comunicativa (…) Quindi, la realtà mediata dalla televisione è filtrata dallo spettatore, il quale – per via delle caratteristiche del mezzo – è spontaneamente portato a concentrarsi sui contenuti più espressivi, sulle immagini, sui colori (via periferica). La notizia passa in secondo piano»” [Agresta, Paglia, 1998].
A conferma della dimensione emozionale del giornalismo televisivo esiste la controprova della “stampella musicale”. È diventata prassi inserire, tra lo stantìo testo e le immagini del servizio, una bella musichetta che aiuti la nascita dell’emozione che si vuole far suscitare. Quando si mira direttamente alle emozioni del telespettatore è segno che si è rotolati direttamente nella fiction e le informazioni realmente contenute nel servizio sono inevitabilmente inquinate. Ciò è tanto più vero per i rotocalchi (come quello di Iacona del Tg3 o degli pseudogiornalisti delle Iene di Italia 1) che per i telegiornali. Basta mettere una bella musica e si mira direttamente alla pancia ed all’angoscia (o al ridicolo) del telespettatore.
Uno strumento di questa potenza è diventato, inevitabilmente, preda dei gruppi di potere che hanno scopi diversi da quelli del giornalismo “puro”. Questi hanno praticamente monopolizzato mezzi e prassi dell’informazione audiovisiva.
Un altro “effetto di ritorno” della diluizione del giornalismo televisivo è la quasi costante assenza di pertinenza tra le immagini del servizio e le notizie del testo. E se per i grandi eventi è comprensibile (mica c’è sempre una telecamera in ogni evento), per i servizi generici risultano sconfortanti quelle di repertorio. La scarsa cura dell’immagine di repertorio denota la sciatteria di chi realizza il “pezzo” o di chi lo ha commissionato che, probabilmente, non ha dato i tempi adeguati per le ricerche d’archivio.

Molto si è studiato degli effetti che l’azione dei giornalisti ha sui singoli e sulle masse, molto meno si è ragionato intorno agli effetti che il giornalismo ha sui giornalisti. Come abbiamo visto, il giornalista espleta un ruolo affidatogli dalla società. Ogni società, oltre al mandato generale, mette delle regole implicite consone ad ogni area particolare: un giornalista in Cina lavorerà diversamente da un suo collega in Canada. Il giornalista italiano assumerà dei comportamenti e delle censure in osmosi con la società che lo contiene. In questi anni si è fatta sempre più evidente la corrente di pensiero che vede la categoria professionale dei giornalisti assurgere al ruolo di casta [Lopez, 2007; Grillo, 2007]. Questo approdo è, probabilmente, frutto di una strategia di autodifesa della categoria che si è trovata di fronte all’impossibilità di adempiere al mandato sociale della professione. Da un lato esiste la spinta della massa delle persone fuori dei circuiti di potere che chiede le “informazioni” (tutte le informazioni); dall’altro c’è il sistema di potere di tipo arcaico dei gruppi di interesse (dagli imprenditori alla Chiesa cattolica, dalla mafia ai vari livelli della politica). A questo punto non si tratta più di reperire e riportare semplicemente delle informazioni, ma di fare un lungo percorso attraverso varie istanze compromissorie. Per non rimanere schiacciati, i giornalisti si chiudono entro le “mura professionali” e rimangono aggrappati a due pilastri consolatori: il senso di comunanza derivata dall’identità e l’autoreferenzialità. Il primo aggrega nella difficoltà e permette di far attutire (se non sparire) gli elementi di autocritica: questi, infatti, possono alimentare il senso di colpa rimosso per non essere in grado di espletare la propria funzione. Il secondo è alimentato dal narcisismo (che è una normale difesa della personalità). Il ragionamento assolutorio è di questo tipo: “noi facciamo pochi errori perché sappiamo più cose degli altri, per cui le critiche non ci toccano perché noi sappiamo e loro no; e se facciamo degli errori sono dovuti a cause non dipendenti dalla nostra volontà”. Nei casi estremi il ragionamento assolutorio è talmente implicito che neanche i protagosti stessi ne sono consapevoli. Il punto su cui si compattano le mosse di identificazione sono incarnate dall’Ordine Professionale, che accorpa e difende la categoria, ma anche da un’etica professionale che, però, è autogenerata e non mediata con l’esigenze della società.

In questa condizione generale del giornalismo italiano, si innesta un altro fattore derivante dallo specifico televisivo, ovvero la forte esposizione della persona. Giornalisti della stampa come Giorgio Bocca, come Ettore Mo, hanno svolto tutta la loro carriera avvolgendosi nelle loro parole: tutto il loro lavoro veniva giudicato dai lettori solo in base a quanto scrivevano. I giornalisti televisivi hanno la difficoltà ulteriore di dover raccontare usando le immagini. Questa maggiore difficoltà può essere compensata dall’effetto amplificato che ha il loro lavoro. Quasi contemporaneamente, però, i giornalisti televisivi hanno cominciato a farsi vedere nell’inquadratura. Lentamente, quindi, nasce la “dittatura dello stand-up”. Lo stand-up è quella ripresa in cui viene mostrato il giornalista sul luogo della notizia. Nasce come una sorta di certificazione della veridicità della fonte ma diventa, progressivamente, specchio della corazza narcisistica sviluppata dai giornalisti. A conferma possiamo evidenziare il lavoro di alcuni giornalisti televisivi che molto di rado appaiono in video e, quando accade, magari sono di spalle o “di quinta”. Ben diversa è il “narcisismo da conduzione” che deriva dalla forte esposizione dei giornalisti che leggono le notizie del telegiornale. In essi si genera una forte pressione giudicante esercitata dall’opinione delle persone sconosciute che guardano senza che le si possa guardare a proprio volta. Questa forma di narcisismo accomuna i giornalisti televisivi con tutti i personaggi che la televisione rumina, dalle veline ai comici, dai professionisti del talk show ai conduttori dei programmi. Ma, ancor più del misterioso “parere della gente”, il narcisismo da conduzione è alimentato dalle persone che circondano il giornalista: la mamma, la portinaia, il parrucchiere, il gommista. Attraverso il feedback delle loro opinioni il giornalista si sente di acquisire autorevolezza e di godere della benevolenza della “gente”. In tutto ciò l’etica professionale e l’efficacia della comunicazione diventano assolutamente secondarie. Naturalmente, tutto quanto rimarcato fino ad ora, accade attraverso la modulazione delle personalità di ciascuno. Come anche accade in maniera differente tra maschi e femmine.

Il giornalismo televisivo risulta, quindi, essere un formidabile strumento per influenzare l’agenda setting [Losito, 1995] delle persone. La sua efficacia si avvale della potenza emozionale delle immagini. Un giornalismo televisivo fatto male è quello che mira alle emozioni della gente, un giornalismo televisivo fatto bene è quello che mira a rendere informate le persone. Oltre il dualismo emozionale, il giornalismo televisivo può essere esteticamente e linguisticamente realizzato in modo fa favorire o confondere la comprensione. Infine, il giornalismo ha effetti subdoli sulla personalità dei giornalisti non sufficientemente maturi: gli effetti possono incidere su varie strutture caratteriali con effetti più o meno distorcenti sulla percezione di sé e sul principio di realtà. Inoltre, a cascata, queste vanno ad influenzare il prodotto del loro lavoro e del servizio-delega di cui usufruiamo come utenti.

Bibliografia

– Agresta S., Paglia G.; “L’arte di guardare la Tv … e rimanere sani”; Milano, 1998; Edizioni Paoline
– Grillo, B.; beppegrillo.it
– Kapuściński R.; “Il cinico non è adatto a questo mestiere”; Roma, 2000; Edizioni e/o
– Lopez, B.; “La casta dei giornali. Così l’editoria è stata sovvenzionalta e assimilata alla casta dei politici”; 2007; Nuovi Equilibri
– Losito, G.; “Il potere dei media”; Roma, 1995; La Nuova Italia Scientifica
– Luria, A.R.; “Come lavora il cervello”; Bologna, 1984 ; Ed. Riuniti
– Moscovici, S.; “Le rappresentazioni sociali”; Bologna, 1989; Il Mulino

L’AUTOREVOLE BUFALA

Qualche mese fa, in primavera, salta fuori l’ennesima notizia della ricerca americana che giunge ad affermare che i selfie – le foto che si fanno a se stessi dagli smartphone – sono classificabili come un disturbo della personalità. Da aprile ad oggi la “notizia” è ribalzata dai media a Twitter e viceversa. Chi ha letto la notizia è possibile che sia stato raggiunto da un dubbio: quel gioco che mi sembrava goliardico e chiassoso che era fare dei selfie ripetuti è un segno di un disturbo della personalità?
Poi c’è stato chi, con pazienza, è andato a verificare la notizia e pare che sia l’ennesima bufala: non esiste alcuna ricerca dell’APA (American Psychiatric Association) che affermi quanto riportato negli articoli.
Quali sono, dunque, gli effetti collaterali della bufala giornalistica? Molte persone possono avere una percezione distorta della propria realtà e della normalità della propria vita. Inoltre, quando la bufala viene svelata, viene ulteriormente sminuita l’autorevolezza del media e del giornalismo in generale: tutto il giornalismo. Le persone non si fidano più di chi offre notizie e ciò vale anche per le notizie vere, esatte.
In un esercizio di dietrologia si potrebbe pensare che la diffusione di bufale giornalistiche, con conseguente discredito del mondo dell’informazione, possa essere il risultato dei gruppi di potere che, non potendo più controllare tutto nell’epoca di internet, puntano al totale discredito per indurre le persone a fare di tutta l’erba un fascio: “i giornalisti dicono un sacco di fesserie”.
Più semplicemente, la bufale giornalistiche diminuiscono il livello di sicurezza nel pubblico, nella società.

Ti fai il Selfie- Hai un disturbo mentale - titolo ilmattino

Lo studio USA che ha scoperto la -selfite- è una bufala - Squer.it

SOFISTICATI COMUNICATORI O TELEVISIONARI CINICI? IL CASO DE “LE IENE”

dal sito (chiuso) psicologiadellaudiovisivo.it ripropongo questo articolo del 2008

Gli autori televisivi sono sempre alla ricerca dei territori di confine in cui sperimentare le ibridazioni di genere. Un caso eclatante sono i tg satirici come Striscia la notizia, ma anche programmi come Le Iene. Questi sono un tipico esempio di ibridazione deliberatamente a doppio fondo: se da un lato gli autori o i giornalisti si accreditano come “difensori dei cittadini”, dall’altra realizzano prodotti eticamente spregiudicati che denotano uno scarso rispetto del pubblico. Ma veniamo al caso esemplare de Le Iene.
Nella puntata del 14 marzo 2008 il programma di culto “Le Iene” ha proposto uno dei tanti servizi che hanno costruito la sua identità e la sua fortuna. Il servizio in questione aveva come argomento il caso di alcuni ristoratori italiani a Berlino che sono stati oggetto di un ’ azione malavitosa. Nella fattispecie, un paio di personaggi provenienti dalla Campania hanno cominciato a chiedere il “pizzo” .

I ristoratori non si sono fatti impressionare e, dopo essersi contattati vicendevolmente, hanno deciso di denunciare il tutto alla polizia tedesca. Questa ha avviato delle indagini e, dopo anche qualche atto intimidatorio dei malviventi, li hanno arrestati in flagranza di reato. In una visione giornalistica la notizia è significativa ma non eclatante: persone fuggite da un contesto di diffusa illegalità vanno ad impiantare la propria attività commerciale in un paese dove la legalità è strutturata tanto nei singoli quanto nella società. Nulla di più comprensibile. La particolarità donata dagli autori de “Le Iene” a questo servizio è la dimensione morale. Il servizio viene preceduto da un flashback in cui viene ricordato agli spettatori un precedente servizio in cui un commerciante napoletano denunciò i propri estortori (si immagina proprio attraverso la trasmissione) e da allora vive sotto scorta.
Questi, nella sua ruvida apparizione, invita gli altri napoletani a non piegarsi al pizzo perché, unendosi nella denuncia e non essendo più soli, la camorra non potrà colpire tutti e (guardando con rabbia dritto in camera) dice testualmente: “li rimandiamo tutti a casa!” . Analizziamo i messaggi inviati. Il primo è che pagare il pizzo è sbagliato e che diventa un eroe chi si rifiuta di pagare. Il secondo è che la trasmissione “Le Iene” sposa questa impostazione morale. Poi viene fatto il parallelo con i ristoratori italiani a Berlino, sottolineando come viene confermata la tesi che “ribellarsi, paga” .

Apparentemente tutta l’operazione è di alti contenuti sociali ed etici. Il problema nasce dalla struttura sintattica stessa della trasmissione. Più esattamente dalla sintassi emotiva. Gli autori del programma lavorano sulle risonanze emotive. Il primo passo è di aggredire lo spettatore andando a stimolare il senso di colpa derivante da una presunta inazione: la presentazione dell’uomo sotto scorta tende a far sentire colpevoli di stare comodamente nella poltrona mentre un uomo rischia la vita. La tensione generata allo start della sequenza viene mantenuta per tutta la durata del servizio di Berlino: è come se gli autori continuassero a dire in modo incalzante allo spettatore “Vedi? Vedi?! Vedi!!” . A questo punto nasce l’effetto perverso del programma di Italia Uno. Proprio alla fine del servizio viene riproposta la medesima scena del commerciante napoletano sotto scorta che ripete la stessa frase a muso duro alla telecamera (quindi in faccia agli spettatori): “li rimandiamo a casa!” . Immediatamente, senza alcuna soluzione di continuità, senza neanche una sigletta o un commento, parte una telepromozione dai toni ameni. Lo sconcerto in chi guarda ha la consistenza metaforica di un ceffone. È come se gli autori, dopo averti oppresso emotivamente, ti gridassero di colpo: “Pirla, ci hai creduto!” .

Che tipo di effetti collaterali può avere questi tipo di gestione disinvolta degli autori di “Le Iene” ? Sicuramente il pubblico avverte che chi fa televisione gioca con le emozioni di chi guarda. Nel caso in particolare, esso può rendersi conto che quelli de “Le Iene” , prima cercano di accreditarsi come agenti autorevoli per una leadership morale ed etica, poi maltrattano il senso di fiducia che avevano generato. La fiducia è un atto di donazione del Sé ed il tradimento di essa è un atto violento che infligge dolore. L’inevitabile reazione dello spettatore è di chiusura. Viene alzato il livello di soglia oltre cui è di sposto di nuovo a farsi coinvolgere, per cui la sua sensibilità ne viene intaccata. Parallelamente, viene emotivamente connotata come “ambigua” quella televisione che cerca di accattivarsi lo spettatore, ovvero quella che cerca di apparire “credibile a tutti i costi” (per poi tradire la tua fiducia per sciocchi motivi di marketing). Il risultato finale è che chi ha visto quel servizio all’interno del programma televisivo de “Le Iene” ha buone probabilità di diventare più cinico e di appesantire i propri comportamenti prosociali. Esattamente l’opposto delle “apparenti intenzioni” degli autori del programma.
Ad avvalorare questo uso deliberato della dimensione emotiva c’è il cambio di registro compiuto dalle testate giornalistiche televisive negli ultimi venti anni. La missione del giornalista televisivo è lentamente scivolata dalla sfera razionale a quella emozionale.