Lo scorso 30 novembre ho partecipato ad una conferenza stampa, organizzata dall’Ordine degli Psicologi della Lombardia, sul tema “Psicologia e videogiochi”. Relatori Thalita Malagò (AESVI), Matteo Lancini (psicoterapeuta e docente Università Milano-Bicocca), Giuseppe Riva (psicologo e docente Università Cattolica Milano). Proverò a ripercorrere il mio intervento, ampliandolo ove possibile.
Di tutte le possibili definizioni che si possono dare ai videogiochi, preferisco partire dalla considerazione che i videogiochi sono un manufatto culturale. Sono uno dei tanti manufatti che la cultura di ogni consesso umano genera: siano essi la ruota, il teatro, il telefono, un vestito e così via. Naturalmente, parlare di videogioco come una categoria unica è come dire che i film sono tutti uguali perché sono dei film. Così come esistono i generi cinematografici che hanno effetti differenti e pubblici differenti, così i videogiochi sono tanti e con svariate caratteristiche e pubblico.
Il pubblico che usa i videogiochi è divisibile in due grandi categorie, ognuna con tutte le sfumature del caso: da un lato metterei i giocatori blandi, ovvero quelli che giocano per divertirsi (ore di gioco contenute), e poi i giocatori intensivi, che affrontano il videogioco con lo stesso impegno e tenacia di un lavoro intensivo.
I videogiochi, però, ancor prima che investire la cultura, sono un cimento cognitivo. La cognizione non si esprime, naturalmente, in modo univoco ma come un mosaico sfaccettato di percorsi, funzioni e modalità operative. Il fisico e la mente del videogiocatore sono sollecitati, a tratti anche in maniera intensiva. Ecco che, in certi tipologie di giochi d’azione, l’eccessiva pratica può portare delle conseguenze.
Parliamo, quindi, degli eccessi del videogiocare. Alcuni sono reali, riscontrabili sperimentalmente e nella pratica, come la massiccia e continuata secrezione di ormoni dello stress (cortisolo generato dalle ghiandole surrenali) che, pur consentendo prestazioni superiori, per lunghe esposizioni ha degli effetti negativi. Altri danni sono, invece, presunti. Un’accusa che viene fatta ai videogiochi è che sottraggono tempo tanto allo studio quanto alla socialità. La prima può essere intuibile per l’enorme disparità di gratificazioni che si possono rilevare tra lo studio e il videogioco. In questo caso l’attività modulante e motivante dei genitori risulta fondamentale perché – fosse per i giocatori – si preferirebbe sempre il gioco. La seconda accusa, riferita all’alienazione sociale che provocherebbero, è da considerare che nasce in una fase della storia del videogico che vedeva i gamers a cimentarsi da soli contro il gioco. Da anni, ormai, i videogiochi si praticano soprattutto online, con un grado di socialità notevole che può essere locale (giocarlo con amici e compagni di scuola per poi ritrovarsi a commentarlo da vicino) o planetario (con dialoghi ed interazioni in inglese con altri gamers sparsi nel mondo).
Il problema più grande relativo ai videogiochi, grandemente amplificato dai media informativi, è sempre stato identificato nella violenza insita in molti titoli tra quelli più giocati. Il discorso meriterebbe da solo un ampio articolo ma possiamo dire che, parimenti alla tv, la violenza a cui espone un videogioco è pericolosa nella misura in cui il soggetto non sia predisposto alla violenza. Se così non fosse ci sarebbero omicidi in misura spaventosa in tutti i paesi in cui si giocano e il mondo sarebbe preda del terrore generalizzato.
Ma veniamo agli effetti positivi che, lentamente, stanno cominciando ad essere notati e studiati. Da un lato è stato notato da molte ricerche che nei videogiocatori migliorano le prestazioni visivo-spaziali e di coordinazione motoria. Migliora anche la memoria. Anche l’apprendimento può essere aiutato attraverso una pratica equilibrata dei videogiochi: viene rinforzato il senso di padronanza dell’apprendimento per prove ed errori, come pure migliora la gestione delle frustrazioni e la capacità di insight per le regole implicite. Anche la capacità di gestire le mappe cognitive può migliorare e le abilità in multitasking. Paradossalmente, i videogiochi abituano a concentrarsi: uno degli effetti principali che i videogiocatori vivono è definito “effetto flow“. Chi gioca entra in un flusso di attenzione in cui perde cognizione di tempo e spazio. E’ proprio questo effetto che ti fa rendere conto che hai giocato per ore senza rendertene conto. Potrei continuare, ma è possibile immaginare quanto possano sollecitare e allenare i videogiochi, a patto che non si esageri.
E’ facile anche supporre come si sia provato ad usare questo potente mezzo cognitivo per fini diversi dal gioco. Il videogioco è stato usato in ambito psichiatrico , come anche per la formazione; nella riabilitazione dopo un ictus , come anche nella pratica di videochirurgia. Chi li gioca sa che i videogiochi rientrano a pieno titolo in una sorta di “socializzazione 3.0“, quella fatta di un mix di comunicazioni (brevi/lunghe, testuali/audiovisive, ibride) realizzate attraverso tutti i device che la tecnologia ci mette a disposizione. Infine, dato assolutamente primario, quella dei videogiochi è un’industria a tutti gli effetti, come in passato lo sono diventati in cinema prima e la televisione poi. Tanto per fare qualche cifra, “Grand Theft Auto V” ha beneficiato di oltre 200 milioni di euro (“Pirati dei Caraibi” ne ha usato 229).
Che i videogiochi, poi, siano un potente mezzo per aggirare certe “difese” della personalità lo hanno capito in tanti e non tutti interessati solo al gioco: sono quelli che li usano per fare propaganda. Nel mondo arabo-integralista sono stati realizzati videogiochi in cui si fa la guerra agli israeliani e l’U.S. Army usa i videogiochi per indurre i giovani ad arruolarsi.
A causa dei giochi di tipo sparatutto o i picchiaduro, si è sempre tentato di far passare l’equivalenza “videogiochi=violenza”. Una vera bufala. Parimenti a quanto hanno mostrato le numerose ricerche longitudinali (quelle protratte negli anni) relative all’esposizione della violenza in tv, i comportamenti violenti a seguito di prolungate esposizioni alla violenza rappresentata sono più probabili in quegli ambienti che già contengono violenza. D’altra parte, il consumo di quei tipi di videogiochi è ampiamente sopravvalutato: nel 2014 il gioco più venduto è stato uno di calcio e nelle prime dieci posizioni ben 5 non sono riconducibili ai titoli incriminati. Ma c’è un’altra considerazione da fare. Il videogioco, come tutto ciò che è inventato dall’uomo, ha una sua dinamica peculiare: se si esagera, fa male anche il videogioco. Per usare una semplice metafora: col mestolo si versa dell’ottimo brodo ma se ci diamo un colpo sulla nostra testa, ci farà male.
I videogiochi, quindi, fanno parte ormai della nostra vita. Sono un manufatto culturale e come tale deve essere analizzato. La nostra cultura è fatta anche dalla violenza. I videogiochi la portano in una dimensione catartica e nulla ci porta a pensare che siano essi responsabili dei comportamenti violenti. Però, se si esagera nel giocare, possono fare male.
Ecco che un approccio equilibrato al fenomeno mi porta a concludere che i videogiochi sono un fenomeno culturale complesso e non riducibile a degli slogan. Va studiato con buon senso e sincera voglia di comprendere. Essi hanno sicuramente degli effetti cognitivi e, se goduti in eccesso, possono anche fare male. I videogiochi sono una parte della vita e della società e, più che contrastarli, andrebbero gestiti e governati.