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L’AMORE AL TEMPO DEL NEOLIBERISMO

In tempi non sospetti Vinicius cantava, col contrappunto di Ornella Vanoni, la canzone Semaforo che era stata scritta da Paulo Cesar Baptista De Faria col titolo originale di “Sinal fechado”. È lo scambio tra un uomo e una donna, immaginato ad un semaforo usato come simbolico starter. Ci restituisce un mondo di affari, soldi, competizione, workaholism, anaffettività, solitudine.

 

Ola, come va?

Non c’è male, ma tu come stai?

Tiro avanti; si gira si corre lo sai

Il lavoro è lavoro, ma tu…

Me la cavo; sto ancora augurandomi un sonno tranquillo

Speriamo…

Quanto tempo

Ma si, quanto tempo

Scusami la fretta: è la legge di tutti gli affari

Ma figurati… Devo correre anch’io

Ma quand’è che telefoni?

Quando ci potremmo vedere, se vuoi

Ti prometto… Nei prossimi giorni…

Senz’altro ti chiamo

Quanto tempo

Ma si, quanto tempo…

tante cose sentivo di dirti, ma anche allora dovevo partire…

Anche a me viene in mente qualcosa…

Ma chissà… Lascia andare

Per favore telefona prima che puoi…

Devo correre a un appuntamento

Domattina…

Il semaforo…

Io ti cerco…

È già verde…

Ti prometto ci penso

per favore… ci pensi?

Addio…

Addio…

IL FIGLIO INTERIORE

A volte pensiamo di saper riconoscere al volo cosa accade nella nostra vita ma non sempre ci rendiamo conto che alcuni aspetti ci possono sfuggire. Poi capita di trovarsi dentro certe situazioni ed allora realizziamo. D’altra parte, il sagace Arthur Bloch nelle sue Leggi di Murphy, teorizzava che “se osservi attentamente il tuo problema, ti accorgerai di farne parte“. A me è accaduta una cosa del genere.

Volendo fare qualche premessa, possiamo citare quei fenomeni studiati inizialmente da Freud e Ferenczi definiti introiezioni, poi anche ripresi e ampliati da Jacobson e Kernberg nelle relazioni oggettuali. Sostanzialmente, nel corso del nostro sviluppo costruiamo una serie di rappresentazioni nella nostra mente in riferimento alle persone che amiamo, ovvero interiorizziamo. Il bambino lo fa innanzitutto con i genitori, ma si posso sviluppare con fratelli e sorelle, zie e nonni, amici e amiche, per finire agli amori della propria vita. Ciò che amiamo tendiamo a portarlo dentro, in una presenza ricostruita nella nostra mente, così che ne avvertiamo il “calore” anche quando non sono vicine. È ciò che permette al bambino di andare all’asilo o di essere lasciato dai nonni o con la babysitter quando andiamo al lavoro.

Generalmente si tende a vedere questo fenomeno come un’efficace strategia per sopravvivere alle dipendenze affettive in presenza di un allontanamento. Da adulti un caso frequente è nelle relazioni a distanza: lui e lei con 500km in mezzo. Ma dimentichiamo che esiste una situazione molto più frequente che, però, negli ultimi anni sta subendo un’involuzione. Viene chiamata anche Sindrome del Nido Vuoto, ovvero quando i genitori vedono i figli andare via da casa per costruirsi una vita altrove: cominciano a soffrire e, molte volte, tendono a riavvicinare i figli a sé, magari comprandogli casa nello stesso stabile o alimentando la loro dipendenza economica (di questi tempi è operazione facile). Nei casi virtuosi, invece, il genitore aiuta e favorisce l’indipendenza dei figli, l’autonomia e l’avvio verso strade e mete loro, non quelle desiderate e proiettate dai genitori stessi. Come riescono questi genitori a resistere alla lontananza? Proprio attraverso l’interiorizzazione della figura del figlio. Un processo inverso ed equivalente a quello vissuto dai figli. Il figlio vive dentro di sé e la sua autonomia restituisce la misura della propria riuscita di genitori. Dunque, viva il figlio interiore.

LA RECIPROCITA’ E L’AMORE

Mi è capitato spesso di pensare del perché nelle coppie si litiga tanto spesso o di come l’insoddisfazione che viene fuori quando si sentono parlare le persone delle proprie relazioni. Cosa manca? Quando si ripercorrono le frasi volate in un litigio – non solo in una coppia, ma anche tra lavoratori o tra qualsiasi altra situazione di relazione – ci accorgiamo che si riduce tutto ad un botta e risposta di recriminazioni: “e tu non fatto..”, “ma neanche tu hai pensato…” e così via. Un reciproco scambio di accuse diventa la trama dell’infelicità.
La reciprocità, appunto. Forse proprio su questa si costruisce l’insoddisfazione delle relazioni tra le persone. Possiamo definirla come l’aspettativa di una relazione a scambio paritario: dare e avere sono dei diritti e doveri, per tutti. Ma la reciprocità può essere anche una minaccia, infatti il principio di reciprocità, in diritto a livello internazionale, costituisce una figura di ritorsione e di dissuasione (Se tu mi fai questo, io ti faccio quello) e oggi esso viene valutato come un principio di giustizia commutativa a livello internazionale. Quindi la reciprocità ha tanto una valenza positiva, quanto una negativa. “Nell’incontro tra due esseri, sia animali che umani, la reciprocità inizialmente non esiste; ogni essere tiene conto solo delle sue esigenze e delle sue necessità, ma il frequentarsi, la coesistenza nello stesso spazio sociale, porta inevitabilmente ad interagire l’uno con l’altro costruendo una relazione. Qui nasce la reciprocità, ma dipende da noi l’indirizzo che assumerà nel tempo. (…) Lo studio di John Maynard Smith sulla teoria evoluzionistica dei giochi ha evidenziato come possa esserci reciprocità in una popolazione formata da soli egoisti con il sorgere dello sviluppo della cooperazione” [horsemankind.it/la-filosofia/reciprocita]. Ma quando nasce questa dinamica psicologica nelle nostre vite?
Quando il bambino riceve una risposta positiva a un suo bisogno e la coglie come un beneficio soddisfacente proveniente dalla madre o da un’altra figura significativa, è allora che comincia a provare quella felicità che lo induce a esprimere gratitudine. Se quest’ultima risulta assai forte, gradualmente suscita in lui il desiderio di ricambiarla o, addirittura, di condividere con altri ciò che ha ricevuto” [M. Szczesnuak – G. Gordon; Psicologia Contemporanea n. 237, 2013]. Quindi, è nelle prime fasi della relazione con le figure che lo curano – la madre innanzitutto – che nasce quell’impulso a donare, quella gratitudine che ci permette di arrivare fino alle vette di amore che immaginava sant’Agostino con il suo celebre motto “ama e fa’ ciò che vuoi”.
Immaginiamo, a questo punto che, al bambino a cui si accennava sopra, chi lo cura che gli dica in continuazione: “se non fai così non ti voglio bene”; oppure “perché fai così? Mi fai dispiacere”. In questo caso il bene dell’oggetto d’amore viene condizionato ad un comportamento in cambio. E’ qui che nasce il principio relazionale basato sulla reciprocità, il “do ut des” dei sentimenti: “se io ti voglio bene, tu mi dovrai voler bene”; “se io ti do queste cose, dovrai donarmele anche tu: io mi aspetto che tu me le dia”. Questo meccanismo di aspettativa diventa talmente forte e radicato nelle nostre convinzioni che, alla fine di un lungo processo culturale, c’è qualcuno che lo strumentalizza. Nel marketing, infatti, il principio di reciprocità ci spinge a pensare che quando si ricevono regali, inviti o favori, ci sentiamo obbligati a contraccambiare. Questo comportamento è dominante nella nostra società e se non viene rispettato di norma si viene etichettati come ingrati, profittatori o perfino parassiti e si deve subire la sfiducia degli altri, quindi rapporti sociali più difficili. Per evitarlo abbiamo imparato fin da piccoli a contraccambiare: “la reciprocità viene usata per convincervi a compiere delle azioni, come fare un acquisto, fare volontariato, finanziare un progetto” [S.M. Weinschenk; “Neuro Web Marketing”]
A questo punto diventa facile intuire quanto questo apprendimento possa minare la felicità. Se siamo tutti tesi a valutare quanto ci dà indietro il partner rispetto a quanto abbiamo dato, molto probabilmente ci perderemo il piacere più grande nell’amore: dare. Come diceva sant’Agostino.

LA TEORIA DEL TUTTO

Chi si aspetta di vedere un film sulla storia del fisico Stephen Hawking sappia che la sua vicenda è secondaria. O meglio, serve a raccontare un’altra storia: quella della donna che decide di stargli accanto, sposarlo e aiutarlo. Il personaggio di Jane Wilde è il fulcro di tutto il racconto. Il film si regge su una domanda implicita, ovvero: “possibile che lei si sia dedicata completamente ad un uomo nelle condizioni di assoluta dipendenza”? Su questa domanda viene costruita tutta la narrazione e si comprendono tutte le azioni della donna. Amore, dunque. Un amore che può essere visto anche come una dipendenza, tanto che nella vita reale (e nel film) è Hawking che decide quando recidere il legame con lei e lasciarla “libera” di vivere affianco ad un altro uomo.
Quindi, “La teoria del tutto” è una storia d’amore estremo, un amore apparentemente lontano dagli amori dei legami fragili che oggi sembrano imperare.
La regia di James Marsh è pulita, segno anche di una sceneggiatura diligente che si lascia andare perfino ad un paio di battute divertenti. La fotografia è sobria, dai toni morbidi e poco contrastati, un po’ buia, quasi a voler sottolineare “l’inglesità” della vicenda.
L’unico guizzo narrativo è il finale, quando si chiude il film unendo (finalmente) la fisica e la storia d’amore con un artificio di montaggio che mostra Il Tempo.

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SONO FINITI GLI UOMINI-BANDIERA

Oggi compie 38 anni Francesco Totti, calciatore della Roma per tutta la sua carriera, dalle giovanili ad oggi. Un caso ormai raro quello dell’uomo che si identifica completamente nella “sua” squadra, nella squadra della “sua città”. Se in passato erano frequenti i calciatori che diventavano essi stessi rappresentazione della squadra-città – come Bulgarelli nel Bologna, Mazzola nell’Inter, Juliano nel Napoli, Rivera nel Milan e tanti altri – oggi è diventato rarissimo, apparentemente anacronistico.
Nel corso della sua evoluzione da sport a spettacolo, il calcio ha perso la sua connotazione di identificazione collettiva. Oggi è la norma avere le squadre che schierano un collage di nazionalità in cui uno o due calciatori sono italiani (neanche della città della squadra).
E’ meglio o è peggio? Difficile rispondere se si è in cerca di una verità. E’ possibile, però, comprendere perché le tifoserie (quelle vere, non gli estremisti violenti che si nascondono dietro il tifo) sono diventate così intransigenti con le proprie squadre: appena smette di vincere e convincere partono fischi, scioperi del tifo e mitragliate ad alzo zero attraverso le famigerate “radio del tifo”. Se il calcio è diventato spettacolo, così come un’opera lirica o un concerto, ogni minima stecca, stonatura o imperfezione nella messa in scena, genera fastidio e la sensazione che i tanti soldi spesi non valgano la rappresentazione. Fischi dal loggione, quindi.

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