Archivi categoria: Società

L’AMORE AL TEMPO DEL NEOLIBERISMO

In tempi non sospetti Vinicius cantava, col contrappunto di Ornella Vanoni, la canzone Semaforo che era stata scritta da Paulo Cesar Baptista De Faria col titolo originale di “Sinal fechado”. È lo scambio tra un uomo e una donna, immaginato ad un semaforo usato come simbolico starter. Ci restituisce un mondo di affari, soldi, competizione, workaholism, anaffettività, solitudine.

 

Ola, come va?

Non c’è male, ma tu come stai?

Tiro avanti; si gira si corre lo sai

Il lavoro è lavoro, ma tu…

Me la cavo; sto ancora augurandomi un sonno tranquillo

Speriamo…

Quanto tempo

Ma si, quanto tempo

Scusami la fretta: è la legge di tutti gli affari

Ma figurati… Devo correre anch’io

Ma quand’è che telefoni?

Quando ci potremmo vedere, se vuoi

Ti prometto… Nei prossimi giorni…

Senz’altro ti chiamo

Quanto tempo

Ma si, quanto tempo…

tante cose sentivo di dirti, ma anche allora dovevo partire…

Anche a me viene in mente qualcosa…

Ma chissà… Lascia andare

Per favore telefona prima che puoi…

Devo correre a un appuntamento

Domattina…

Il semaforo…

Io ti cerco…

È già verde…

Ti prometto ci penso

per favore… ci pensi?

Addio…

Addio…

SE QUESTA E’ INFORMAZIONE

Una delle accuse più frequenti che vengono mosse ai giornalisti è che i loro articoli, i loro servizi in video, le loro inchieste, siano fuorvianti perché frutto di schemi stereotipati, di pregiudizi e che, quindi, non consentono alle persone di comprendere realmente un fenomeno. Tutti si auspicano che essi riprendano un livello di correttezza e deontologia adeguata alla funzione sociale che svolgono. Si potrebbe anche ipotizzare  – come faccio nel mio libro –  che gli psicologi possano contribuire all’innalzamento degli standard informativi della nostra società. Poi accade qualcosa che palesa quanta strada vi sia ancora da percorrere.

Nell’ultimo numero della rivista Psicologia Contemporanea (n. 265)  – rivista benemerita e in corso di rinnovazione da parte del nuovo direttore –  la psicologa dello sviluppo Silvia Bonino scrive un articolo dal titolo “Relazioni disumane: il sesso con i robot“. Faccio un salto. Che coincidenza, proprio qualche settimana prima avevo scritto proprio su questo blog un articolo sullo stesso argomento. Mi lancio nella lettura e, via via che leggo, aumenta la mia perplessità. Vi spiego.

L’analisi della Bonino viene aperta da una sintesi (catenaccio) che recita: “Il diffondersi di bambole e robot con cui fare sesso rappresenta la deriva di un erotismo dove il ‘partner’ è visto come oggetto di un soddisfacimento meccanico anziché come un universo autonomo con il quale interagire“. Accidenti, è una sentenza. I titolisti avranno esagerato come al solito. Proseguo e scopro un’altra affermazione che avrebbe meritato la citazione della fonte: “Già oggi, nel mondo, alcune aziende li producono a costo elevato e per un mercato esclusivo, in alcuni casi di pedofilia“. Affermazione enorme. Un’accusa pesante. Proseguo nella lettura.

Successivamente, memore delle tante riflessioni di specialisti di cibernetica , oltre che di scrittori di fantascienza, sull’umanità possibile da parte di un un “robot”, appare un po’ semplicistica l’affermazione: “L’amore, l’affetto, la cura, l’altruismo, la cooperazione sono l’espressione quotidiana di questa socialità“. A parte il concetto di amore che, semanticamente, contiene molti significati in virtù del punto di osservazione, siamo realmente sicuri che un androide non potrà essere in grado di assolvere a quelle necessità? Il dubbio rimane.

Nella delineazione filogenetica del comportamento sessuale, leggo ancora: “Negli esseri umani il sesso si è congiunto all’affetto in una relazione emotiva e sentimentale paritaria; si è così sviluppato l’amore sessuale, in cui la sessualità non serve più solo alla riproduzione ma al mantenimenti del legame“. Dobbiamo, quindi, escludere che il sesso senza una profonda relazione d’amore sia soddisfacente? Per Silvia Bonino sembra di si perché, poco dopo, scrive: “I sex robot realizzano un preciso e univoco richiamo alla sessualità rettiliana, vale a dire a una sessualità del tutto disgiunta da qualsiasi rapporto emotivo affettivo (…) Si tratta di una sessualità preumana e disumana, antecedente alla comparsa degli affetti, in cui non si interagisce con una persona reale, ma soddisfa solo una pulsione primaria secondo una modalità del tutto autocentrate. È quanto già accade con  la prostituzione“. Ancora un’affermazione che non aiuta a capire un fenomeno che esiste da millenni. Possiamo liquidare il fenomeno della prostituzione così?

Con i robot, invece, si realizza una sessualità che è intrinsecamente di dominio e sopraffazione, poiché l’altro è oggetto completamente programmato per soddisfare i desideri dell’acquirente. In questo modo [con]  l’utilizzo dei robot si disabitua a interagire con un essere umano” continua il professore onorario di Torino. Qualcosa non torna. Se accettiamo la definizione di dominio come “avere un potere incontrastato su qualcuno” o come “tenere qualcuno sotto il proprio controllo, potere, autorità” come recita uno dei dizionari della lingua italiana ci rendiamo facilmente conto che un robot non può essere dominato in senso umano proprio perché un automa (non voglio arrivare a dire come un televisore). Tanto meno un androide può essere sopraffatto  ovvero “oggetto di una prepotenza, soperchieria o sopruso“. Infine, vista la similitudine postulata poche righe prima tra sesso con robot e prostituzione, viene da pensare che la disabituazione all’empatia, che dovrebbe essere indotta, si compia anche con le prostitute, nonostante la vasta letteratura sulle passioni e le storie d’amore tra uomini e prostitute .

Tirando le somme, ho avuto la sensazione che questa apparente analisi si riducesse ad una serie di affermazioni, poco argomentate e sostanzialmente fuorvianti. Un’analisi che lascia più dubbi che chiarezze. Perciò mi chiedo: questa è informazione? No, ovviamente no. È una dotta opinione che avrebbe meritato anche un contraddittorio ma  – si sa –  certi argomenti sono scivolosi più di una saponetta bagnata. Peccato che sia stata pubblicata da una rivista di psicologia destinata al grande pubblico. Avrebbe aiutato capire. Dovremmo fare meglio, molto meglio.

 

GENITORI, FIGLI E LA COMPETIZIONE NELLA VITA

Chiunque abbia avuto dei figli passa attraverso il lungo percorso di istruzione dei figli. Si comincia addirittura con l’asilo nido e si finisce con il master o la specializzazione all’università. Nella ipotesi peggiore è un percorso che dura anche venticinque anni. In tutto questo tempo si combatte una silenziosa disputa tra genitori e figli, con i primi che spingono verso lo studio e i secondi che cercano di soddisfare queste richieste. Fin qui lo schema, ma la faccenda è molto, molto più complessa.

Qualche considerazione preventiva può aiutare a chiarire il quadro. I piccoli imparano senza alcun bisogno di stimolazione preventiva, per esposizione e per gioco. Nella tassonomia dell’apprendimento nello sviluppo evolutivo, ogni scuola ha generato la sua teoria. Più semplicemente, possiamo dire che il salto di qualità dell’apprendimento avviene per una mutazione della Motivazione. In condizioni naturali il bambino apprende ciò che gli serve nel suo spazio vitale. Ma sappiamo che, in una società complessa come quella che viviamo, non basta imparare basic, ma è opportuno proiettarsi molto in avanti. Ecco che quel  comportamento istintivo e fondamentale per la sopravvivenza che porta i piccoli a fare ciò che gli viene chiesto dai genitori diventa la motivazione di livello superiore. Per un bambino è fondamentale avere l’approvazione del genitori ed il suo comportamento viene ampiamente plasmato da questo tipo di dinamica. Ma la faccenda si complica a causa della correlazione tra istruzione e competizione per le risorse. Uno degli assiomi consolidati negli ultimi duecento anni è che ad una maggiore istruzione corrisponde un maggiore benessere. Essere “istruiti” ha dato molti vantaggi a chi poteva diventarlo. Un medico dell’inizio del Novecento era un’autorità assoluta per la comunità. Questo assioma si è consolidato quando, a partire dagli anni Cinquanta, la scuola è diventata un fenomeno di massa. Se da un lato la scolarizzazione generalizzata ha innalzato i livelli culturali delle nostre società, dall’altro questo fenomeno ha incastonato questo percorso in quello più ampio della gestione delle Risorse. Fino a quando la società ha mantenuto un livello ottimale di crescita economica, esistevano risorse sufficienti per far intravedere a tutti  – soprattutto ai genitori –  la possibilità di un miglioramento della condizione di arrivo dei figli rispetto a quella dei genitori stessi. Lo chiamano “ascensore sociale“. Ma, quando comincia a declinare la crescita economica, si crea una situazione di scarsità di risorse tale che l’ascensore sociale si ferma o, addirittura, scende. La competizione diventa micidiale.

In questa situazione, i bambini ed i ragazzi, si trovano nella poco invidiabile condizione che descrive perfettamente Silvia Vegetti Finzi in un suo articolo apparso sulla rivista Psicologia Contemporanea, lo scorso gennaio 2017. La psicologa e psicoterapeuta dice: “Viviamo in una società competitiva, dove il futuro è incerto e minaccioso: molti giovani resteranno probabilmente senza lavoro e ben pochi troveranno un’attività corrispondente alle loro aspirazioni per cui, nella corsa della vita, i genitori tendono a trasformarsi in allenatori (…) Prigionieri dell’ansia da prestazione, questi ragazzi incrementano competenze e abilità a scapito dell’evoluzione complessiva. Non essendo liberi di scegliere, non possono sbagliare“. La spinta competitiva dei genitori li porta a riempire la vita dei propri figli di percorsi “formativi” per potergli dare qualche gettone in più da giocare alla slot della competizione delle risorse: imparano inglese (perché dove vai senza sapere l’inglese?); fanno sport (perché fa bene e plasma il carattere, allenando alla competizione); portano voti alti a scuola (perché nella classifica delle opportunità è meglio avere molti punti per apparire più appetibili); frequentano gli ambienti giusti (perché senza conoscenze non si va da nessuna parte). Ancora la Vegetti Finzi nota che “sono sempre più i ragazzini che, schiacciati da richieste insostenibili, incapaci di corrispondere alle aspettative della famiglia, finiscono per sentirsi inadeguati sino a perdere sicurezza e autostima. Di conseguenza, aumentano le patologie legate all’ansia, come l’iperattività e le difficoltà a concentrarsi“. Non solo, troviamo dall’adolescenza in poi che molti “mollano” e si riscontrano situazioni di irritabilità con seguente litigiosità in famiglia, depressione che induce il ricorso a additivi di varia natura (soprattutto alcool e droghe leggere), ai casi di rifiuto della realtà come gli hikikomori.

Cosa fare? Quale ponderoso dilemma si trovano davanti i genitori! Esiste un’alternativa alla corsa alla competizione, in cui alcuni arrivano alla meta ma molti “si schiantano” per strada?

Lo scopo dell’educazione consiste soprattutto nel far emergere il desiderio del ragazzo e, coniugandolo con il senso di responsabilità, sostenerne la realizzazione (…) L’Io contro tutti non paga, meglio sostituirlo con il senso della comunità, con un Noi solidale, che si forma in situazioni di convivenza e collaborazione tanto nella scuola, quanto in ambiti extrascolastici” afferma ancora Silvia Vegetti Finzi. In molte parti del mondo si comincia a comprendere che scendere nell’arena della competitività da soli si perde. Saranno i gruppi, col reciproco sostegno, ad avere più possibilità di benessere. Non a caso nei paesi scandinavi già si affacciano nuovi percorsi formativi che aiutano i bambini ad imparare la collaborazione, l’empatia ed i comportamenti altruistici. In tutti i casi di situazioni difficoltose, è sempre il gruppo ad avere le migliori possibilità, quindi bisogna insegnare i nostri figli a collaborare, ad essere solidali, ad aiutare: cominciando dalla famiglia in cui si cresce. Proprio da lì che si comincia ad imparare. Dei genitori che collaborano, sono sensibili agli altri membri, che aiutano chi è in difficoltà, sono il viatico migliore.

Dalla competitività estrema, spietata, che non fa prigionieri, si può lavorare per una sorta di decrescita felice o, più esattamente, verso una riformulazione dei paradigmi di formazione e crescita dei figli. È inutile dotare i figli degli strumenti per arrivare alle risorse se questi, poi, non avranno modo di goderle perché impegnati ad un accumulo forsennato delle risorse stesse, che siano case, danari, conoscenze o incarichi prestigiosi.

Quando chiacchiero con altri genitori amo affermare che  – esagerando –  preferisco un figlio carrozziere felice che Nobel suicida.

ROMA CAPUT LERCIUM

Sui media informativi, ormai da anni, continua tambureggiante il rumore degli articoli sull’immondizia per strada a Roma. Denunce, inchieste, servizi dei telegiornali, interviste ad amministratori e gente comune costituiscono un terreno comune su cui sfogare il malumore. Quante volte ho sentito frasi del tipo “Quelli dell’AMA [NdR. Azienda Municipale Ambiente] non hanno voglia di fare niente”, oppure “il sindaco è un incapace”; oppure, ancora, “Rubano tutti e noi stiamo sempre nell’immondizia”. Immagino che, al momento dell’insediamento un qualsiasi assessore all’ambiente di Roma questi abbia nelle orecchie fischi e ronzii come fosse una locomotiva. Ma come affrontare il problema? Forse è il caso di fare un bel ragionamento sulla responsabilità.

Cominciamo elencando una serie di fatti facilmente verificabili da tutti.

  1. A) La sporcizia che è possibile vedere a Roma non ha appartenenze topografiche: se ne trova dai Parioli a Torpignattara, dall’EUR al centro
  2. B) Non esiste una tipologia specifica di immondizia: si trovano auto abbandonate, dai frigoriferi (famigerati) ai divani, dalle bottiglie ai televisori; ma soprattutto carte, plastiche e minutaglia varia è annidata dappertutto. Sui marciapiedi, ai bordi delle strade, nelle aiuole, nei parchi, nelle metropolitane, sugli autobus. wp_20161224_001Non solo. Questa microimmondizia la si incontro addirittura nei comprensori privati, nei condomini e negli ascensori.
  3. C) È possibile vedere all’opera i mezzi e gli uomini della municipalizzata che svuotano i cassonetti e puliscono le strade
  4. D) molto frequentemente è possibile trovare i contenitori (di tutte le misure, dal cassonetto al semplice cestino) ricolmi. Conseguentemente, di fianco ad un cassonetto straripante, si accumulano sacchetti e materiale di vario genere
  5. E) La pratica del “butta tutto nel buco”, con l’uso di discariche, non è una strada percorribile
  6. F) Qualsiasi impianto di incenerizione provoca perplessità ambientali e proteste della popolazione

Questi i fatti. Potrebbe esserne sfuggito qualcuno ma il quadro è ben delineato. In una città che conta quasi tre milioni di abitanti, è 207-514materialmente impossibile che alcune migliaia di lavoratori, per quanto meccanizzati, possano tenere pulite i 5500 km di strade della Capitale. Infine, c’è da sottolineare una realtà incontestabile: i responsabili dell’immondizia e dei rifiuti sparsi per la città sono gli abitanti di Roma.

Fatte salve queste premesse, cosa si potrebbe fare per invertire la tendenza? L’unica strada che possa garantire dei risultati è quella di restituire la responsabilità della pulizia agli abitanti stessi. Dietro all’immondizia c’è un atteggiamento di deresponsabilizzazione: “perché dovrei pulire io che già pago quelli dell’AMA?”. Occcorre una crescente presa di coscienza che, se è vero che abbiamo il diritto ad avere un servizio di rimozione dei rifiuti al servizio della collettività, dall’altro abbiamo l’equivalente dovere di non sporcare. Sembra elementare.

retake-2La consapevolezza che siano gli stessi abitanti a sporcare viene evidenziata dalle azione dei molti gruppi civici di “inseguimento del decoro” che brillano per senso di responsabilità ma che risultano inefficaci per una carenza ideologica che possa realmente essere coinvolgente sulle persone. Se l’atteggiamento deresponsabilizzato della gente si manifesta verso gli operatori ecologici, accade inevitabilmente che questo atteggiamento si manifesti verso i volontari civici (“perché dovrei aiutarli a togliere l’immondizia se c’è un’azienda che viene pagata con le mie tasse per farlo?”).

Ecco perché, già se venisse approvata l’ordinanza (con relative sanzioni) per cui ogni condominio deve provvedere alla pulizia del tratto di strada che interessa la proprietà, potrebbe essere una “spinta” alla responsabilizzazione. Ma non basta. Dall’altro lato occorre far diventare “desiderabile” non sporcare e/o pulire. Come tutte le azioni destinate alla modifica dei comportamenti, è indispensabile fornire motivazioni e gratificazioni. Per rimanere al passo con i tempi  – giusto per citare ad esempio il fenomeno di Pokémon Go –  è possibile usare la ormai vasta esperienza in tema di gamification.

IL LAVORO AVVELENATO E LA QUESTIONE DELL’ORARIO

Questa riflessione parte dalla notizia riportata dai media della prospettiva dell’abolizione dell’orario di lavoro da parte del milionario Richard Branson proprietario della Virgin e della galassia 000004di aziende che possiede. Notizia accolta con favore e messa in risonanza anche con il pensiero di un altro dei grandi manager, il numero uno di Google, Larry Page. Riporto uno stralcio significativo dell’articolo: “per i suoi dipendenti ha abolito l’orario di lavoro. Perché “contano i risultati, non le ore che passi in ufficio”. Così sarà possibile assentarsi per “un’ora al giorno, una settimana o un mese, senza che nessuno faccia domande”. L’importante è che alla fine i progetti affidati a ognuno siano portati a termine con successo“. Interessante e pare entusiasmante. Però è possibile anche vedere il rovescio della 000002medaglia perché l’orario di lavoro nacque come tutela del lavoratore in epoca di rivoluzione industriale, quando ai lavoratori si facevano lavorare dodici ore al giorno. Un po’ quello che accade in alcuni paesi asiatici dove si sfruttano le persone al punto che i “dipendenti” dormono in brandine nella stessa azienda in cui lavorano.

Piace che qualcuno riesca ad arrivare alla conclusione che la produttività dipenda dal benessere del lavoratore, ma probabilmente ciò vale solo per alcuni lavori. Nel suo testo “Lavorare con intelligenza emotiva” Daniel Goleman sostiene che la capacità di empatia nei gruppi di lavoratori, dirigenti o sottoposti, determina la qualità del lavoro che viene svolto. Però il mondo non sembra andare in questa direzione. Un esempio per tutti. Nella civilissima Aosta, la Procura ha indagato i due proprietari di un’impresa di autotrasporto perché, approfittando dello stato di bisogno, ingaggiavano in nero degli autisti pagandoli un euro l’ora. Episodi come questo ne potremmo citare decine.

000001Appare evidente che la globalizzazione intesa tanto come facilità/rapidità della trasmissione delle informazioni, quanto come facilità dello spostamento di persone e merci a prezzi contenuti, ha reso talmente grande la concorrenza che i vecchi sistemi di tutela delle persone sul lavoro, lentamente conquistati dalla seconda metà dell’Ottocento in poi, non sembrano più sostenibili. Lavorare meno ha un costo che fa aumentare il prezzo del bene prodotto, per cui la retribuzione del lavoratore è uno dei parametri da diminuire per poter essere competitivi. In alternativa, si aumentano le ore di lavoro a parità di stipendio. E qui torniamo alla questione dell’orario di lavoro. L’orario di lavoro serve al lavoratore. Dire, come fa Branson, che l’orario non conta ma conta raggiungere i risultati è ambiguo. Chi li stabilisce gli obiettivi? Sono obiettivi raggiungibili? Il loro conseguimento dipende esclusivamente dal lavoro dei dipendenti o esistono condizioni e vincoli che possono inficiare il risultato? Non sono domande da poco. 000003In alternativa di un’onesta disamina di questi dubbi appare sempre più concreta la possibilità che si scivoli verso una dipendenza tale dai possessori dei capitali (i ricchi, che siano persone o multinazionali) che in alcuni paesi si concretizza in una schiavitù di fatto.

Siamo sicuri, allora, che nelle entusiasmanti propositi di Branson no si celi una polpetta avvelenata? I dubbi rimangono perché, come diceva un celeberrimo e scaltro politico italiano, a pensare male si fa peccato ma spesso ci si azzecca.

ERRORE IN COMUNICAZIONE SU PIAZZA

Lo scorso 12 marzo, invitato da uno degli organizzatori, vado a dare un’occhiata ad una delle piazze della manifestazione WakeUp Roma. Una mobilitazione di volontari che, con le loro pettorine e armati di attrezzi, puliscono le piazze in questione. Una manifestazione organizzata in collaborazione con l’AMA, l’azienda comunale deputata al decoro ed allo smaltimento dei rifiuti. Io capito, dunque, a piazza di Porta Maggiore.

Già da lontano scorgo i volontari all’opera. Appena passata la porta mi rendo conto che di fronte al gazebo degli organizzatori c’è della gente che protesta. Più esattamente sembrano disoccupati che denunciano l’assurdità della pulizia fatta dai volontari perché – secondo i volantini che distribuivano – quello sarebbe dovuto essere un lavoro affidato a gente come loro, attuali disoccupati: una responsabilità che, a loro parere, andava imputata ai politici al governo della città. Fin qui tutto comprensibile. Poi, però, è cominciato ad accadere qualcosa di anomalo.

Gli striscioni e la posizione dei protestanti era contrapposta al gazebo dei volontari. La prossemica non è un’opinione e la loro posizione indicava chiaramente che erano “contro” gli organizzatori della manifestazione. Non solo. Anche con i megafoni, hanno urlato contro i volontari accusandoli di un comportamento “reazionario” (cosa confermata, poi, nel sito web dei manifestanti. Scrivono: “Una forma corrotta di associazionismo, che spiana la strada, attraverso metodi presuntamente cooperativi, all’ideologia liberista privatizzante ogni settore della vita pubblica gestito dallo Stato (…) Ma Retake non è la risposta allo schifo quotidiano che viviamo: contribuisce, al contrario, alla sua deriva degenerata, ed è per questo che noi oggi siamo andati a dirglielo in faccia contestando la pagliacciata organizzata a Porta Maggiore“). Ma non è finita qui. I manifestanti hanno pensato di imbrattare con la pittura a spruzzo le panchine appena pulite dai volontari (c’era una donna anziana che aveva lavorato alla pulizia della panchina che era sbigottita). Un comportamento che apparentemente non si spiega ma pone una sfida di comprensione.

Il primo punto da analizzare è il presunto oggetto della protesta: l’azione dei volontari evidenzia che a Roma ci sarebbe necessità di più lavoratori stipendiati e deputati alla cura della città. L’azione di Retake [NdR. Il movimento di volontari per il recupero della città, organizzatore dell’evento] è in contraddizione con l’oggetto della protesta? Evidentemente no. Uno dei principi fondanti del movimento Retake non è quello di sostituirsi alle istituzioni, bensì di spingere le persone a comportamenti più civici, ovvero a non sporcare/imbrattare/trascurare la proprio città. Solo in seconda battuta c’è la pulizia straordinaria dei luoghi, secondo il precetto che per avere un comportamento è bene dare l’esempio. E’ palese che i manifestanti di Porta Maggiore non ne siano stati a conoscenza, per ignoranza o superficialità.

Il secondo punto è che le due azioni (pulizia volontaria e proteste) hanno, nella loro intenzione comunicativa, un unico destinatario: la cittadinanza. Entrambi i gruppi, con motivazioni differenti, chiedono l’appoggio dei cittadini. I primi per ottenere lavoro, i secondi per ottenere un comportamento civico positivo. Appare anche in questo caso evidente che le due istanze sono su due piani differenti, pur condividendo il destinatario, e non si escludono a vicenda. Anzi.

Veniamo, infatti, al terzo punto. La contrapposizione, la scelta dell’antagonista, fatta dai dimostranti non può essere frutto del caso. Perché prendersela con i volontari che, ovviamente, non possono dargli lavoro? Semplicisticamente si potrebbe concludere – come fatto dai manifestanti – che i volontari siano diventati strumenti inconsapevoli di organizzazioni superiori, come affermato sempre nel loro sito web: “il fenomeno Retake, il falso associazionismo sponsorizzato dalle multinazionali come Wind, Groupama, Eataly, LVenture Group, e coadiuvato dall’università privata Luiss. Una forma corrotta di associazionismo, che spiana la strada, attraverso metodi presuntamente cooperativi, all’ideologia liberista privatizzante ogni settore della vita pubblica gestito dallo Stato. E’ però una battaglia politica e culturale complessa, perché apparentemente le motivazioni e gli intenti dei “retakers” appaiono di buon senso, forse ingenui ma genuini“. Ma forse c’è dell’altro. Ci arriveremo. Intanto viene facile pensare che, se uno stratega della comunicazione avesse voluto aiutare i manifestanti, gli avrebbe suggerito di schierarsi fisicamente affianco ai volontari, a simboleggiare la continuità tra chi vorrebbe una città più bella e chi è disposto a lavorare per farlo. Probabilmente, lo stratega avrebbe invitato i disoccupati, con tanto di elmetto, ad aiutare i retakers: meglio se facendosi immortalare dagli smartphone e rilanciando sui social network con un #dallastessaparte. Praticamente come fanno quei ciclisti che stanno a ruota del corridore più forte per chilometri e poi, agli ultimi cento metri, si alzano sui pedali e arrivano primi al traguardo.

Quali significati sono “arrivati” alla cittadinanza che avesse avuto modo di assistere alla scena? E quali possono essere arrivati a chi ne ha colto il riverbero emanato dai media informativi e dai social? Sul blog “Roma fa schifo”, da sempre su posizioni molto critiche sulla classe politica che gestisce la capitale, si notava che “Oggi, a proposito di degrado, altri rappresentanti di questa diffusa feccia fatta di poche persone, ma di tante iniziative prepotenti, ha manifestato contro il grande evento Wake Up Roma organizzato dalla Luiss e da Retake a Piazza di Porta Maggiore. “Il vero degrado è la disoccupazione” urlavano cercando di interrompere i tanti volontari impegnati in piazza. Non capiscono, perché sono in cattiva fede e anche perché proprio intellettualmente non ci arrivano, che proprio il degrado è causa e presupposto della disoccupazione stessa“. Uno spettatore che non facesse parte di nessuno dei due schieramenti avrebbe facilmente notato la differenza dei comportamenti dei due gruppi. Il primo faceva qualcosa connotato positivamente (si direbbe prosociale), mentre il secondo era oppositivo e aggressivo.

Il comportamento oppositivo, quando viene portato all’estremo, viene perpetuato anche se palesemente porta danno a chi lo compie. Chi si contrappone per contrapporsi ha bisogno di svalutare l’altro; forse può essere addirittura un disperato tentativo di dare più valore a se stesso, un valore che non riconosce o che teme di perdere se l’altro non è diverso necessariamente da sé. E’ proprio una sostanziale costruzione di identità fatta sull’opposizione. Possibile che chi manifestava fosse inconsapevolmente autolesionista da assumere un atteggiamento che lo mettesse in cattiva luce? C’è un “ma”. Se si danneggia da sé, significa o che non si è consapevoli del danno che si procura o che si ha un tornaconto psicologico maggiore del danno. Probabilmente essi sono convinti di “vincere” questa sfida. Una sfida di cui si può aver bisogno se si ha paura di non percepire di esistere. Più è evidente a “agli altri” il comportamento oppositivo, tanto maggiore sarà il puntello alla propria sofferente identità. Non so se gli oppositori di Piazza di Porta Maggiore siano riusciti a trasmettere il loro messaggio, ma pare più un errore in comunicazione.

Per correttezza ammetto che simpatizzo per i Retake, pur non facendone parte.

MANUTENZIONE CICLABILE

Nel corso delle mie abituali passeggiate, capito su una delle decantate piste ciclabili di Roma. Nelle foto potete constatare lo stato in cui versa quella che attraverso io. Completamente cosparse di aghi di pino, queste piste diventano un reale pericolo per l’incolumità di ciclisti e podisti che provano a sfruttarle. E’ sufficiente frenare che si rischia di finire lunghi per terra. E mentre ci cammino sopra, facendo attenzione a non fare movimenti sbagliati, rifletto su come sia stato possibile far diventare pericolosa una struttura che, invece, dovrebbe migliorare la vita delle persone.
Ciò che manca alla mia pista ciclabile, come alla gran parte della delle strutture costruite per i cittadini, è la manutenzione. Quasi tutto ciò che costruiamo ha bisogno della costante attenzione perché funzioni a dovere. Questa cura dovrebbe essere organica alla struttura stessa: non dovrebbe essere immaginata senza. Invece, nella visione di chi amministra la cosa pubblica, la manutenzione viene mal tollerata, vista come un “peso” che assorbe energie e danaro. In questa visione politica eletto-centrica le iniziative che valgono la pena intraprendere sono solo quelle che possano donare una visibilità immediata, un ritorno d’immagine facile e identificabile.
Per questa ragione la manutenzione costante, giorno per giorno, che appare “invisibile” al cittadino non rende come popolarità. Purtroppo, questa considerazione viene contraddetta proprio dai cittadini che, ognuno alle prese con la propria struttura senza manutenzione, se la prenderanno con l’amministrazione, proprio come ha fatto il ciclista che ho visto scivolare e che, alzandosi, ha esclamato: “sindaco di merda!”. Certo, in quella invettiva c’era tutta la riduzione che il “cittadino semplice” può fare. Però è evidente come diventi necessario che non si separino realizzazioni e manutenzione delle opere che vengono realizzate con i soldi pubblici. Poi, che questa manutenzione silenziosa possa diventare spendibile elettoralmente è solo un problema di “comunicazione”.
C’è un’ultima obiezione che è opportuno affrontare in questo ragionamento. In una metropoli, con la tale quantità di opere pubbliche da mantenere, ci vorrebbe un bilancio spropositato per mantenere tutto al livello ottimale. Un’obiezione che si scontra, però, con ciò che accade con altre metropoli nel mondo che, invece, riescono a mantenere un livello di manutenzione decoroso. Il problema, forse, è da cercare tutto nel grado di identificazione delle persone col proprio territorio. E’ sempre un problema di sentire “mio” anche ciò che è “nostro”: se io evito di sporcare, faticherò di meno a rimettere a posto, come ben sanno tutte le persone che gestiscono una casa. Adottare qualche strategia che la psicologia offre per indurre le persone a curare un pezzetto di città che possiamo sentire anche nostro, promuoverebbe quei comportamenti, quelle piccole azioni, che alleggerirebbero il lavoro di chi è addetto alla manutenzione della città per conto dell’amministrazione.
Ma, mi rendo conto, questa aspirazione costituirebbe la vera rivoluzione del nostro vivere comune nei grandi formicai che sono le nostre città.

WP_20150812_004WP_20150812_005

TRIBUTO PUBBLICO E LAPIDI PRIVATE

La distinzione tra spazio privato e spazio pubblico è sempre una delle dimensioni su cui misurare il livello qualitativo di una cultura, di una società, di un qualsiasi luogo abitato da noi umani. Lo spazio pubblico è il Noi (nostro, di tutti), mentre quello privato è Io (mio, delle persone che percepisco come estensione di me). La cura che si mette nella gestione e nella bellezza (decoro) dello spazio pubblico è una misura del Noi espresso dalla collettività; viceversa, l’abbandono e l’incuria dello spazio pubblico è la misura del disinteresse verso il Noi e, nei casi più estremi, si può arrivare all’occupazione dello spazio pubblico per fini privati. In questo caso possiamo ipotizzare che chi ha questo comportamento disprezza lo spazio pubblico (Voi) in quanto non-mio, quindi ne fa ciò che vuole. (segue)

l43-aldo-moro-brigate-130509135932_big Lapide_commemorativa_small

Vi sarà capitato di notare per strada dei luoghi in cui sono morte delle persone, generalmente in incidenti stradali – dalle autostrade alle strade cittadine – in cui i parenti/amici dei morti hanno apposto dei manufatti-ricordo. Si va dal semplice fiore alla lapide vera e propria. Proprio in questo ultimo caso si può configurare il comportamento che è sopra descritto. Lo spazio pubblico viene usato dalla collettività ponendo monumenti, stele, targhe e altri manufatti come riconoscimento del valore di chi ha fatto qualcosa per la collettività. E’ una decisione delle istituzioni (Noi) che rappresentano tutti (Io). Se, invece, chicchessia piazza una lapide sul suolo pubblico, accade di fatto che viene imposto a tutti (Noi) il ricordo di un fatto privato: e non regge la giustificazione che queste lapidi possono assolvere al ruolo di monito per evitare altre morti, perché si continua a morire (nonostante le lapidi) e poi mancherebbero tutte quelle delle migliaia di persone che non si arrogano il diritto di erigere il piccolo monumento privato.
Tutto ciò di cosa può essere indice? Sicuramente è un segno del ritiro di chi gestisce le istituzioni (Stato, Regioni, Comuni) dalla gestione dello spazio pubblico. Questo comportamento delle istituzioni è uno di quelli che – poi – determina lo “spazio” che vanno ad occupare gruppi, clan, singole persone. Poi si strilla perché si è perso il controllo del territorio.

GITE DI ISTRUZIONE?

Qualche tempo fa mi sono ritrovato a visitare il sito archeologico di Villa Adriana a Tivoli. Il luogo evocava scenari di raffinatezza e maestosità frutto della personalità dell’imperatore romano che l’aveva voluto. Purtroppo l’atmosfera era stracciata dalla presenza di due scolaresche che hanno imperversato per tutto il tempo, agitandosi come palline di un flipper. Mi sono chiesto cosa mai potessero “apprendere” quei ragazzi nelle tre lunghissime ore di quella gita di istruzione. Quando è capitato che mio figlio dovesse partecipare ad uno dei vari campi scuola, la sua eccitazione paventava notti brave e scherzi e lazzi con i compagni, ma nessuna indicazione sui luoghi da visitare. Per completare il quadro, ricordo le parole atterrite di alcuni insegnanti nel dover fare i pastori di greggi esagitati. Dunque, a cosa servono queste uscite?
La teoria afferma che l’uscita di gruppo serve ad integrare ed approfondire ciò che viene svolto in classe. Sappiamo anche che non tutti i ragazzi apprendono allo stesso modo; come anche che esistono delle differenze nelle attitudini intellettive, come notato da Howard Gardner (“Formae mentis. Saggio sulla pluralità dell’intelligenza”; Feltrinelli, 2002). Infine, nella scuola italiana sono consentite attività specifiche destinate a sostenere i comportamenti di cooperazione e aiuto reciproco, i cosiddetti comportamenti pro sociali.
Viene spontanea la domanda, vista la sostanziale scarsa efficienza delle uscite di istruzione attualmente praticate, se siano ipotizzabili altre modalità di uscita. Probabilmente il problema è nel paradigma “tutti insieme”, ovvero il dogma per cui l’istruzione “deve” essere omologata e collettiva. A mio parere, invece, è possibile praticare percorsi per gruppi più piccoli in virtù delle specifiche attitudini dei ragazzi. La socialità potrà essere incentivata in altrettante specifiche iniziative.

LA SCUOLA ITALIANA FA MALE

Meglio leggere prima il post nel link

http://genitoricrescono.com/colloquio-insegnanti-svezia/

Nel link troverete il racconto di una mamma – presumiamo italiana in Svezia – che si incontra con la scuola svedese: o meglio, con le insegnanti e col metodo adottato. Appare evidente che in quel paese tutta l’istituzione scolastica è al servizio del bambino. Questi è al centro di tutto e le differenze individuali sono accompagnate. Viene inevitabile il confronto con la scuola italiana, di cui media e politici si fanno grande vanto ma che, tutti riconoscono, è un po’ in difficoltà. Sarebbe presuntuoso da parte mia pensare di essere esaustivo con un semplice post, ma alcune notazioni è possibile farle.

Se avete avuto modo di ascoltare i racconti dei bambini e dei ragazzi è possibile notare che la nostra scuola si è ridotta ad un costante e spietato esercizio del potere. Quello della politica sull’istituzione, attraverso le continue riforme che non fanno altro che togliere fondi e creare confusione (a prescindere dalla parte politica che le attua). Quello dell’istituzione sui propri manager (una volta detti Presidi), con pretese di quadrature di bilancio e gestione di processi e persone, ma senza delegare, poi, un potere effettivo. Quello dei docenti sugli allievi, attraverso in meccanismo del “giudizio a prescindere” (vedi la vignetta in basso), in cui le differenze delle persone, ovvero degli allievi, non esistono, semplicemente; ma anche attraverso modalità di reclutamento della classe insegnante che genera impiegati dell’insegnamento.
A cosa serve, oggi, la scuola in Italia? Dipende. Ad imparare nozioni, generalmente. Non serve, però, ad imparare come usare le nozioni, cioè come impiegarle nella vita reale. A volte, dipende dalla capacità dell’insegnante, un metodo per risolvere i problemi. Sicuramente la scuola serve ad imparare tutto lo spettro di furbizie italiche generate dalla confusione strategica della stessa.
In un post successivo scriverò di come mi piacerebbe la scuola italiana. Intanto, confortato dalle opinioni, dai saggi e dalle dichiarazioni di addetti ai lavori, posso concludere che la scuola italiana è stata utile fino agli anni Ottanta dello scorso secolo. E’ stata indifferente fino agli anni 2000. Oggi è controproducente, un vero flagello per quelli che dovranno affrontare il futuro globalizzato.

578421_370768863006208_27822704_n

SONO FINITI GLI UOMINI-BANDIERA

Oggi compie 38 anni Francesco Totti, calciatore della Roma per tutta la sua carriera, dalle giovanili ad oggi. Un caso ormai raro quello dell’uomo che si identifica completamente nella “sua” squadra, nella squadra della “sua città”. Se in passato erano frequenti i calciatori che diventavano essi stessi rappresentazione della squadra-città – come Bulgarelli nel Bologna, Mazzola nell’Inter, Juliano nel Napoli, Rivera nel Milan e tanti altri – oggi è diventato rarissimo, apparentemente anacronistico.
Nel corso della sua evoluzione da sport a spettacolo, il calcio ha perso la sua connotazione di identificazione collettiva. Oggi è la norma avere le squadre che schierano un collage di nazionalità in cui uno o due calciatori sono italiani (neanche della città della squadra).
E’ meglio o è peggio? Difficile rispondere se si è in cerca di una verità. E’ possibile, però, comprendere perché le tifoserie (quelle vere, non gli estremisti violenti che si nascondono dietro il tifo) sono diventate così intransigenti con le proprie squadre: appena smette di vincere e convincere partono fischi, scioperi del tifo e mitragliate ad alzo zero attraverso le famigerate “radio del tifo”. Se il calcio è diventato spettacolo, così come un’opera lirica o un concerto, ogni minima stecca, stonatura o imperfezione nella messa in scena, genera fastidio e la sensazione che i tanti soldi spesi non valgano la rappresentazione. Fischi dal loggione, quindi.

Bulgarelli_posterSandro_mazzola_interIulianoRivera_Gianni_02

L’IMMAGINE DI INNESCO

L’IMMAGINE DI INNESCO

Avvertenza: questo sarà un post impopolare.

Durante e dopo la scorsa finale di Coppa Italia, giocata tra Fiorentina e Napoli, si è innescata una polemica ormai abituale della serie “il calcio è ormai allo sbando”. I fatti salienti.

Nelle ore antecedenti alla partita ci sono state delle risse e uno più svitato degli altri ha preso una pistola ed ha cominciato a sparare. Beninteso, uno che con quella partita non aveva a che fare, in quanto (scoperto poi) essere ultras della Roma. Il resto dell’evento fila via abbastanza tranquillo, testimoniato anche dai giornalisti che si sono precipitati in quelle zone. Nel frattempo è cominciata l’opera di “pompaggio” da parte degli altri giornalisti, quelli che erano smarriti a causa del ritardo e che avrebbero dovuto commentare la partita. Il crescendo delle loro filippiche morali faceva il paio al riverbero informativo che tutti i media cominciavano a fare dell’accaduto. Nel frattempo, intorno allo stadio non accadeva più nulla. E dentro lo stadio le tifoserie facevano quello che fanno abitualmente, tra petardi, fumogeni, striscioni, silenzio del tifo e uomini sulle cancellate. Ecco, proprio l’uomo sulla cancellata è diventato il parafulmine. Lui ha incarnato il male, la rappresentazione del degrado su cui scaricare gli strali. Pare che ci fossero trentamila tifosi del Napoli ed altrettanti della Fiorentina. Tutto era calmo, ma per i commentatori sembrava che stesse accadendo una guerra civile. Invitato dalle forze dell’ordine (e pare anche dal Prefetto stesso) il capitano del Napoli è andato sotto la curva a dire, proprio a quegli uomini sui cancelli, che il tifoso non era morto e che potevano stare tranquilli. La cosa è accaduta proprio così. Ed è stata così fino alla fine. Non un altro scontro, non un’altra rissa. La partita è stata decisa sul campo.

Tutto questo è diventato “lo Stato chiede il permesso ai tifosi” (smentito dalla Questura stessa), il criminale sul cancello era un provocatore che generava scontri (ma poi sono uscite le sue foto che soccorreva una persona), i politici presenti allo stadio minacciavano – urbi et orbi – provvedimenti definitivi (tutti a spese delle società di calcio che in questo caso non avevano responsabilità). Insomma, l’hanno buttata tutti in caciara, come si dice giusto a Roma.

La situazione reale qual è? Che il tifo organizzato è diventato il canale di sfogo delle persone violente, in qualsiasi parte d’Italia. Che le società di calcio, che una volta vezzeggiavato questi supporter, oggi ne sono terrorizzate (e vittime). Che i politici sfruttano i vari episodi per apparire come i risolutori (per poi eclissarsi). Che il mondo dell’informazione fomenta abbondantemente questo clima (per poi farsi belli e censurarlo quando danno in escandescenze). Che il pubblico, tutti noi, tifosi o semplici cittadini, pensiamo sempre che sia “l’altro” il problema e che qualcuno deve risolverlo.
No, Genny la carogna, l’uomo sul cancello, è solo lo specchio. Ci rimanda la nostra immagine.

NOMADISMO E VILLAGGIO GLOBALE

NOMADISMO E VILLAGGIO GLOBALE

Questa riflessione parte da un dubbio: è possibile oggi, in un mondo globalizzato, condurre una vita nomade? La domanda contiene un po’ di assunti su cui è meglio ragionare.
Negli ultimi dieci anni si è diffuso il concetto di “villaggio globale”, ovvero la considerazione che lo sviluppo tecnologico ha reso possibile le comunicazioni da un punto qualsiasi del globo ad un altro. Ma non sono solo le comunicazioni intese come trasmissioni di informazioni (computer, telefono, satellite, internet) ad essere state ingigantite, anche gli spostamenti sono diventati possibili praticamente per tutti, dai jet privati ai gommini nel canale di Sicilia. Il Villaggio Globale è un dato di fatto, una constatazione.
Veniamo al secondo aspetto dell’affermazione iniziale, ovvero il nomadismo. Nel corso dell’evoluzione, tanto gli animali, quanto gli esseri umani, gli spostamenti dei gruppi o delle popolazioni avveniva sempre nella necessità di seguire il cibo. Ma spostarsi, come fanno le popolazioni nomadi, comporta i suoi rischi: perdite nella popolazione stessa, problemi lungo i percorsi, mancanza di certezze sull’effettiva presenza di risorse nei luoghi di approdo. Per queste ragioni gli uomini hanno trovato più conveniente lottare per la stanzialità, risolvendo alcuni problemi e trovandone di nuovi.
Quando pronunciamo la parola “nomadi” si materializza nella nostra mente l’immagine degli zingari, rom o sinti che siano, con i loro campi precari e sempre al centro di polemiche e rancori. Però, non sono loro l’oggetto di questa riflessione. Interessa di più il comportamento a monte del nomadismo, ovvero la mancanza di un luogo a cui “appartenere”. A volte si può essere costretti a lasciare il posto dove si è cresciuti ma, anche migrando da un paese all’altro, da una città all’altra, si mantiene quel legame affettivo col luogo da cui proveniamo. Il nomadismo è esattamente il contrario: non si appartiene più a nessun luogo ed in nessun luogo si desidera rimanere più del necessario. Volendo misurare questo concetto con i cosiddetti “campi nomadi”, questi ne sono l’esatta negazione. I campi nomadi sono composti da persone ormai stanziali che migrano solo se minacciati, né più né meno dei profughi di guerra o degli esuli dalle dittature.
Esistono, allora, nel villaggio globale dei veri nomadi?
Se il nomade lo si definisce come colui che rimane nei luoghi fin quando vi trova vantaggio e piacere, allora viene da pensare che i nomadi di questi ultimi trenta anni siano tutti quelli che si spostano inseguendo una carriera, un ingaggio, una promozione. Manager della finanza e dell’industria multinazionale, calciatori, tecnici superspecializzati. Una popolazione che vive negli alberghi, nelle case ammobiliate, in treni ed aerei.
Io ne ho conosciuto qualcuno.

DARE L’ESEMPIO

DARE L'ESEMPIO

Mi perdonino i tifosi romanisti, ma l’episodio è esemplare. Nella partita Cagliar-Roma del 6 aprile il giocatore della Roma, Mattia Destro, rifila un cazzotto ad un avversario durante una fase di gioco. L’arbitro non se ne avvede e sanziona con un’ammonizione il giocatore del Cagliari che accenna una reazione, mentre il giocatore della Roma stramazza a terra fingendo di essere stato lui a ricevere il fallo. Malauguratamente per il giocatore della Roma, le telecamere registrano l’episodio e la sua azione si distingue perfettamente. La cosiddetta “prova tv” viene usata dal giudice sportivo per condannare il giocatore, reo del pugno, a quattro giornate di squalifica. Fin qui è la cronaca.
L’esempio di cui accenno nel titolo è il ricorso che la società Roma fa contro la condanna. L’azione violenta del giocatore è incontestabile e nota ormai a tutti. Ricorrendo in appello, invece di fare pubblica ammenda condannando il comportamento del proprio giocatore, la società afferma implicitamente che è dalla parte di chi si comporta in modo violento. La deriva sociale si coglie anche in episodi come questo.

INSEGNARE NON E’ GIUDICARE

INSEGNARE NON E' GIUDICARE

Il sistema formativo di una nazione corrisponde al grado di civiltà raggiunto da questa. Non solo. I sistemi di valutazione dovrebbero servire agli insegnanti per capire dove stanno sbagliando, non dove sbagliano gli allievi. Affronterò ancora l’argomento in futuro. Un tema fondamentale per la crescita di qualsiasi comunità.