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APPUNTI AMERICANI

La mia idea dell’America con la tara di Roma

Quest’anno mi sono lanciato in uno dei classici delle vacanze transoceaniche: gli Stati Uniti. Il grande paese americano è talmente presente nella cultura occidentale che inevitabilmente si forma nella mente “una certa idea di America”. Un’idea fatta principalmente di televisione, poi di libri e film. Infine, un’idea fatta dalle chiacchiere delle persone che hanno la loro idea di America e di notizie che ci piovono addosso. Ho preso nei giorni trascorsi nelle tre città visitate degli appunti fotografici. Nelle mie lunghissime passeggiate a Boston, New York e Philadelphia, notavo situazioni che generavano il mi stupore o la mia perplessità. Ve li girerò qui con l’avvertenza che dovrete fare la tara perché il mio livello di “civiltà vissuta” è quello della Roma odierna. Quindi…

L’ossessione per le bandiere e l’identità

Una delle prime cose che mi sono saltate agli occhi nelle città che ho visitato sono state le bandiere. C’è una presenza ossessiva delle bandiere stelle e strisce. Case, autopompe dei pompieri, autobus, negozi, oltre che davanti agli edifici istituzionali. Addirittura sulla facciata di un palazzo in ristrutturazione a coprire le impalcature. Mi sono domandato a cosa rispondesse questa necessità di esporre la bandiera. Semplicisticamente potrei dire che è una forma di orgoglio, ma si è insinuato il dubbio che la necessità di affermare pubblicamente e ossessivamente la bandiera possa essere anche l’esito di un sentimento fragile di identità.

Lo stupore da grattacielo e l’assuefazione

Una delle immagini più forti che hanno costruito l’immagine collettiva degli Stati Uniti sono i grattacieli. Dal film King Kong a Manhattan di Woody Allen, passando per tutte le serie tv degli ultimi trent’anni, lo skyline delle città americane ha sempre caratterizzato la nostra concezione di America. Poi, quando ci sei dentro non puoi fare a meno di stare sempre col naso all’insù e percepire l’enormità di queste costruzioni. Però mi sono accorto che sono bastati un paio di giorni per smettere di guardare in alto e tornare al livello del suolo. Tutto ciò che è realmente importante (auto, negozi, chioschi, persone) sono a terra, quindi ci si abitua: anche ai colossi.

Giochi per bambini a disposizione senza vandalismi

Accennavo nel post di apertura al fatto che il mio metro morale parte dallo standard medio italiano che possiamo situarlo tra Bolzano e Siracusa. Il mio è tarato su Roma (purtroppo). Per questa ragione potrete capire il mio stupore nel vedere, in tutte le città che ho visitato, che in vari giardini e altri luoghi della città sono state piazzati dei giochi per i bambini e (qui lo stupore) erano aperti, a disposizione di tutti ma, soprattutto, non rubati e non vandalizzati. Questo mi ha dato una drastica misura della distanza con quella concezione di “proprietà collettiva”.

I lucchetti di Moccia a Philadelphia con variazione di recupero

Ancora lungo la linea dello stupore per la coscienza civile, a Philadelphia ho notato che l’amministrazione aveva fatto installare, a ridosso dell’attracco di alcune navi storiche, delle grate per assecondare la voglia di lucchetti d’amore (maledetto Moccia, ma sei tu la causa di questo stupida abitudine in mezzo mondo?). Ma la differenza c’è perché la stessa amministrazione ha piazzato sotto le grate delle cassette per recuperare le chiavi così da recuperare i lucchetti ed evitare costi e inutili inquinamenti. ok, le simbologie cambiano, ma si può fare questo sforzo sentimentale.

Il senso della Storia e il sasso di Plymouth

Molto spesso si accenna – con una venatura snob – che gli Stati Uniti sono una nazione che ha poca Storia. E’ vero che nascono come nazione solo nel 1772, ma da allora hanno avuto una storia tumultuosa. Nel mio viaggio, però, mi è capitato di vederla concretizzata. Ho visitato la località di Plymouth, vicino Boston, famosa per essere stata il punto di approdo della nave Mayflowers che portava i padri pellegrini che avrebbero fondato le prime colonie. Sul lungomare c’è una sorta di tempietto che fa ipotizzare qualche resto importante. Beh, c’è un sasso che le guide raccontano essere risalente “probabilmente” allo stesso periodo dello  sbarco dei coloni. Dunque, ognuno racconta la Storia come può e, in casi come questo, si passa dalla storia allo storytelling

 

Il senso della Storia e il museo di Ellis Island

L’immigrazione è un tema molto attuale e, se oggi la subiamo, in passato ne siamo stati protagonisti. Ad Ellis Island, a pochi minuti di traghetto da New York, c’è il museo che racconta il fenomeno degli emigranti che sbarcavano dai piroscafi alla ricerca di fortuna nel Nuovo Mondo. Una tenue emozione mi ha preso nel ricostruire le vite di tanti italiani (e non solo) che venivano visitati, registrati, verificati prima di essere fatti sbarcare proprio in terra americana. Una storia che per noi italiani ha densi significati, Ed infatti erano proprio tanti i turisti italiani che giravano e commentavano per le sale del museo.

Convivenza ed estremi sociali

Questa foto potrebbe raccontare di rappresentazioni sociali, di contrasti di classi o di altre cose simili. Non posso generalizzare. Ho visto troppo poco. Però questo scatto mi ha mostrato plasticamente come, spesso, le differenze hanno una breve distanza, una vicinanza che stupisce.

 La statua di Rocky e l’identità cinematografica

Ci sono luoghi che rimangono nella memoria pur non essendoci mai stati e che, magari, ci sono stati narrati. La narrazione del Novecento, oltre i libri, si è arricchita delle arti visive: fotografia, cinema e televisione. Io Philadelphia la conoscevo per i formaggio e per la scalinata di Rocky. Immancabile, a Philadelphia c’è la statua di Rocky proprio affianco alla scalinata che si vede nel film. Siamo al Museo d’Arte e diligentemente in fila ci sono le persone che aspettano di farsi un seflie affianco alla statua di una persona che non esiste, se non nel nostro immaginario.

 Troppi giovani obesi

Abbiamo spesso sentito che uno dei problemi di salute più accentuati negli Stati Uniti è l’alimentazione. Personalmente, ho fatto molta fatica a mangiare meno “junk food” possibile ma è un’impresa difficile. Così ho potuto constatare come sia consistente la percentuale di giovani obesi che si vedono per strada. Dunque, questo stereotipo mi è stato confermato dalla realtà.

 Simbolismo involontari, dal campanile al grattacielo

I campanili delle chiese, soprattutto quelle gotiche, sono alte e a punta, per elevarsi verso il Cielo. Ma il tempo ha cambiato molte cose e nelle city d’America ben altri edifici si sono innalzati verso il cielo. Il Dio del dollaro sovrasta ormai il Dio della fede (forse).

Arredi urbani ed assenza di vandalismo

In ogni città che ho visitato, almeno nelle zone centrali attraversate da noi turisti, ho visto una cura puntuale degli spazi e degli arredi. Tutto in ordine, tutto pulito e  – soprattutto –  nessun vandalismo. Non so la ragione di questo risultato, ma qualcosa mi fa sospettare che ciò è possibile innanzitutto perché le persone non rompono, sporcano, sottraggono. E qui torniamo alla tara di civiltà a cui accennavo nel primo post della serie.

 Marciapiedi grandi

I telefilm americani che giungevano sui nostri televisori, oltre alle immagini delle enormi auto che scorazzavano per le avenue, ci mostravano anche dei marciapiedi grandi, Li ho ritrovati e ne ho assaporato la confortevolezza. Un segno evidente che i modi americano  – anche quelli urbani –  sono cresciuti avendo molto spazio. Un’apparente contraddizione se pensiamo ai centri zeppi di grattacieli che, invece, sfruttano al massimo il minor suolo possibile. Queste ed altre apparenti contraddizioni dagli States.

 

Infermieri in divisa per strada e in metro

Questa faccenda mi è piaciuta meno. In tutte e tre le città che ho visitato (Boston, New York e Philadelphia) gli infermieri giravano per strada, andavano in metro (quindi si sedevano) portando la divisa di lavoro. L’ho trovato antigienico e un segno di scarsa attenzione verso gli ammalati. Magari, però, esagero.

Commercio vs monumento e i caso del Rockfeller center

“Andiamo a vedere il Rockfeller Center”. Ah si, quello che si vede la statua dietro la pista di pattinaggio nei telefilm. Questo è lo spettacolo che mi è apparso arrivato lì. Io capisco che il commercio predilige i posti più belli per poter attirare i clienti, ma è come se a Roma avessero messo ombrelloni enormi e tavolini intorno alla fontana della barcaccia del Bernini, a piazza di Spagna. A volte qualcuno si fa prendere la mano, anche a New York.

Le fontane e la necessità di far giocare i bambini

I bambini sono molto considerati. Ho accennato in un post precedente all’abbondanza di giochi lasciati a loro disposizione nei parchi. Un altro elemento caratteristico sono le “fontane praticabili”. Queste sono al livello del selciato ed è consentito ai bambini di scorazzare a piacimento tra i getti (nessun adulto prova ad entrarci). Addirittura, nella foto c’è una sorta di laghetto-fontana nel parco al centro di Boston in cui sono stati piazzati addirittura del bagnini che controllano che nessuno faccia cose pericolose.

Homeless e poveri

I poveri sono poveri. Sono uguali dappertutto. La nostra società occidentale ha dei criteri di “centrifugazione dei deboli” che variano e la casa è uno dei campi che rendono evidente la povertà. Nelle città che ho visitato non sono mancati gli homeless, ma soprattutto a Philadelphia dove erano numerosi anche nella parte turistica, la old town.

Riconversioni urbane

A New York sono riusciti a far diventare un’attrazione turistica un piccolo tratto della sopraelevata su cui correva la metropolitana. Vicina alla City, la High Line è stretta ma superaffollata, non c’è nulla di particolare: né una vista particolarmente bella, né un caffè, né attrazioni particolari. E’ affollata solamente perché si cammina su un manufatto urbano riconvertito. E’ modernariato ed è uno di quei luoghi particolari che puoi affermare con orgoglio, al ritorno, di aver visto.

La sacralità del pedone

Questo, e non altri, è l’aspetto più importante che ho riportato indietro nel mio viaggio negli Stati Uniti. In ognuna delle tre città visitate, in ogni luogo e quartiere, appena accennavi ad avvicinarti alle strisce pedonali, le auto si fermavano, ben lontane dalle strisce. All’inizio mi sono goduto la meraviglia di questo comportamento rispettoso. Alla fine mi sembrava così naturale che guardavo solo distrattamente, ogni volta che attraversavo la strada, se le auto fossero ferme. Beh, è stato un insegnamento ed ora, tornato in quel frullatore di traffico che è Roma, mi accorgo che quando guido faccio molta più attenzione di prima ai pedoni. E’ proprio vero che l’esempio vale mille spiegazioni.

Note finali in ordine sparso

Per concludere questi appuntamenti con le mie finestre sull’America, delle piccole note. Nella mia idea di America, quella mutuata un po’ anche dai telefilm alla Happy Days, come elemento caratteristico c’era il bowling. Non ne ho visti.

Il senso di calma che ho percepito nel traffico di Boston e Philadelphia probabilmente dipendeva dal ritmo lento del traffico.

La vendita al dettaglio di generi alimentari è sfilacciata. Tanti negozi che vendono un po’ di tutto ma niente di esaustivo (giusto qualche mercato) e con notevoli confusioni merceologiche (si vende insalata dove si vendono i farmaci). Rarissimi i posti dove acquistare pane fresco.

Treni e metro non hanno i vagoni imbrattati dai tags dei writer.

A New York ho notato più coppie omosessuali che si scambiavano effusioni in pubblico che coppie etero. Come ancora, nella Grande Mela ho percepito forte l’eterogeneità etnica degli abitanti. Sembravano esserci tutti, ma proprio tutti.

Con questo post si chiude il mio taccuino di appunti. Se vi è piaciuto, gratificatemi col vostro like.

 

 

 

TURISTIZZAZIONE DEI CENTRI STORICI

Non so se voi ci siete stati. Io sono andato a Venezia un paio di volte. Nel tratto dalla stazione ferroviaria a piazza San Marco mi è sembrato di essere nei corridoi della metropolitana all’ora di punta. La folla ha un suo movimento, una sua cadenza. Ma, soprattutto, non ci si può guardare intorno. Si viene sospinti inevitabilmente e badiamo a non urtarci con gli altri. Venezia, poi, negli ultimi anni è diventata, in sostanza, un parco tematico. La gente scende dai treni o

dalle navi da crociera alte il doppio della basilica di San Marco e brulica per le calli. L’effetto collaterale di questo fenomeno è stato che gli abitanti di Venezia sono migrati a Mestre o si sono sparpagliati per le isole minori della laguna, quelle fuori dagli itinerari della massa turistica.

Venezia è un caso limite, ma possiamo verificare lo stesso fenomeno in città come Firenze o Roma, in piccoli centri come Gradara o San Marino, o piccolissimi come Civita di Bagnoregio o Calcata che ho visitato di recente. Tutti questi centri storici sono stati progressivamente interessati da un fenomeno che chiamerei di turistizzazione. In pratica, quando un centro storico comincia a diventare meta del turismo  – quel turismo globalizzato per cui qualcuno parte da Haifa in Israele ed arriva a Scicli in Sicilia per vedere l’ufficio di quel Montalbano delle fiction televisive –  lentamente si compie un processo di adeguamento sociale che mira a generare guadagni da questa massa di persone: quindi, ai tradizionali negozi si sostituiscono, gelaterie, fast food, piadinerie, souvenir, cambiavalute, bancarelle varie, oltre che ristoranti, osterie e wine bar. Non finisce qui. Come accenna prima per Venezia, gli abitanti storici della zona vengono progressivamente centrifugati per fare posto ad altri. A Roma, il famoso quartiere di Trastevere ha visto la sostituzione delle proprietà e degli abitanti.

Esiste il rovescio della medaglia, soprattutto per i piccoli centri che vengono travolti dal peso del turismo in termini di risorse: serve più acqua, più pulizia, più sicurezza, più strutture sanitarie, più accoglienza alberghiera. L’economia si trasforma per far fronte a questa massa di persone che viene a “godere” di quella che era la nostra casa.

Chiedersi se tutto ciò sia un bene o un male è una domanda retorica. Il fenomeno è ormai consolidato e la globalizzazione  – soprattutto per quanto riguarda la facilità e economicità degli spostamenti –  sembra un fenomeno crescente. Crescente e, probabilmente, irreversibile. Non riesco a ricordare un solo caso di un luogo che abbia rinunciato al turismo per tornare ad un’economia locale. Forse solo una catastrofe potrebbe rallentare o fermare questo fenomeno.

Esiste, infine, una discreta quantità di persone che sono insofferenti alle folle e che, per potersi godere uno spicchio di solitudine (specie se provenienti da una metropoli) vanno in cerca di luoghi con poca gente, generando fatalmente la turistizzazione della pampas argentina, del Polo Nord e forse un giorno della Luna.

 

ANCORA IMPRESSIONI DA LONDRA

Sono stato a Londra per la terza volta e la mia percezione della città si sta facendo più approfondita. Condividerò con voi quelle impressioni che ho potuto fermare con una fotografia.

 

Sarà la conseguenza dei bombardamenti degli aerei nazisti nell’ultima guerra mondiale, che hanno distrutto pezzi importanti della città, ma il panorama degli edifici mi ha confermato quell’impressione di una gran confusione. Accanto a idee che arredano un palazzo che, altrimenti,  resterebbe anonimo,troviamo delle vie ottocentesche che vedono il grattacielo puntare dei tetti.Ma può accade anche di trovare delle magioni che sembrano uscite direttamente da un film di Henry Potter.

Per ritrovarsi nella Londra dei londinesi basta uscire dalla Zona 1 ed arrivare ai margini della Zona 2. Ecco le case a schiera che furono prese in giro anche in uno dei fumetti di Asterix.

Ma nella City si può arrivare anche a vedere delle case “circondate” come questa. Quando l’ho vista mi sono domandato quali emozioni provassero gli abitanti di quella casa: orgoglio o soffocamento?

A proposito della City, il cuore pulsante delle attività economiche britannici, sotto il palazzo della Bloomberg si trovano i resti archeologici di un tempio dedicato al dio Mitra. Poca roba rispetto a quello a cui ci ha abituati l’Italia, ma ben curati e, soprattutto, visitabili gratuitamente, in un allestimento ipertecnologico che restituisce suggestione del luogo di culto.

E passiamo a qualche curiosità sull’inglesitudine. La prima sottolinea il sottile umorismo nel chiamare due strade adiacenti “Ave Maria lane” e “Amen corner”. Poi, in Trafalgar square hanno modificato i semafori inserendo i simboli di tutti i sessi possibili al posto del classico omino, in una versione inutile del politically correct ma forse con intento umoristico.

Sono stato anche al cimitero di Highgate in cui si conservano le spoglie di Karl Marx. Mi aspettavo di trovare qualche “pellegrino” e ne ho trovato più di uno, anche giovani.

Per chiudere, due immagini che, a mio parere, raccontano bene una certa aria di Londra

 

TURISTI VS. VIAGGIATORI

Nel numero del 15 dicembre 2017 de L’Internazionale ho notato un articolo molto interessante dal titolo “Il dilemma del turista” a firma di Stephan Sanders. Dal momento che mi diletto in articoli sulla psicologia del viaggio, mi è sembrato imprescindibile leggerlo. Inevitabilmente sono nate molte riflessioni che condividerò con voi.

Inizialmente mi sono chiesto cosa differenzia un viaggiatore da un turista? Sicuramente la motivazione, ovvero la ragione per cui le persone si spostano da casa propria, dalla propria città o paese. Penso che il viaggiatore abbia un qualcosa da fare in un altro luogo e che, quindi, affronti lo spostamento come prezzo inevitabile. Ciò non toglie che, lungo il percorso, egli non possa approfittare di quanto possa incontrare: da vedere, da ascoltare, da assaggiare e, ovviamente, da disprezzare. Il turista, invece, ha come prima motivazione la ricerca dello stupore, intesa come deliberato inseguimento di ciò che ci procura meraviglia, che ci sorprende, che ci risulta nuovo. Tutto ciò che, insomma, riesce a modificare la nostra attenzione procurandoci emozioni. È facile intuire che queste due motivazioni generino due comportamenti differenti, anche se negli ultimi decenni la differenza si è molto attenuata.

In realtà storicamente il Viaggio è lentamente diventato una sorta di  prototurismo. Se nell’Ottocento i ricchi e i nobili viaggiavano (faticosamente, visti i mezzi di trasporto dell’epoca) nel secondo dopoguerra, col crescere dei redditi delle famiglie in virtù del lungo periodo di pace, è cresciuto quel senso di diritto alla felicità che rappresentano le vacanze. E se i nostri genitori vedevano il trasferimento verso le case al mare o in montagna come il meritato viaggio annuale, i loro figli  – noi –  siamo cresciuti col mito del viaggio come affermazione di indipendenza e, dato che eravamo assolutamente squattrinati per poterlo fare come i ricchi borghesi, inventammo l’autostop.

Cosa ci spingeva ad affrontare i disagi e i rischi del viaggio in autostop o con la famosa carta Interrail? Sicuramente la voglia di conoscere luoghi e genti nuove (meraviglia), ma anche il desiderio di rompere la routine. Sfuggire alle azioni abituali, alle incombenze quotidiane e sperimentare quel senso di libertà che dà il viaggiare. Tutte queste sono motivazioni da viaggiatore.

Esiste, però, il comportamento omologante – figlio dell’invidia – di quelli che pensano: “se lui è stato bene nel viaggiare, lo voglio fare anche io. Lo posso fare anche io”. Questo tipo di motivazione ha un implicito corollario, ovvero che si deve mostrare agli altri la prova della propria capacità turistica. Ecco che la tecnologia viene in soccorso e, se un tempo bastavano le cartoline spedite dai luoghi visitati (i più tecnologici ci rifilavano le raccapriccianti serate di proiezione delle diapositive), oggi la connessione globale ci fa sentire obbligati al selfie-testimone che ci permette di dire “guardami, sono qui. Non provi un pizzico di invidia?”.

La propagazione di questo comportamento, quasi come una pandemia, ha generato il “turista di massa” che già nel 1958 Hans Magnus Enzenberger aveva teorizzato nel saggio Una teoria del turismo. Questo tipo di turismo è quello che devasta le città d’arte e che le trasforma in banali Luna Park. Questo tipo di turista è quello che guarda sfuggevolmente ciò che gli si para davanti. È quello che si accontenta di vedere i monumenti a bordo di un bus scoperto in movimento. È quello che, pur di poter andare nei posti (viaggiare è una parola grossa) mangia il panino portato da casa, lasciando tonnellate di rifiuti.

Esiste, però, un macroscopico effetto collaterale al turismo di massa, come nota anche Stephen Sanders nell’articolo: “Noi turisti portiamo soldi nei luoghi dove andiamo e, soprattutto, ce ne torniamo a casa in un asso di tempo ragionevole. Forse a livello individuale, ma a livello collettivo siamo diventati una forza di occupazione che nelle grandi città europee non si limita ai periodi di vacanza (…) Ci sono i cittadini che vedono quello che una volta era il “loro centro”, la loro piazza o agorà, ormai sotto il controllo di un gruppo di estranei di passaggio che non si affeziona e non stabilisce alcun legame, ma vive nella prospettiva del viaggio di ritorno“. Infatti, stanno cominciando i movimenti di protesta contro i turisti, italiani e stranieri perché, non solo sporcano e rumoreggiano, ma tornano. Se hanno apprezzato un luogo cercano di tornarci ancora, fino a prendere il posto degli abitanti locali. Per esempio, Londra è la quinta città “italiana”. Ma accade anche il contrario. I turisti facoltosi si innamorano di un quartiere come Trastevere o di un casale in Toscana o sul lago di Como ed ecco che, approfittando della crisi, i nuovi proprietari allungano l’elenco dei cittadini “due settimane all’anno”. Io penso che un viaggiatore non cerca di appropriarsi di un luogo transitandolo o comprandolo, ma vivendolo come un proprio arricchimento attraverso le vite e le opere altrui.

Forse è questa la differenza tra il viaggiatore e il turista.

VISITANDO BUCAREST

Nell’immaginario collettivo la Romania ha una scomoda connotazione perché subisce lo stesso trattamento che avevano, prima di loro, gli albanesi, soprattutto determinato dalla consistente prostituzione di ragazze rumene (uso la vecchia accezione con la “u”) sulle nostre strade. A questo contribuisce anche la vaga conoscenza che gli “zingari” siano frequentemente dei rumeni. Nel mio caso si aggiunge qualche reminiscenza storica che vede i rumeni al fianco di Germania e Italia durante la seconda guerra mondiale; ma anche che la Dacia fu terra di conquista e di confine dall’imperatore Traiano in poi.

Il mio viaggio a Bucarest  – o Bucuresti, come scrivono loro –  comincia con un arrivo all’aeroporto di Otopeni in tarda serata e, in previsione di questo arrivo letteralmente al buio, si è deciso di ricorrere ad una macchina con autista procurata dallo stesso albergo. Attraverso i finestrini ho visto lo scorrere di grandi viali ed ho cominciato ad ascoltare il suono della lingua attraverso la radio accesa. Non ho avuto una prima impressione definita e questa sensazione mi è tornata nei giorni successivi.

Il giorno dopo, alla luce di uno splendido sole, ho cominciato a camminare per i grandi viali di Bucarest. Quando dico “grandi viali”, dico proprio grandi. Sembravano quelli parigini, con tanto di Arco di Trionfo (celebrativo della vittoria nella prima guerra mondiale). Le pagine della guida mi hanno confermato che proprio la capitale francese ha spesso ispirato gli urbanisti rumeni al punto che all’inizio del secolo scorso veniva chiamata la Parigi dell’Est.

Le mie camminate hanno girato la zona centrale in lungo e largo e devo confessare un certo spaesamento. Bucarest manca di un vero centro storico, se non si vuole considerare la zona turistica standard dei ristoranti di via Lipscani. Le varie piazze, chiese e giardini sono molto distanti tra loro e la rete metropolitana, ideata per gli spostamenti operai da un lato all’altro della città e non per chi andava a lavorare/frequentare il centro, non aiuta a costruire un unico filo rosso.

I palazzi sembrano il risultato di una personalità multipla. Il vecchio rimane qua e là, seminascosto, vittima della furia urbanistica dello sventramento di Ceausescu. Questo ha fatto seminare i viali di enormi condomini che oggi appaiono mediamente “sgarrupati”. Come in molte grandi città, è sufficiente allontanarsi dalle zone centrali per notare i primi accenni di degrado in forma di immondizia abbandonata. Poi ci sono i palazzi in vetro ed acciaio che inseguono un dinamismo moderno e che, per certi versi, mi ricordano gli arditi accostamenti di Londra. Ho visto molti parchi cittadini ma pochi runner urbani.

Quando vado in altri luoghi, siano in Italia o all’estero, mi piace riuscire ad interpretare il ritmo della città. Uno degli aspetti che contribuisce a darmi questa sensazione sono i suoni. Il primo suono che si è imposto a Bucarest è lo strombazzare dei clacson delle auto. Gli automobilisti lo usano un po’ come noi italiani una ventina di anni fa: praticamente un intercalare nel traffico. La sensazione ritmica è di una città mossa ma non frenetica. Nella piazza sotto il palazzo del dittatore, attrezzata per il Natale, la sensazione era di una festa per chi ci vive, non per i turisti (pochi e facilmente identificabili).

Infine, elemento imprescindibile, sono le persone. Pur muovendomi in un ambiente che tentava evidentemente di inseguire una modernità all’americana ancor più che all’europea, mi è sembrata un’umanità sobria. Anche la gioventù  – generalmente più agitata anche nei modi di apparire –  è quella che ci si aspetta in una delle tante capitali dell’Unione Europea. Contrariamente ad uno dei nostri stereotipi, non ho riscontrato la presenza di “zingari”: non so se per effettiva assenza o per azioni di contrasto delle forze dell’ordine. E’ stata forte, invece, la constatazione della padronanza diffusa della lingua inglese con ottimo accento e, per noi italiani, è sempre una sorpresa notare di quanto sia diffusa la conoscenza della lingua dei viaggiatori in altri paesi.

Nel suo complesso, questa escursione a Bucarest mi ha dato l’impressione di una città in marcia verso un’omogeneizzazione con gli standard europei, anche architettonicamente, molto più tendente all’immagine di un futuro che hanno evidentemente introiettato. La presenza di tanti negozi delle catene più diffuse in Europa mi hanno fatto pensare ad una Romania terra di conquista di imprenditori più o meno tranquilli. Una gita in una memoria di come eravamo noi italiani qualche anno fa.

  

  

VISIT STOCCOLMA

Per chi, come me, ha vissuto gli Anni Settanta, quelli in cui una bella e bionda svedese (Solvi Stubing) impersonava lo stereotipo di ragazza svedese, ma anche gli anni in cui le svedesi erano al top dei desideri dei vitelloni della riviera romagnola, era inevitabile che nella mia mente ci fosse l’eco di questo stereotipo. Ma la Svezia è anche il paese, unitamente alle altre nazioni scandinave, che rappresentavano lo “stato sociale” per eccellenza, quello che vede un prelievo fiscale del 50% ma che ha tutti i servizi efficaci e per tutti. Un paese di doveri ferrei ma di diritti consolidati. Il paese dei premi Nobel e del premier Olaf Palme assassinato, il paese della Volvo e della Ericsson. La Svezia, dunque, era molte cose nella mia mente prima che vi arrivassi. Poi ci sono arrivato e vi racconto le mie impressioni.

Stoccolma è una città nata relativamente tardi, in tardo Medio Evo (1252), e nasce su una serie di isole e promontori in un mare interno. Il nucleo più antico è su un’isoletta (Gamla Stan) ma si è successivamente espansa sulle isole circostanti. Questa conformazione è stata ciò che ha reso più difficile la mia “comprensione” della forma della città. Siamo abituati a città che si sviluppano su un “centro” storico e sulla stratificazione successiva delle aree pi recenti secondo un andamento ad anelli. Stoccolma, invece, è una città-arcipelago, pluricentrica. La manifestazione più eclatante è la compresenza di un centro”commerciale-lavorativo” nella zona della stazione centrale dalle discutibili forme architettoniche. Una zona, impersonata dalla piazza Sergel Torg, che ho trovato francamente brutta nella sua idea stilistica, dalle linee dure tipiche di una certa architettura Anni Settanta e, a detta degli stessi abitanti di Stoccolma, non bella (la chiamano “la piastra”) e poco funzionale.

L’uso dello spazio urbano è una delle prime caratteristiche che mi sono apparse evidenti. Le strade sono larghe e sono larghi i marciapiedi, spesso alberate. Questo impiego dello spazio è quello che ha consentito con facilità la creazione delle piste ciclabili, oltre che la relativa assenza di forti dislivelli. Le biciclette sono largamente impiegate, anche se non si arriva all’uso massiccio di una città come Amsterdam. In comune, invece, con tutti i paesi del profondo nord è la ricerca estrema della luce naturale. Le ampie finestrature di tutti gli edifici lo testimoniano forte. In molte abitazioni le superfici vetrate coprono l’intera parete esterna, alla ricerca della luce.

La luce è anche uno degli aspetti che colpisce chi viene da latitudini più basse, come noi mediterranei. Colpisce che la notte non sia buia nei periodi estivi, ma solo con la luce attenuata. Invece, quando il cielo è plumbeo per le nubi, col tipico cielo invernale dei paesi nordici, si ammanta tutto di una monotonia cromatica. Ma quando il cielo è sgombro dalle nubi il sole dà vita ai luoghi e agli svedesi. Escono i colori e gli abitanti si lanciano all’esterno, che siano i generosi balconi delle loro case o gli spazi comuni. Spazi, questi ultimi, numerosi e soprattutto integri: non una panchina rotta o oltraggiata, non una canonica carta per terra, non un bus o una carrozza di un metrò imbrattato. Anche o tag dei writer sono pochi e visibili andando verso le periferie.

Un altro aspetto che ha risuonato in me è la passione per il mare. Andare in barca è una passione che diventa evidente proprio per la forma arcipelago della città. Se, andando su uno dei barconi in gita, si osservano le varie case, si scorgono in tutte le barche che sono ormeggiate, segno di una familiarità con l’elemento marino che li unisce ai popoli mediterranei.

Il panorama antropologico della capitale svedese è comune a tutte le grandi capitali occidentali, con un multiculturalismo evidente e con gli altrettanto evidenti tentativi di integrazione: soprattutto per quelli che vengono da zone africane o mediorientali: li vedi tra gli operai, tra gli autisti dei bus, nei ristoranti e caffè. Addirittura gli zingari sono più curati di quelli che incontriamo nelle nostre strade. Ritornando, poi, agli stereotipi presenti nella mia mente prima di questa visita a Stoccolma, mi aspettavo di trovare i famosi biondi svedesi in numero preponderante, ma non è stato così. Solo a partire dal pomeriggio del sabato li ho visti abbondanti ed ho concluso che non li avevo visti perché tutti impegnati nei loro lavori.

Particolarmente evidente, invece, a qualsiasi ora e in qualsiasi giorno, l’onnipresenza dei passeggini. Sono dappertutto e con una quasi paritaria divisione tra madri e padri. Assieme ai praticanti di jogging (anche questi a centinaia), i passeggini sono i veri padroni di marciapiedi e bus. Non si vedono bimbi in braccio ma solo qualche marsupio per quelli più piccoli.

Infine, assolutamente fondamentale nel senso di identità di un popolo, gli svedesi sono praticamente bilingui: tutti, ma veramente tutti, parlano l’inglese.

Infine, chiudo queste considerazioni su Stoccolma, con un cortocircuito che nella mia mente hanno fatto due elementi. Il primo è stato il discutibile stile delle tappezzerie e arredamenti di Ikea (simbolo moderno di svedesità) e il secondo è stata la mancanza di bellezza della città, tanto negli elementi architettonici quanto negli arredi urbani o degli interni. Al contrario di Londra che negli anni ha fatto largo usa della creatività degli stranieri, a Stoccolma sembra tutto ciò che è Made in Sweden non spicchi per bellezza, lo testimonia il loro monumentale Municipio.

LA STRANA MALTA

Appena sotto la Sicilia, Malta galleggia nel Mediterraneo e, assieme a Lampedusa e Pantelleria, è una sorta di guado naturale tra l’Africa e l’Italia. Come tale è stata vissuta da tutte le popolazioni che vi sono approdate nel corso dei secoli. Più modestamente, vi sono arrivato anche io con l’ambizione di godermi una piccola vacanza e con la curiosità di scoprire un nuovo luogo, nuova gente, nuovi costumi.

La prima impressione del paese che ti accoglie, quando si viaggia in aereo, viene data dal tragitto dall’aeroporto al proprio hotel (o alla casa). Nel mio caso un tassista maltese mi ha shakerato per bene con la sua guida a scatti. Sono riuscito, comunque a guardare lo scorrere delle case e subito è balzata alla mia attenzione la pietra di Malta: una pietra di un giallo-ocra uniforme. Gran parte delle costruzioni hanno questa pietra a vista e l’uniformità del colore mi ha fatto imprimere un’impressione di monotonia del paesaggio urbano. Ma la dinamica edilizia non si è fermata a questa impressione. Ne parlerò più avanti.

Sono sceso nella zona del turismo massiccio, ovvero Sliema. Un lungomare con decine e decine di persone che corrono sui marciapiedi. La sera, con l’affollamento dello struscio, questi runners impongono un’impegnativa attività di reciproco evitamento. Francamente, tutta quella gente che corre mi ha dato un senso di fastidio perché non mi consentiva di rilassarmi durante la passeggiata. Mi sono chiesto se questi forzati della corsa coatta siano in grado di godersi la vita. Ognuno trova le proprie soddisfazioni, però diffido di coloro che non hanno percezione degli altri intorno a sé.

_MG_0013Tornando all’enfasi edilizia dei maltesi, è caratteristica la presenza costante, su qualunque vista panoramica dei vari luoghi, la presenza delle gru. A tratti pare di rivedere lo skyline de L’Aquila della ricostruzione post-terremoto. _MG_0015A differenza delle costruzioni in pietra gialla, però, il cemento armato incalza al punto che in certi punti l’edificio in stile tradizionale diventa l’eccezione. Questa spinta edilizia aggressiva fa ricordare le spregiudicate operazioni immobiliari dei palazzinari italiani, che hanno mangiato territorio per decenni, senza particolari cure estetiche. Malta sembra preda della stessa frenesia. D’altra parte, la piccola repubblica è da poco entrata nell’Unione Europea e ha aderito anche alla moneta unica. La crescita economica viaggia a cifre sostenute ed una prova indiretta di questa circolazione di danaro l’ho intuita nella spropositata quantità di ristoranti italiani o sedicenti tali. Una presenza simile l’avevo notata a Praga ed anche allora il sospetto che dietro questa invasione di aziende italiane dedite alla ristorazione potesse annidarsi la probabilità di lavanderie di danaro della malavita organizzata è sempre stato forte.

La sensazione della Storia, però, è forte. Soprattutto nella sua dimensione militare. Essendo una specie di nave alla fonda tra le varie sponde del Mediterraneo, Malta è sempre stata oggetto dell’occupazione di altre genti, dai Fenici agli Inglesi. Girando per la capitale, Valletta, è forte la connotazione fortilizia lasciata dai Cavalieri di Malta che erano, sì dei religiosi dediti alle attività di salute e ospedalizzazione, ma sono stati anche guerrieri capaci di difendere e resistere ad attacchi. Anche se, alla fine, una rivolta dei maltesi terminò l’esperienza dei Cavalieri, molta Storia è rimasta legata a loro ed oggi questi elementi monumentali sono parte dell’offerta turistica dell’Isola. Come è anche diventata oggetto di promozione turistica la pagina recente di Storia legata alla resistenza (ancora una volta!) degli Inglesi nell’ultima guerra mondiale. Malta è stata una base strategica degli Alleati nel Malta-2Mediterraneo ed ha resistito per lungo tempo senza essere mai conquistata , ma oggetto dei bombardamenti martellanti delle forze aeree tedesche e italiane.

Gli italiani, appunto. La terra più vicina a Malta è la Sicilia. Essa fa parte geologicamente proprio della piattaforma siciliana. Entrambe hanno conosciuto dominazioni comuni, come normanni, angioini e arabi. Queste, sommate all’italiano e l’inglese, hanno generato una lingua che è la somma di tutte quante. Quando siamo all’estero ci può capitare di ascoltare i toni e i modi linguistici del popolo che ci ospita e, con un po’ di sensibilità, possiamo riconoscerne le pronunce. Il maltese mi ha dato l’impressione di un collage di espressione e linguaggi. Naturalmente, molte parole sono italiane. Proprio per questi aspetti storico-linguistici, Malta è il paradiso degli italiani che vogliono viaggiare senza sapere l’inglese: quasi tutti  capiscono l’italiano, e due/terzi lo parlano.

La presenza inglese nell’isola è stata lunga ed ha intriso tutta la cultura maltese. La guida a sinistra sulle strade ne è l’aspetto più immediato. Ma si riconosce questa impostazione culturale anche nell’organizzazione sociale e istituzionale che mi ha dato l’impressione di fare dei maltesi il risultato spurio della britannizzazione di un’indole mediterranea.

Ancora due notazioni da turista. La prima è che, rispetto ad altre due nazioni mediterranee e vocate al turismo, L’Italia e la Grecia, Malta sia più cara. Forse perché, come in tutte le isole, è costoso far arrivare le merci. WP_20160703_003L’altra riguarda il mare. E’ splendido e le coste soprattutto di rocce contribuiscono a tenerlo pulito. Sono stato nell’isola di Comino alla scoperta della famosa Laguna Blu. La sfortuna ha voluto che ci arrivassi di domenica, con un affollamento pari alla riviera romagnola che, sicuramente, faceva perdere molto del fascino di quel pezzo di Mediterraneo, anche se molto contribuisce al reddito dei maltesi.

SCHEMI MENTALI E RISTORANTI DI PRAGA

Alcune settimane fa ho fatto una vacanza a Praga. La capitale ceca era sempre stata nei racconti di amici e colleghi, tutti in suo favore. Finalmente ci sono andato.
Come tutti gli altri, anch’io ho potuto apprezzare l’aria della città, i suoi ritmi e i suoi suoni. Ho girato prevalentemente a piedi, potendo notare anche i particolari oltre ai grandi palazzi e monumenti. Ma tra le varie cose ho notato anche una stranezza, ovvero una quantità spropositata di ristoranti italiani. Dapprima ero compiaciuto di constatare come i nostri imprenditori si fossero spinti in modo convinto fin lì, ma ero perplesso sulla possibilità che i proprietari fossero emigranti. Non è la Repubblica Ceca una terra di emigrazione italiana; al limite qualche ragazzo dell’Erasmus poteva starci per qualche tempo. Allora ho cominciato a fare delle ipotesi.
La prima ipotesi è stata che la cucina italiana è molto apprezzata dai praghesi e dai turisti, quindi poteva essere un buon affare aprirne qualcuna. La seconda ipotesi è stata che gli imprenditori italiani preferiscono investire in quella città perché hanno meno pastoie burocratiche e fiscali. La terza ipotesi era che i ristoranti, in una nazione che vede con favore gli investimenti stranieri sul proprio territorio, potevano avere uno scopo diverso dal fare profitti con gli incassi. Inutile dire che – da italiano – sono stato propenso alla terza ipotesi. In una realtà come la nostra, i massicci e dispendiosi investimenti sono appannaggio di gruppi che hanno una liquidità in eccesso. Domanda retorica: chi può avere tale surplus di liquidità da poter investire in ristoranti a Praga? Lascio alla vostra immaginazione da italiani la possibilità di tirare la conclusione.
Ma di fronte a questo ragionamento mi sono accorto che il mio pensiero aveva agito seguendo degli schemi mentali, delle mappe, che mi hanno portato a “leggere” un fenomeno anomalo – gli innumerevoli ristoranti italiani di Praga – secondo gli elementi acquisiti nella mia esperienza. Nella mia esperienza, appunto, c’è la consapevolezza che alcuni gruppi malavitosi hanno bisogno di investire i soldi per poterli riciclare; c’è la consapevolezza (derivata dalle informazioni che ci rimandano i media informativi) che alcuni settori sono preferiti per queste attività e, tra esse, c’è proprio la ristorazione.; c’è anche la consapevolezza che la repubblica Ceca potrebbe avere interesse a “non vedere” l’anomalia; c’è, infine, il ragionevole dubbio che i praghesi non siano folgorati dalla cucina italiana al punto di invadere a frotte i ristoranti italiani.
Tutto ciò per notare come la varietà delle mappe a cui si può ricorrere offre una maggiore possibilità di formulare delle ipotesi diverse per spiegare un fenomeno.
Però, a Praga, io non sono andato in un ristorante italiano.

 

 

L’EQUILIBRIO DI STROMBOLI

Qualche giorno fa si è conclusa una mia piccola permanenza vacanziera a Stromboli. Isola straordinaria per bellezza e rinomata tra viaggiatori e turisti. Lo spettacolo del vulcano quando è in eruzione attira schiere di turisti e di amanti della natura. Il paese riesce ad accogliere migliaia di persone nei mesi di maggiore movimento turistico e gli abitanti, sommandosi ai circa 530 residenti. La pesca è diventata un’attività secondaria – anche perché a Stromboli non c’è un porto vero e proprio – ed è prevalentemente finalizzata al rifornimento dei ristoranti dell’isola. Il turismo, dunque, è la prima fonte di ricchezza.
Particolarità del paese di Stromboli è che le stradine non sono abbastanza larghe per consentire il passaggio delle auto. Non solo. La piccola centrale elettrica dell’isola fornisce energia alle case ed agli esercizi commerciali, ma non si è mai provveduto all’illuminazione pubblica: così, di notte, le strade sono buie, soprattutto quando chiudono anche bar e ristoranti e si spengono le loro insegne. Infine – per completare la descrizione – Stromboli è una frazione del comune di Lipari, paese che sta su un’altra isola ad alcune miglia di distanza e, quindi, viene gestito da lontano.
Proprio su questo ultimo aspetto nasce la mia riflessione di psicologia del viaggio. Già perché nel mio soggiorno ho notato come alcuni aspetti della vita strombolana risultassero “aggressivi” nei confronti del visitatore, turista o viaggiatore che fosse. Vero che non ci sono auto e mezzi pesanti (se non confinati ad un’unica strada costiera lunga un paio di chilometri), ma è intenso il movimento di motorini, scooter e veicoli a tre ruote col motore a scoppio. Questi generano un “traffico” continuo e rumoroso: ma soprattutto lasciano al loro passaggio il puzzo dei gas di scarico. Fortunatamente si cominciano a vedere piccole auto (quelle da campo da golf) e scooter elettrici.
Un altro aspetto che ho trovato “fuori posto” è stata la quantità di bottiglie abbandonate che rimandavano un’immagine di “sporco” e di “incuria”. Appariva strano che un paese che vive di turismo lasciasse sporcare le proprie strade in questo modo. Poi, facendo bene attenzione, ho notato che per le strade di Stromboli non ci sono cestini in cui gettare i rifiuti. Un’eclatante contraddizione! Si attirano decine di migliaia di turisti ogni stagione, si vendono tonnellate di merci destinate al ristoro e non si arredano le strade con dei cestini? Perché questa contraddizione?
Forse perché in tutti i luoghi popolati dagli esseri umani, luoghi in cui noi ci aggreghiamo in villaggi, paesi o città, esiste una sorta di equilibrio dinamico tra la necessità di godersi la vita secondo i propri istinti e la necessità di modificarli per le pratiche di vita e sopravvivenza, ovvero tra principio del piacere e principio di realtà. Per il paese di Stromboli, il principio del piacere equivale a potersi muovere liberamente e velocemente per il paese col minimo della fatica (ecco motocicli e traffico), ma si manifesta anche nel fastidio di doversi preoccupare dell’immondizia prodotta dai turisti. D’altro canto, il principio di realtà impone il problema del decoro che influisce sull’idea che si fanno i visitatori del paese, del “loro piacere” di essere a Stromboli, del modo in cui parleranno del luogo, costruendo la desiderabilità attraverso il passaparola.
Nel caso di Stromboli e degli strombolani, si ha l’impressione che l’equilibrio tra principio del piacere e principio di realtà penda ancora leggermente verso il primo.

Isola di Stromboli

ARCHEOLOGIA DA STORYTELLING

Mi sono trovato a fare il turista nel sito archeologico di Selinunte, in Sicilia. Una bella giornata di sole e gli scavi davanti a me. Ho cominciato a girare e mi accorgevo che ero stato incauto a venire senza aver portato una guida. Il sito è enorme e dispersivo. I resti sono in gran parte frammentati e le folte erbacce danno un senso di trascuratezza. La percezione della Storia era forte ma, al contempo, anche di smarrimento. Cosa mi mancava?
Mancava una storia, mancava una narrazione. I pochi cartelloni – per lo più sbiaditi e illeggibili – non riuscivano a farmi immaginare la vita che si svolgeva a Selinunte. Mi mancavano i fatti che avevano portato Selinunte a crescere, prosperare, combattere ed essere distrutta e abbandonata.
Ho pensato al sovraintendente che curava il luogo. Il biglietto per entrare è congruo, quindi i visitatori si aspettano un servizio legato al sito stesso. Immaginavo, quindi, che fosse abbastanza semplice fare dello storytelling: bastava un piccolo depliant con la storia, una cartina e dei cartelloni che illustrassero i percorsi.
In una società occidentale, intrisa di narrazioni (cinema, tv, libri, internet…), ciò che non è narrato diventa deludente, come fosse incompiuto. I nostri “gestori di storia” dovrebbero andare tutti a scuola di storytelling. Solo così l’immenso patrimonio storico diventerà la prima industria del paese.

Acropoli di Selinunte- primi resti - Flickr - Photo Sharing! 2014-10-13 11-22-12

LA SENSAZIONE DELLA STORIA

Della grande massa di turisti che vengono a visitare il nostro paese, la maggior parte viene a vedere le vestigia del passato. Difficilmente si viene a vedere il ponte di Calatrava a Venezia o il quartiere dell’EUR a Roma. Le persone vengono a vedere le vestigia del passato. Una parte di esse attraggono per la loro bellezza, al punto che viene addirittura identificata una sindrome detta di Stendhal: persi davanti alla bellezza.

Ma c’è un tipo di vestigia che non è bello, per niente. Anzi, tutte rotte, a pezzi, che a stento si capisce cosa fossero. Eppure noi turisti, noi viaggiatori ci aggiriamo rapiti tra esse. Sono le rovine delle antiche città, delle antiche testimonianze del nostro passato di umani.

Qualche giorno fa ero in un paese abbandonato negli ultimi anni del Settecento (neanche tanto tempo fa) eppure il fascino che esercitavano sulle nostre menti era innegabile. Giravo per le rovine di Monterano, alle porte di Roma, e sentivo sempre quella sensazione che ci prende quando giriamo tra le vie della romana Pompei o tra i templi e i teatri della Magna Grecia. Quelle rovine risuonavano nella mia immaginazione. La consapevolezza che tra quelle stradine, in quelle chiese, in quelle botteghe o officine avevano lavoravo delle persone è proprio il tipo di sensazione a cui alludevo. Ti fermi un attimo e ti sembra di rivedere le persone. E’ quella la sensazione che ci fa realizzare cosa è la Storia. Essere presente negli stessi luoghi, calpestare lo stesso suolo e “sentire” le vite passate di lì.

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IL PRINCIPIO DI ECONOMIA E LA CORSIA CENTRALE

 

Nel tentativo di comprendere il comportamento degli esseri umani, vari studiosi hanno postulato delle regole generali. Una delle più importanti è il Principio del Piacere ipotizzato da Sigmund Freud, ovvero un principio economico che ha per scopo la gratificazione immediata o, al tempo stesso, l’evitamento del dolore. Anche un’altra “legge” del comportamento umano, derivante direttamente dal mondo biologico, può essere importante per comprendere i nostri comportamenti: il postulato del linguista funzionalista André Martinet, afferma che l’essere umano è spinto ad ottenere il miglior risultato funzionale con il minimo sforzo possibile. Un principio, questo, che può essere applicato a tutti i fenomeni della vita in cui si nota che la Natura ottiene sempre il miglior risultato possibile col minimo delle risorse. Ma cosa lega tutto ciò alla corsia centrale di un’autostrada?
Vediamo spesso nelle autostrade a tre corsie che, nonostante le norme del codice della strada stabiliscano che bisogna occupare le corsia libera più a destra, molte auto marciano nella corsia centrale anche in assenza di auto a destra. Perché? Facciamo tre ipotesi. La prima è che le persone alla guida di queste auto non si sentano sicure e preferiscano avere ampi margini tanto a destra quanto a sinistra. La seconda è che queste persone amino sentirsi “al centro” e, quindi, anche in autostrada tendano ad occupare il centro. In entrambi i casi, però, il comportamento appare troppo diffuso per essere spiegato da queste ipotesi.
La terza ipotesi, basata appunto sui due principi enunciati, spiega il fenomeno considerando che tendiamo ad avere il piacere di fare il minimo sforzo possibile. Chi frequenta le autostrade sa che nella corsia di destra marciano i veicoli lenti (che obbligano in continuazione ai sorpassi) e si innestano i veicoli (anche questi lenti perché in accelerazione) che provengono dagli svincoli. Ecco che viaggiare nella corsia centrale diventa il modo più “economico” di viaggiare, almeno in termini di attenzione e di impegno.

Viaggiatore ad Amsterdam

Questo primo post da “viaggiatore antropologico” cercherà di aprire la strada ad una serie di scritti sulle mie impressioni nei vari luoghi che andrò a visitare. Lo psicologo che viaggia, probabilmente, gode di una visuale aggiuntiva: le persone, le loro azioni e le loro caratteristiche, diventano uno dei colori del luogo visitato.

Amsterdam, dunque.

La premessa a questi appunti è che il viaggiatore contemporaneo ha l’arduo compito di provare a vivere i posti che attraversa dovendosi misurare con gli stereotipi che ci portiamo. Amsterdam del fumo libero, dei tulipani, della libertà e della ricchezza, tanto per capirci. Poi si arriva lì e ci si può accorgere che molte cose non stanno così. Ecco perché molte notazioni saranno anche delle piccole verifiche sugli stereotipi che si agitano nel nostro bagaglio.

L’impressione più grande è stato vedere il rapporto di bramosìa che hanno col sole. Le case hanno ampie finestre, quasi a voler catturare ogni piccolo riverbero di luce. Ma, soprattutto, appena il sole si affaccia, gli abitanti di Amsterdam vanno a conquistare il loro fazzoletto di calore luminoso.

Legato all’amore per la luce del sole mi è parso di cogliere la loro indole. Mi è sembrata gente “pacata”. In cinque giorni passati a girovagare per strade e canali, non mi è mai capitato di sentire qualcuno che si arrabbiasse ad alta voce. Né gli indigeni, né gli immigrati, tantomeno i pochi esseri marginali che abbiamo incrociato. Ciò è diventato particolarmente evidente nel constatare che non ci sono madri che alzano la voce con i figli, per richiamarli all’ordine o perché hanno perso la pazienza.

Da contraltare alla flemma si può osservare la frenesia da bicicletta. Credo che gli olandesi vengono messi su una bicicletta appena nati e, appena possono, la portano da soli (probabilmente accade la stessa cosa con la lingua inglese). Li ho visti sfrecciare dappertutto con le loro biciclette e, bizzarrìa inspiegabile, la maggioranza delle biciclette sembravano senza freni. Ma, in fondo, è ovvio che corrano sui pedali: se la bicicletta è il vero mezzo di spostamento per la collettività, hanno tutti premura di andare da qui a lì. Dunque corrono.

L’uso delle biciclette mi fa venire in mente un altro aspetto che notavo, ovvero che non ho visto olandesi grassi. Qualche persona più abbondante la si trova tra gli immigrati, ma non tra gli olandesi doc. Forse un po’ il clima freddo che aiuta il metabolismo, un po’ il ciclismo imperante, ed ecco che le calorie partono.

Per tornare ancora agli immigrati, mi è capitato di notare che, al contrario di Londra dove si vedono spesso, non ho visto molti bambini figli di coppie miste. Eppure gli olandesi si fanno vanto della loro multiculturalità. Non ho una spiegazione e la mia osservazione è empirica, però mi viene da pensare che gli steccati tra persone di luoghi e culture diverse possono ancora esserci, anche se forse meno visibili all’occhio del viaggiatore. Questa impressione è coerente anche con un’altra impressione. Nei contatti che ho avuto con varie persone che svolgevano lavoro “semplici” ho trovato quasi sempre immigrati, di prima o di successiva generazione. Sarà una coincidenza, però…

Per chi si porta appresso lo stereotipo da depliant di Amsterdam come la “Venezia del nord”, mi destava un sorriso vedere tutta la marineria domestica che ho visto: battelli per le visite sui canali, motoscafi usati come macchine d’epoca tirate fuori dai garage nelle grandi occasioni, barchette minuscole a remi e le innumerevoli case galleggianti. Un rapporto intimo con l’acqua che appare la naturale manifestazione della storia olandese di sfida al mare.

Un’ultima considerazione, assolutamente personale. Ho guardato donne e uomini olandesi ed ho avuto la sensazione che le prime non fossero quasi mai sensuali. Ho visto donne scultoree, belle, curate, ma mai sensuali. Parimenti, ho visto uomini atletici, interessanti, anche se avanti con gli anni, ma quasi assolutamente privi di fascino.

Infine un’ultima considerazione sulla sostanziale libertà che si può sperimentare. In una guida di un museo ho forse trovato la spiegazione di questo aspetto della loro cultura. Leggevo: “Amsterdam attraeva molti migranti, tra i quali anche i rifugiati politici e religiosi. Molto era permesso purché l’economia prosperasse”. Un pragmatismo all’olandese.

Impressioni, dunque.