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APPUNTI AMERICANI

La mia idea dell’America con la tara di Roma

Quest’anno mi sono lanciato in uno dei classici delle vacanze transoceaniche: gli Stati Uniti. Il grande paese americano è talmente presente nella cultura occidentale che inevitabilmente si forma nella mente “una certa idea di America”. Un’idea fatta principalmente di televisione, poi di libri e film. Infine, un’idea fatta dalle chiacchiere delle persone che hanno la loro idea di America e di notizie che ci piovono addosso. Ho preso nei giorni trascorsi nelle tre città visitate degli appunti fotografici. Nelle mie lunghissime passeggiate a Boston, New York e Philadelphia, notavo situazioni che generavano il mi stupore o la mia perplessità. Ve li girerò qui con l’avvertenza che dovrete fare la tara perché il mio livello di “civiltà vissuta” è quello della Roma odierna. Quindi…

L’ossessione per le bandiere e l’identità

Una delle prime cose che mi sono saltate agli occhi nelle città che ho visitato sono state le bandiere. C’è una presenza ossessiva delle bandiere stelle e strisce. Case, autopompe dei pompieri, autobus, negozi, oltre che davanti agli edifici istituzionali. Addirittura sulla facciata di un palazzo in ristrutturazione a coprire le impalcature. Mi sono domandato a cosa rispondesse questa necessità di esporre la bandiera. Semplicisticamente potrei dire che è una forma di orgoglio, ma si è insinuato il dubbio che la necessità di affermare pubblicamente e ossessivamente la bandiera possa essere anche l’esito di un sentimento fragile di identità.

Lo stupore da grattacielo e l’assuefazione

Una delle immagini più forti che hanno costruito l’immagine collettiva degli Stati Uniti sono i grattacieli. Dal film King Kong a Manhattan di Woody Allen, passando per tutte le serie tv degli ultimi trent’anni, lo skyline delle città americane ha sempre caratterizzato la nostra concezione di America. Poi, quando ci sei dentro non puoi fare a meno di stare sempre col naso all’insù e percepire l’enormità di queste costruzioni. Però mi sono accorto che sono bastati un paio di giorni per smettere di guardare in alto e tornare al livello del suolo. Tutto ciò che è realmente importante (auto, negozi, chioschi, persone) sono a terra, quindi ci si abitua: anche ai colossi.

Giochi per bambini a disposizione senza vandalismi

Accennavo nel post di apertura al fatto che il mio metro morale parte dallo standard medio italiano che possiamo situarlo tra Bolzano e Siracusa. Il mio è tarato su Roma (purtroppo). Per questa ragione potrete capire il mio stupore nel vedere, in tutte le città che ho visitato, che in vari giardini e altri luoghi della città sono state piazzati dei giochi per i bambini e (qui lo stupore) erano aperti, a disposizione di tutti ma, soprattutto, non rubati e non vandalizzati. Questo mi ha dato una drastica misura della distanza con quella concezione di “proprietà collettiva”.

I lucchetti di Moccia a Philadelphia con variazione di recupero

Ancora lungo la linea dello stupore per la coscienza civile, a Philadelphia ho notato che l’amministrazione aveva fatto installare, a ridosso dell’attracco di alcune navi storiche, delle grate per assecondare la voglia di lucchetti d’amore (maledetto Moccia, ma sei tu la causa di questo stupida abitudine in mezzo mondo?). Ma la differenza c’è perché la stessa amministrazione ha piazzato sotto le grate delle cassette per recuperare le chiavi così da recuperare i lucchetti ed evitare costi e inutili inquinamenti. ok, le simbologie cambiano, ma si può fare questo sforzo sentimentale.

Il senso della Storia e il sasso di Plymouth

Molto spesso si accenna – con una venatura snob – che gli Stati Uniti sono una nazione che ha poca Storia. E’ vero che nascono come nazione solo nel 1772, ma da allora hanno avuto una storia tumultuosa. Nel mio viaggio, però, mi è capitato di vederla concretizzata. Ho visitato la località di Plymouth, vicino Boston, famosa per essere stata il punto di approdo della nave Mayflowers che portava i padri pellegrini che avrebbero fondato le prime colonie. Sul lungomare c’è una sorta di tempietto che fa ipotizzare qualche resto importante. Beh, c’è un sasso che le guide raccontano essere risalente “probabilmente” allo stesso periodo dello  sbarco dei coloni. Dunque, ognuno racconta la Storia come può e, in casi come questo, si passa dalla storia allo storytelling

 

Il senso della Storia e il museo di Ellis Island

L’immigrazione è un tema molto attuale e, se oggi la subiamo, in passato ne siamo stati protagonisti. Ad Ellis Island, a pochi minuti di traghetto da New York, c’è il museo che racconta il fenomeno degli emigranti che sbarcavano dai piroscafi alla ricerca di fortuna nel Nuovo Mondo. Una tenue emozione mi ha preso nel ricostruire le vite di tanti italiani (e non solo) che venivano visitati, registrati, verificati prima di essere fatti sbarcare proprio in terra americana. Una storia che per noi italiani ha densi significati, Ed infatti erano proprio tanti i turisti italiani che giravano e commentavano per le sale del museo.

Convivenza ed estremi sociali

Questa foto potrebbe raccontare di rappresentazioni sociali, di contrasti di classi o di altre cose simili. Non posso generalizzare. Ho visto troppo poco. Però questo scatto mi ha mostrato plasticamente come, spesso, le differenze hanno una breve distanza, una vicinanza che stupisce.

 La statua di Rocky e l’identità cinematografica

Ci sono luoghi che rimangono nella memoria pur non essendoci mai stati e che, magari, ci sono stati narrati. La narrazione del Novecento, oltre i libri, si è arricchita delle arti visive: fotografia, cinema e televisione. Io Philadelphia la conoscevo per i formaggio e per la scalinata di Rocky. Immancabile, a Philadelphia c’è la statua di Rocky proprio affianco alla scalinata che si vede nel film. Siamo al Museo d’Arte e diligentemente in fila ci sono le persone che aspettano di farsi un seflie affianco alla statua di una persona che non esiste, se non nel nostro immaginario.

 Troppi giovani obesi

Abbiamo spesso sentito che uno dei problemi di salute più accentuati negli Stati Uniti è l’alimentazione. Personalmente, ho fatto molta fatica a mangiare meno “junk food” possibile ma è un’impresa difficile. Così ho potuto constatare come sia consistente la percentuale di giovani obesi che si vedono per strada. Dunque, questo stereotipo mi è stato confermato dalla realtà.

 Simbolismo involontari, dal campanile al grattacielo

I campanili delle chiese, soprattutto quelle gotiche, sono alte e a punta, per elevarsi verso il Cielo. Ma il tempo ha cambiato molte cose e nelle city d’America ben altri edifici si sono innalzati verso il cielo. Il Dio del dollaro sovrasta ormai il Dio della fede (forse).

Arredi urbani ed assenza di vandalismo

In ogni città che ho visitato, almeno nelle zone centrali attraversate da noi turisti, ho visto una cura puntuale degli spazi e degli arredi. Tutto in ordine, tutto pulito e  – soprattutto –  nessun vandalismo. Non so la ragione di questo risultato, ma qualcosa mi fa sospettare che ciò è possibile innanzitutto perché le persone non rompono, sporcano, sottraggono. E qui torniamo alla tara di civiltà a cui accennavo nel primo post della serie.

 Marciapiedi grandi

I telefilm americani che giungevano sui nostri televisori, oltre alle immagini delle enormi auto che scorazzavano per le avenue, ci mostravano anche dei marciapiedi grandi, Li ho ritrovati e ne ho assaporato la confortevolezza. Un segno evidente che i modi americano  – anche quelli urbani –  sono cresciuti avendo molto spazio. Un’apparente contraddizione se pensiamo ai centri zeppi di grattacieli che, invece, sfruttano al massimo il minor suolo possibile. Queste ed altre apparenti contraddizioni dagli States.

 

Infermieri in divisa per strada e in metro

Questa faccenda mi è piaciuta meno. In tutte e tre le città che ho visitato (Boston, New York e Philadelphia) gli infermieri giravano per strada, andavano in metro (quindi si sedevano) portando la divisa di lavoro. L’ho trovato antigienico e un segno di scarsa attenzione verso gli ammalati. Magari, però, esagero.

Commercio vs monumento e i caso del Rockfeller center

“Andiamo a vedere il Rockfeller Center”. Ah si, quello che si vede la statua dietro la pista di pattinaggio nei telefilm. Questo è lo spettacolo che mi è apparso arrivato lì. Io capisco che il commercio predilige i posti più belli per poter attirare i clienti, ma è come se a Roma avessero messo ombrelloni enormi e tavolini intorno alla fontana della barcaccia del Bernini, a piazza di Spagna. A volte qualcuno si fa prendere la mano, anche a New York.

Le fontane e la necessità di far giocare i bambini

I bambini sono molto considerati. Ho accennato in un post precedente all’abbondanza di giochi lasciati a loro disposizione nei parchi. Un altro elemento caratteristico sono le “fontane praticabili”. Queste sono al livello del selciato ed è consentito ai bambini di scorazzare a piacimento tra i getti (nessun adulto prova ad entrarci). Addirittura, nella foto c’è una sorta di laghetto-fontana nel parco al centro di Boston in cui sono stati piazzati addirittura del bagnini che controllano che nessuno faccia cose pericolose.

Homeless e poveri

I poveri sono poveri. Sono uguali dappertutto. La nostra società occidentale ha dei criteri di “centrifugazione dei deboli” che variano e la casa è uno dei campi che rendono evidente la povertà. Nelle città che ho visitato non sono mancati gli homeless, ma soprattutto a Philadelphia dove erano numerosi anche nella parte turistica, la old town.

Riconversioni urbane

A New York sono riusciti a far diventare un’attrazione turistica un piccolo tratto della sopraelevata su cui correva la metropolitana. Vicina alla City, la High Line è stretta ma superaffollata, non c’è nulla di particolare: né una vista particolarmente bella, né un caffè, né attrazioni particolari. E’ affollata solamente perché si cammina su un manufatto urbano riconvertito. E’ modernariato ed è uno di quei luoghi particolari che puoi affermare con orgoglio, al ritorno, di aver visto.

La sacralità del pedone

Questo, e non altri, è l’aspetto più importante che ho riportato indietro nel mio viaggio negli Stati Uniti. In ognuna delle tre città visitate, in ogni luogo e quartiere, appena accennavi ad avvicinarti alle strisce pedonali, le auto si fermavano, ben lontane dalle strisce. All’inizio mi sono goduto la meraviglia di questo comportamento rispettoso. Alla fine mi sembrava così naturale che guardavo solo distrattamente, ogni volta che attraversavo la strada, se le auto fossero ferme. Beh, è stato un insegnamento ed ora, tornato in quel frullatore di traffico che è Roma, mi accorgo che quando guido faccio molta più attenzione di prima ai pedoni. E’ proprio vero che l’esempio vale mille spiegazioni.

Note finali in ordine sparso

Per concludere questi appuntamenti con le mie finestre sull’America, delle piccole note. Nella mia idea di America, quella mutuata un po’ anche dai telefilm alla Happy Days, come elemento caratteristico c’era il bowling. Non ne ho visti.

Il senso di calma che ho percepito nel traffico di Boston e Philadelphia probabilmente dipendeva dal ritmo lento del traffico.

La vendita al dettaglio di generi alimentari è sfilacciata. Tanti negozi che vendono un po’ di tutto ma niente di esaustivo (giusto qualche mercato) e con notevoli confusioni merceologiche (si vende insalata dove si vendono i farmaci). Rarissimi i posti dove acquistare pane fresco.

Treni e metro non hanno i vagoni imbrattati dai tags dei writer.

A New York ho notato più coppie omosessuali che si scambiavano effusioni in pubblico che coppie etero. Come ancora, nella Grande Mela ho percepito forte l’eterogeneità etnica degli abitanti. Sembravano esserci tutti, ma proprio tutti.

Con questo post si chiude il mio taccuino di appunti. Se vi è piaciuto, gratificatemi col vostro like.

 

 

 

GENITORI, FIGLI E LA COMPETIZIONE NELLA VITA

Chiunque abbia avuto dei figli passa attraverso il lungo percorso di istruzione dei figli. Si comincia addirittura con l’asilo nido e si finisce con il master o la specializzazione all’università. Nella ipotesi peggiore è un percorso che dura anche venticinque anni. In tutto questo tempo si combatte una silenziosa disputa tra genitori e figli, con i primi che spingono verso lo studio e i secondi che cercano di soddisfare queste richieste. Fin qui lo schema, ma la faccenda è molto, molto più complessa.

Qualche considerazione preventiva può aiutare a chiarire il quadro. I piccoli imparano senza alcun bisogno di stimolazione preventiva, per esposizione e per gioco. Nella tassonomia dell’apprendimento nello sviluppo evolutivo, ogni scuola ha generato la sua teoria. Più semplicemente, possiamo dire che il salto di qualità dell’apprendimento avviene per una mutazione della Motivazione. In condizioni naturali il bambino apprende ciò che gli serve nel suo spazio vitale. Ma sappiamo che, in una società complessa come quella che viviamo, non basta imparare basic, ma è opportuno proiettarsi molto in avanti. Ecco che quel  comportamento istintivo e fondamentale per la sopravvivenza che porta i piccoli a fare ciò che gli viene chiesto dai genitori diventa la motivazione di livello superiore. Per un bambino è fondamentale avere l’approvazione del genitori ed il suo comportamento viene ampiamente plasmato da questo tipo di dinamica. Ma la faccenda si complica a causa della correlazione tra istruzione e competizione per le risorse. Uno degli assiomi consolidati negli ultimi duecento anni è che ad una maggiore istruzione corrisponde un maggiore benessere. Essere “istruiti” ha dato molti vantaggi a chi poteva diventarlo. Un medico dell’inizio del Novecento era un’autorità assoluta per la comunità. Questo assioma si è consolidato quando, a partire dagli anni Cinquanta, la scuola è diventata un fenomeno di massa. Se da un lato la scolarizzazione generalizzata ha innalzato i livelli culturali delle nostre società, dall’altro questo fenomeno ha incastonato questo percorso in quello più ampio della gestione delle Risorse. Fino a quando la società ha mantenuto un livello ottimale di crescita economica, esistevano risorse sufficienti per far intravedere a tutti  – soprattutto ai genitori –  la possibilità di un miglioramento della condizione di arrivo dei figli rispetto a quella dei genitori stessi. Lo chiamano “ascensore sociale“. Ma, quando comincia a declinare la crescita economica, si crea una situazione di scarsità di risorse tale che l’ascensore sociale si ferma o, addirittura, scende. La competizione diventa micidiale.

In questa situazione, i bambini ed i ragazzi, si trovano nella poco invidiabile condizione che descrive perfettamente Silvia Vegetti Finzi in un suo articolo apparso sulla rivista Psicologia Contemporanea, lo scorso gennaio 2017. La psicologa e psicoterapeuta dice: “Viviamo in una società competitiva, dove il futuro è incerto e minaccioso: molti giovani resteranno probabilmente senza lavoro e ben pochi troveranno un’attività corrispondente alle loro aspirazioni per cui, nella corsa della vita, i genitori tendono a trasformarsi in allenatori (…) Prigionieri dell’ansia da prestazione, questi ragazzi incrementano competenze e abilità a scapito dell’evoluzione complessiva. Non essendo liberi di scegliere, non possono sbagliare“. La spinta competitiva dei genitori li porta a riempire la vita dei propri figli di percorsi “formativi” per potergli dare qualche gettone in più da giocare alla slot della competizione delle risorse: imparano inglese (perché dove vai senza sapere l’inglese?); fanno sport (perché fa bene e plasma il carattere, allenando alla competizione); portano voti alti a scuola (perché nella classifica delle opportunità è meglio avere molti punti per apparire più appetibili); frequentano gli ambienti giusti (perché senza conoscenze non si va da nessuna parte). Ancora la Vegetti Finzi nota che “sono sempre più i ragazzini che, schiacciati da richieste insostenibili, incapaci di corrispondere alle aspettative della famiglia, finiscono per sentirsi inadeguati sino a perdere sicurezza e autostima. Di conseguenza, aumentano le patologie legate all’ansia, come l’iperattività e le difficoltà a concentrarsi“. Non solo, troviamo dall’adolescenza in poi che molti “mollano” e si riscontrano situazioni di irritabilità con seguente litigiosità in famiglia, depressione che induce il ricorso a additivi di varia natura (soprattutto alcool e droghe leggere), ai casi di rifiuto della realtà come gli hikikomori.

Cosa fare? Quale ponderoso dilemma si trovano davanti i genitori! Esiste un’alternativa alla corsa alla competizione, in cui alcuni arrivano alla meta ma molti “si schiantano” per strada?

Lo scopo dell’educazione consiste soprattutto nel far emergere il desiderio del ragazzo e, coniugandolo con il senso di responsabilità, sostenerne la realizzazione (…) L’Io contro tutti non paga, meglio sostituirlo con il senso della comunità, con un Noi solidale, che si forma in situazioni di convivenza e collaborazione tanto nella scuola, quanto in ambiti extrascolastici” afferma ancora Silvia Vegetti Finzi. In molte parti del mondo si comincia a comprendere che scendere nell’arena della competitività da soli si perde. Saranno i gruppi, col reciproco sostegno, ad avere più possibilità di benessere. Non a caso nei paesi scandinavi già si affacciano nuovi percorsi formativi che aiutano i bambini ad imparare la collaborazione, l’empatia ed i comportamenti altruistici. In tutti i casi di situazioni difficoltose, è sempre il gruppo ad avere le migliori possibilità, quindi bisogna insegnare i nostri figli a collaborare, ad essere solidali, ad aiutare: cominciando dalla famiglia in cui si cresce. Proprio da lì che si comincia ad imparare. Dei genitori che collaborano, sono sensibili agli altri membri, che aiutano chi è in difficoltà, sono il viatico migliore.

Dalla competitività estrema, spietata, che non fa prigionieri, si può lavorare per una sorta di decrescita felice o, più esattamente, verso una riformulazione dei paradigmi di formazione e crescita dei figli. È inutile dotare i figli degli strumenti per arrivare alle risorse se questi, poi, non avranno modo di goderle perché impegnati ad un accumulo forsennato delle risorse stesse, che siano case, danari, conoscenze o incarichi prestigiosi.

Quando chiacchiero con altri genitori amo affermare che  – esagerando –  preferisco un figlio carrozziere felice che Nobel suicida.

LA SCUOLA ITALIANA FA MALE

Meglio leggere prima il post nel link

http://genitoricrescono.com/colloquio-insegnanti-svezia/

Nel link troverete il racconto di una mamma – presumiamo italiana in Svezia – che si incontra con la scuola svedese: o meglio, con le insegnanti e col metodo adottato. Appare evidente che in quel paese tutta l’istituzione scolastica è al servizio del bambino. Questi è al centro di tutto e le differenze individuali sono accompagnate. Viene inevitabile il confronto con la scuola italiana, di cui media e politici si fanno grande vanto ma che, tutti riconoscono, è un po’ in difficoltà. Sarebbe presuntuoso da parte mia pensare di essere esaustivo con un semplice post, ma alcune notazioni è possibile farle.

Se avete avuto modo di ascoltare i racconti dei bambini e dei ragazzi è possibile notare che la nostra scuola si è ridotta ad un costante e spietato esercizio del potere. Quello della politica sull’istituzione, attraverso le continue riforme che non fanno altro che togliere fondi e creare confusione (a prescindere dalla parte politica che le attua). Quello dell’istituzione sui propri manager (una volta detti Presidi), con pretese di quadrature di bilancio e gestione di processi e persone, ma senza delegare, poi, un potere effettivo. Quello dei docenti sugli allievi, attraverso in meccanismo del “giudizio a prescindere” (vedi la vignetta in basso), in cui le differenze delle persone, ovvero degli allievi, non esistono, semplicemente; ma anche attraverso modalità di reclutamento della classe insegnante che genera impiegati dell’insegnamento.
A cosa serve, oggi, la scuola in Italia? Dipende. Ad imparare nozioni, generalmente. Non serve, però, ad imparare come usare le nozioni, cioè come impiegarle nella vita reale. A volte, dipende dalla capacità dell’insegnante, un metodo per risolvere i problemi. Sicuramente la scuola serve ad imparare tutto lo spettro di furbizie italiche generate dalla confusione strategica della stessa.
In un post successivo scriverò di come mi piacerebbe la scuola italiana. Intanto, confortato dalle opinioni, dai saggi e dalle dichiarazioni di addetti ai lavori, posso concludere che la scuola italiana è stata utile fino agli anni Ottanta dello scorso secolo. E’ stata indifferente fino agli anni 2000. Oggi è controproducente, un vero flagello per quelli che dovranno affrontare il futuro globalizzato.

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UNO STUDIO SULLA PUBBLICITA’ TELEVISIVA – Dai tagli nel montaggio all’ansia

dal sito (chiuso) psicologiadellaudiovisivo.it ripropongo questo articolo del 2007 a firma Stefano Paolillo e Lucilla Bartocci

L’intervista a Rosa Moi è stata preceduta da due avvenimenti. I primo è stato il racconto informale da parte della stessa della vita con i “ragazzi” della cooperativa; il secondo è stato il nostro desiderio di andare più a fondo sugli effetti collaterali della pubblicità televisiva. Gli effetti che Rosa Moi raccontava dei suoi pazienti ci generava la sensazione che gli spot fossero diventati esageratamente frenetici, soprattutto per alcuni tipi di personalità. Abbiamo così ideato lo studio che proponiamo.

L’assunto iniziale è stato che la successione dei tagli nel montaggio degli spot fosse diventato troppo rapido. Il “troppo” andava meglio definito, per cui abbiamo dovuto trovare un termine di confronto. Lo abbiamo cercato negli altri manufatti audiovisivi che, contenporaneamente, vengono proposti insieme agli spot. I programmi, quindi, ma anche i telegiornali o i film . La nostra intenzione “dare un’occhiata”: una sorta di ampia e curiosa esplorazione.

Il primo problema che abbiamo affrontato è stato quello di definire il campione su cui compiere l’osservazione. L’intero universo degli spot pubblicitario sarebbe diventato un lavoro mastodontico. Ci siamo accontentati di seguire l’onda del “massimo flusso” delle persone e abbiamo scelto di vedere ciò che vede il pubblico delle reti generaliste. Anche così il numero di spot rimaneva consistente quindi, per poter avere un panorama abbastanza vario, abbiamo scelto di rilevare gli spot in un periodo ampio (tre mesi) in cui registrare con metodo random. Infine, il nostro campione si è composto di 263 spot, di vario taglio e di varie tipologie di prodotto.

Qualche parola va spesa per illustrare i criteri che ci hanno guidati alla realizzazione delle categorie per “generi di prodotto” in cui raggruppare gli spot . La prima considerazione è che, usando il metodo random per la rilevazione, non avremmo avuto l’intero panorama dei prodotti pubblicizzati: le categorie sarebbero, dunque, state realizzate sugli spot effettivamente registrati. Abbiamo definito, poi, delle categorie di prodotto con criteri di ragguppamento che ci mettessero dalla parte di chi vede gli spot, ovvero le persone che dovrebbero usare i prodotti pubblicizzati. Per cui nella categoria “alimentazione” sono finiti sia i cibi sia le bevande; nella categoria “tecnologia per lo spostamento” sono stati aggregati tanto le valigie quanto le automobili. Ne sono nate delle metacategorie che, di fatto, ne raggruppavano altre: prodotti chimici, prodotti tecnologici, servizi, più altre semplici come alimentari, commercio e strutture di vendita, editoria di informazione e di intrattenimento. In quest’ultima sono confluiti sia giornali e libri, sia i prodotti televisivi. Per i dati in dettagli si può consultare l’appendice a fondo pagina.

Al momento di trarre le conclusioni della nostra osservazione è apparso evidente che la nostra impressione iniziale era ampiamente confermata. La frequenza con cui si susseguono i tagli negli spot esaminati è decisamente superiore agli altri programmi . Abbiamo pensato di ipotizzare alcuni possibili effetti di questa frenesia.

La considerazione teorica che ci ha guidati è che “ la televisione, soprattutto quando le sequenze sono rapide, provoca successioni di Reazioni di Orientamento senza lasciare il tempo per la chiusura, ossia per delle risposte motorie, verbali o cognitive che consentano di integrare le informazioni su base cosciente, di farne una decodifica ” [Oliverio Ferraris, 2004].

Dunque, un’effetto c’è. La letteratura psicologica sugli effetti della Risposta di Orientamento è sterminata. Noi abbiamo rintracciato alcuni elementi che sostenevano l’assunto che questi ritmi degli spot potessero avere degli effetti non immediatamente visibili.

Il primo è sul fenomeno della non-attenzione . Nella visione della televisione si instaura uno stato particolare di Non Attenzione. La persona, attraverso un continuo spostamento dello sguardo che riduce al minimo i tempi di fissazione, ha un effetto di non attenzione che è assimilabile al comportamento di fuga . Tale comportamento è una delle possibili risposte che seguono l’ansia e l’allarme. Si esprime in questo modo un elevato livello di Reazione di Orientamento (allarme) con un bassissimo livello di attenzione. Una “occhiata” è uno sguardo rapido che si caratterizza per una fissazione temporanea dell’oggetto seguita da un rapido e brusco spostamento dello sguardo dall’oggetto osservato. In queste condizioni il soggetto si sente in allarme, il sistema nervoso viene eccitato e pronto alla fuga senza che egli ne sappia il motivo, poiché non c’è un’attenzione efficace [Ruggieri, 1987]

Intorno alla fruizione televisiva, quindi, esistono delle condizioni che possono indurre ansia nelle persone, anche se non c’è violenza. Che tipo di effetto può avere e come può influire nella vita delle persone? Ci soccorre ancora la letteratura in tal senso che ci suggerisce che la persistenza di uno stato d’ansia può scaturire in una condizione di disagio o, addirittura, di malessere. La Reazione di Orientamento , se mantenuta attiva per un tempo prolungato, infatti, ricrea una situazione di immobilizzazione tipica dello stadio che precede l’attacco/fuga in caso di minaccia. “ Tutti i muscoli finiscono col trovarsi in uno stato di contrazione isometrica (…) essa provoca un elevato consumo di ossigeno a livello cellulare del tessuto muscolare e soggettivamente una percezione di “tensione” (che diventa anche tensione psichica)” [Ruggieri, 1988]. Ma se non riusciamo ad elaborare questa esperienza, perché lo spot non ci lascia il tempo di “chiudere” la nostra esperienza, allora è molto probabile che questa sensazione di malessere non venga neanche a coscienza : attribuiremo il nostro indistinto malessere ad un a cattiva digestione o al fidanzato che non chiama.

Gli effetti appena esposti sono deliberatamente cercati dai pubblicitari o sono un effetto parassita? Per provare qualche traccia abbiamo letto i risultati ottenuti dalle frequenze di taglio dei nostri spot con le considerazioni appena esposte. La considerazione iniziale, lapalissiana, è che il primo risultato che uno spot pubblicitario deve ottenere è quello di essere visto, per cui mira a catturare l’attenzione . Il montaggio filmico è uno degli elementi principali di questa intenzione e la frequenza con cui si succedono le varie inquadrature può essere uno dei metodi. Questa frenesia filmica potrebbe anche essere indotta dalla necessità di riuscire a compiere una narrazione completa in pochi secondi ma, usando una metafora, la sintesi dei versi poetici non viene dalla quantità di parole messe in un singolo verso ma dalla capacità evocativa del minor numero di parole. Possiamo ipotizzare che la tecnica del montaggio serrato punti proprio a tenere alta la risposta d’ansia: una specie di strada breve verso l’attenzione dello spettatore. Se questa tecnica viene usata deliberatamente allora ne avremmo dovuto trovare traccia nelle tipologie di spot e, quindi, il ritmo dei tagli dovrebbe variare in virtù del pubblico di riferimento (target). In effetti abbiamo trovato che esiste una tendenza ad accelerare o rallentare il ritmo a secondo del tipo di spot. La media degli spot dei prodotti alimentari e dei prodotti tecnologici per lo spostamento è superiore alla media del campione. Ma il ritmo sale vertiginosamente per i prodotti tecnologici per la ricreazione: nel nostro campione questi prodotti erano tutti destinati ai bambini. Possiamo pensare, quindi, che quando si prova a indurre all’acquisto dei bambini (magari spingendoli al nag factor , alla richiesta insistente e lamentosa) i pubblicitari puntino proprio sulla minore capacità dei bambini di elaborare l’esperienza della visione di uno spot così frenetico. Ardita conclusione, ma neanche troppo se pensiamo che “ per riuscire a vendere, gli esperti in marketing si avvalgono di tecniche raffinate. Essi non cercano di convincere con argomenti o ragionamenti, ma di aprire una falla nello spirito del detinatario per insinuarvi un’opinione o provocare un comportamento senza che costui si renda conto del tipo di intervento che si sta facendo su di lui ” [Oliverio Ferraris, 2004].

Tutti i dati raccolti e tutte le considerazioni fatte ci inducono a continuare ad esplorare le forme degli audiovisivi, nel tentativo di coglierne aspetti non evidenti o indici di trasformazioni. Ne daremo ancora notizia in queste pagine.

Bibliografia
– Oliverio Ferraris, A.; “TV per un figlio”; Bari 2004; Editori Laterza
– Ruggieri, V.; “Semeiotica dei processi psicofisiologici e psicosomatici”; Roma, 1987; Il Pensiero Scientifico
– Ruggieri, V.; “Mente corpo malattia”; Roma, 1988; Il Pensiero Scientifico

DATI RIASSUNTIVI

Il campione è composto da 263 spot, registrati dall’agosto all’ottobre 2005

Definizione del “taglio”
Il montaggio filmico è fatto di vari elementi. Tra questi il taglio (cut) è quello che obbliga lo spettatore ad una operazione di ricerca di nesso tra l’immagine precedente e quella successiva . Nella grammatica cinematografica questi elementi servono per “selezionare, mettere in evidenza gli elementi significanti, quelli che lo spettatore deve individuare”
[Rondolino – Tomasi, “Manuale del film”, 1995, UTET]

LABORATORIO VERO/FALSO NELLA TV – Un intervento con i bambini delle elementari

dal sito (chiuso) psicologiadellaudiovisivo.it ripropongo questo articolo del 2006

Nello scorso mese di gennaio abbiamo realizzato un laboratorio con i bambini delle IV e V classi della scuola elementare “Don Milani” di Roma. Il laboratorio voleva aiutare i bambini ad aumentare e migliorare la percezione della complessità dei programmi televisivi. Ed in particolar modo ad aiutarli a distinguere il vero dal falso in Tv.

Il nostro percorso si è articolato attraverso una descrizione dei temi (semantica), delle forme (estetica), ma anche sulla descrizione dei vari piani linguistici possibili (codici).

L’aumento della capacità di analisi di un prodotto audiovisivo (televisivo) dovrebbe diminuire la possibilità di subire la suggestione dei messaggi, palesi o occulti, contenuti nei programmi televisivi. La “giusta distanza” con cui guardare la televisione lascia lo spazio alla riflessione e alla creatività, abilità che consentono di gestire le proprie emozioni, di conservare il senso critico e di rimanere liberi di fare le proprie scelte.

Il laboratorio si è realizzato in due fasi ed è durato circa tre ore, compresa la pausa. La prima di esperienza dell’immagine filmata e delle sue componenti strutturali. E’ stata usata una telecamera e, attraverso questa, sono stati introdotti alcuni concetti basilari per la “fruizione esperta” della Tv. Primo costutto è stata la consapevolezza della relazione tra la realtà e il dentro/fuori l’inquadratura. Il secondo l’introduzione della relatività dello scorrere del tempo nella costruzione filmica. Il terzo la relatività dello spazio rispetto alla realtà.

Successivamente si è introdotto il concetto di verosimile. Ciò che sembra vero non è detto che sia vero e non è detto che sia falso.

La seconda fase è consistita nella visione di vari tipi di prodoti televisivi: dal cartone animato alla pubblicità, dal documentario al talk show, dal film al telegiornale. L’analisi di questi prodotti, in virtù delle esperienze fatte nel primo modulo, ha potuto affrontare alcuni aspetti peculiari e non sempre evidenti nella fruizione televisiva. Uno di questi è la consapevolezza delle informazioni implicite che ci inducono a trarre delle conclusioni; oppure di come un programma sia costituito, al tempo stesso, di cose vere e cose false.

Gli esiti riscontrati con i bambini della “Don Milani” sono stati molto interessanti. Nella fase iniziali sono emersi molti degli schemi di interpretazione con cui i bambini (e anche molti adulti) interpretano i programmi televisivi. La freschezza della loro mente, però, ha colto subito il valore dei nuovi strumenti di interpretazione che venivano proposti. La propria capacità di discernere il vero dal falso della Tv è stata reinterpretata alla luce della verosomiglianza. Lentamente e progressivamente i bambini hanno cominciato a dubitare della “prima immagine” che la Tv da di sé. I dubbi sono affiorati e si è lentamente rafforzata la visione critica. Il nostro scopo è stato raggiunto.

2006DonMilani-02

Questi risultati sono stati più estesi nei bambini delle quinte classi, segno che un anno in più consente ai bambini una maggiore capacità nel lavoro di elaborazione critica; inoltre, ha avuto la sua importanza la maggiore capacità di attenzione.

MARKETING ED APP PER BAMBINI

Children Using SmartphonesI videogiochi sono entrati a pieno titolo nella vita delle persone del terzo millennio. Naturalmente, si intendono quelle che possono accedere ad un computer. Non sono l’intera umanità, ma comunque alcuni miliardi di persone.
L’atteggiamento degli studiosi di fatti umani, psicologi e non, è sempre oscillato tra i due poli teorizzati da Umberto Eco, ovvero gli apocalittici (in genere pessimisti) e gli integrati (in genere ottimisti). Sulle prime hanno prevalso gli apocalittici e vasta letteratura scientifica è stata generata per mettere in guardia sugli effetti “devastanti” che avrebbero avuto i videogiochi su bambini e ragazzi: erano loro i principali consumatori grazie alle console che si attaccano al televisore. Lentamente, però, gli schermi dei computer degli adulti si sono popolati di videogames ed allora il fenomeno è diventato più complicato da stigmatizzare. Persone normalissime, padri di famiglia, manager efficienti, passavano tempo ai videogiochi senza perdere “mordente”, anzi…
Comincia a farsi strada, quindi, l’idea che non è detto che i videogiochi facciano solo male e che tutti i manufatti umani, compresi quelli culturali come i videogames, producono effetti in virtù dell’uso che se ne fa (o che si lascia fare, nel caso dei minori). I software ludici sono evoluti al punto da diventare strumenti per la formazione o supporti per interventi di psicoterapia.
Si è arrivati anche oltre. La pratica ludica con i computer ha permesso di notare che è possibile sfruttare a livello sociale filosofie e comportamenti innescati dai videogiochi: un esempio ne è la gamification. Questa consiste nell’usare alcune “meccaniche ludiche”, alcuni comportamenti e alcune gratificazioni che fanno abitualmente da “rinforzo” nei videogiochi, per generare delle condotte virtuose nella vita reale. Vi sono numerose teorizzazioni in proposito ed anche molti esempi di tentativi che hanno dato buon esito.
Proprio per la loro forza gratificante, i videogiochi possono essere anche usati per aggirare le normali difese coscienti delle persone. Accade con gli adulti smaliziati, accade (più facilmente) con bambini e ragazzi. Su La Repubblica del 15 luglio 2014 è apparso un articolo di Alessandro Longo e Vera Schiavazzi: “TrAppola per bambini”. Nell’approfondita disamina si illustrano gli effetti di alcune tecniche dei venditori di videogiochi per apparecchi portatili. Videogiochi apparentemente gratis danno la “possibilità” di comprare dei bonus o degli strumenti in più per superare livelli difficili o quadri complicati. Molti, presi dalla competizione con amici e conoscenti (accuratamente costruita nella dinamica del gioco), cedono alla tentazione e comprano. La spesa si scarica sulla carta di credito da cui viene prelevato il costo di esercizio dello smartphone o del tablet. Normalmente, nella comunità dei ragazzi che giocano online, chi compra i benefit viene deriso con l’epiteto di “shopponi”. Però esiste un 15-20% che non riesce a resistere. Nell’articolo si riportano le parole di Paolo Antonio Giovannelli, psichiatra alla guida dell’equipe che prende in carico coloro che danno segni di dipendenza da internet, l’Esc Team: “nel caso dei bambini, preferiamo parlare di uso compulsivo anziché di dipendenza. Ma questi giochi hanno regole poco chiare: se all’inizio si propongono come gratuiti e poi ti chiedono di acquistare, viene meno il principio stesso di gara. Inoltre, avallano l’importanza del denaro come elemento materiale che può sostituire la competizione e la bravura. E questa mancanza di chiarezza può avere effetti molto negative su quel 15-20 per cento di giovanissimi che a noi appare a rischio, sia per eccesso di emotività sia per capacità cognitive che possono anche essere più alte della media”.
Dunque, solo una parte dei ragazzi sono a rischio. Ma chi dovrebbe vigilare su di loro. Solo una considerazione. Ho visto bambini di sei anni trastullarsi con apparecchi da 700 euro. Ho visto smartphone lasciati usare anche a bambini più piccoli perché potessero assolvere alla funzione aggiornata di baby sitter che per tanti anni è stata della Tv. Infine, ogni apparecchio che si connette con la Rete ha una sim intestata ad un adulto, generalmente un genitore. Ma, alla fine, si sentono proprio alcuni genitori che si rammaricano che i figli non ascoltano, non studiano e stanno tutto il tempo a disposizione sui loro apparecchi in connessione.
A quando un’App per i genitori che non fanno il proprio “ruolo”?