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IL CAPITALISMO NON È ETICO, MA IPOCRITA. L’IMPOSSIBILE PASSAGGIO DALL’ETICA ALLA PUBBLICITA’

Che titolone! Adesso Paolillo si mette a fare politica da radical-chic. Mmmmmh, brutta storia. Si, potrebbe sembrare così, ma forse è il caso che procediate alla lettura di questo post. Avvertenza: sarò inevitabilmente costretto a semplificare drasticamente.

La mia riflessione prende avvio da un articolo apparso su The Vision  dal titolo provocatorio “È giusto che i brand usino le battaglie sociali per farsi pubblicità?“. Prima di addentrami in alcune affermazioni contenute nell’articolo, mi soffermo su alcune particolarità già presenti nel titolo. La prima precisazione è che non sono i brand a fare pubblicità, ma sono le aziende. I brand (in italiano “marchi”) sono i beneficiari della pubblicità. La seconda precisazione è che il dubbio contenuto sul titolo contiene una dimensione etica, una dimensione che presuppone un comportamento “giusto” e uno “sbagliato”. Questa considerazione pecca di ingenuità ed ora illustro il perché.

Un’azienda che decide di ricorrere alla pubblicità per aumentare le vendite mira, semplicemente, ad ottenere il miglior profitto possibile. Al contrario del “guadagno“, che è solo il ricavo al netto delle spese, il profitto intende una spinta a guadagnare il più possibile, sempre. Tanto che il termine “profitto“, che dalla matrice latina prende il senso di progresso/giovamento, indica una condizione ancor prima che un guadagno.

Il profitto nel nostro tempo è uno degli indicatori di un più complesso sistema economico basato sulla proprietà privata: il famigerato Capitalismo! Per un imprenditore-tipo ai tempi del capitalismo, il profitto è l’unico faro e, nei casi di capitalismo “selvaggio” (liberale), si è disposti a qualsiasi cosa pur di ottenere il profitto, quello più ampio possibile.

Per tutte queste ragioni appare proprio ingenuo che qualcuno si chieda se sia giusto usare le battaglie sociali per farsi pubblicità (quindi profitto). Si usa qualsiasi emozione, concetto, fenomeno, posizione sociale, affermazione, se questa porta ad aumentare le vendite e, quindi, il profitto. Che ci piaccia o meno.

UNO STUDIO SULLA PUBBLICITA’ TELEVISIVA – Dai tagli nel montaggio all’ansia

dal sito (chiuso) psicologiadellaudiovisivo.it ripropongo questo articolo del 2007 a firma Stefano Paolillo e Lucilla Bartocci

L’intervista a Rosa Moi è stata preceduta da due avvenimenti. I primo è stato il racconto informale da parte della stessa della vita con i “ragazzi” della cooperativa; il secondo è stato il nostro desiderio di andare più a fondo sugli effetti collaterali della pubblicità televisiva. Gli effetti che Rosa Moi raccontava dei suoi pazienti ci generava la sensazione che gli spot fossero diventati esageratamente frenetici, soprattutto per alcuni tipi di personalità. Abbiamo così ideato lo studio che proponiamo.

L’assunto iniziale è stato che la successione dei tagli nel montaggio degli spot fosse diventato troppo rapido. Il “troppo” andava meglio definito, per cui abbiamo dovuto trovare un termine di confronto. Lo abbiamo cercato negli altri manufatti audiovisivi che, contenporaneamente, vengono proposti insieme agli spot. I programmi, quindi, ma anche i telegiornali o i film . La nostra intenzione “dare un’occhiata”: una sorta di ampia e curiosa esplorazione.

Il primo problema che abbiamo affrontato è stato quello di definire il campione su cui compiere l’osservazione. L’intero universo degli spot pubblicitario sarebbe diventato un lavoro mastodontico. Ci siamo accontentati di seguire l’onda del “massimo flusso” delle persone e abbiamo scelto di vedere ciò che vede il pubblico delle reti generaliste. Anche così il numero di spot rimaneva consistente quindi, per poter avere un panorama abbastanza vario, abbiamo scelto di rilevare gli spot in un periodo ampio (tre mesi) in cui registrare con metodo random. Infine, il nostro campione si è composto di 263 spot, di vario taglio e di varie tipologie di prodotto.

Qualche parola va spesa per illustrare i criteri che ci hanno guidati alla realizzazione delle categorie per “generi di prodotto” in cui raggruppare gli spot . La prima considerazione è che, usando il metodo random per la rilevazione, non avremmo avuto l’intero panorama dei prodotti pubblicizzati: le categorie sarebbero, dunque, state realizzate sugli spot effettivamente registrati. Abbiamo definito, poi, delle categorie di prodotto con criteri di ragguppamento che ci mettessero dalla parte di chi vede gli spot, ovvero le persone che dovrebbero usare i prodotti pubblicizzati. Per cui nella categoria “alimentazione” sono finiti sia i cibi sia le bevande; nella categoria “tecnologia per lo spostamento” sono stati aggregati tanto le valigie quanto le automobili. Ne sono nate delle metacategorie che, di fatto, ne raggruppavano altre: prodotti chimici, prodotti tecnologici, servizi, più altre semplici come alimentari, commercio e strutture di vendita, editoria di informazione e di intrattenimento. In quest’ultima sono confluiti sia giornali e libri, sia i prodotti televisivi. Per i dati in dettagli si può consultare l’appendice a fondo pagina.

Al momento di trarre le conclusioni della nostra osservazione è apparso evidente che la nostra impressione iniziale era ampiamente confermata. La frequenza con cui si susseguono i tagli negli spot esaminati è decisamente superiore agli altri programmi . Abbiamo pensato di ipotizzare alcuni possibili effetti di questa frenesia.

La considerazione teorica che ci ha guidati è che “ la televisione, soprattutto quando le sequenze sono rapide, provoca successioni di Reazioni di Orientamento senza lasciare il tempo per la chiusura, ossia per delle risposte motorie, verbali o cognitive che consentano di integrare le informazioni su base cosciente, di farne una decodifica ” [Oliverio Ferraris, 2004].

Dunque, un’effetto c’è. La letteratura psicologica sugli effetti della Risposta di Orientamento è sterminata. Noi abbiamo rintracciato alcuni elementi che sostenevano l’assunto che questi ritmi degli spot potessero avere degli effetti non immediatamente visibili.

Il primo è sul fenomeno della non-attenzione . Nella visione della televisione si instaura uno stato particolare di Non Attenzione. La persona, attraverso un continuo spostamento dello sguardo che riduce al minimo i tempi di fissazione, ha un effetto di non attenzione che è assimilabile al comportamento di fuga . Tale comportamento è una delle possibili risposte che seguono l’ansia e l’allarme. Si esprime in questo modo un elevato livello di Reazione di Orientamento (allarme) con un bassissimo livello di attenzione. Una “occhiata” è uno sguardo rapido che si caratterizza per una fissazione temporanea dell’oggetto seguita da un rapido e brusco spostamento dello sguardo dall’oggetto osservato. In queste condizioni il soggetto si sente in allarme, il sistema nervoso viene eccitato e pronto alla fuga senza che egli ne sappia il motivo, poiché non c’è un’attenzione efficace [Ruggieri, 1987]

Intorno alla fruizione televisiva, quindi, esistono delle condizioni che possono indurre ansia nelle persone, anche se non c’è violenza. Che tipo di effetto può avere e come può influire nella vita delle persone? Ci soccorre ancora la letteratura in tal senso che ci suggerisce che la persistenza di uno stato d’ansia può scaturire in una condizione di disagio o, addirittura, di malessere. La Reazione di Orientamento , se mantenuta attiva per un tempo prolungato, infatti, ricrea una situazione di immobilizzazione tipica dello stadio che precede l’attacco/fuga in caso di minaccia. “ Tutti i muscoli finiscono col trovarsi in uno stato di contrazione isometrica (…) essa provoca un elevato consumo di ossigeno a livello cellulare del tessuto muscolare e soggettivamente una percezione di “tensione” (che diventa anche tensione psichica)” [Ruggieri, 1988]. Ma se non riusciamo ad elaborare questa esperienza, perché lo spot non ci lascia il tempo di “chiudere” la nostra esperienza, allora è molto probabile che questa sensazione di malessere non venga neanche a coscienza : attribuiremo il nostro indistinto malessere ad un a cattiva digestione o al fidanzato che non chiama.

Gli effetti appena esposti sono deliberatamente cercati dai pubblicitari o sono un effetto parassita? Per provare qualche traccia abbiamo letto i risultati ottenuti dalle frequenze di taglio dei nostri spot con le considerazioni appena esposte. La considerazione iniziale, lapalissiana, è che il primo risultato che uno spot pubblicitario deve ottenere è quello di essere visto, per cui mira a catturare l’attenzione . Il montaggio filmico è uno degli elementi principali di questa intenzione e la frequenza con cui si succedono le varie inquadrature può essere uno dei metodi. Questa frenesia filmica potrebbe anche essere indotta dalla necessità di riuscire a compiere una narrazione completa in pochi secondi ma, usando una metafora, la sintesi dei versi poetici non viene dalla quantità di parole messe in un singolo verso ma dalla capacità evocativa del minor numero di parole. Possiamo ipotizzare che la tecnica del montaggio serrato punti proprio a tenere alta la risposta d’ansia: una specie di strada breve verso l’attenzione dello spettatore. Se questa tecnica viene usata deliberatamente allora ne avremmo dovuto trovare traccia nelle tipologie di spot e, quindi, il ritmo dei tagli dovrebbe variare in virtù del pubblico di riferimento (target). In effetti abbiamo trovato che esiste una tendenza ad accelerare o rallentare il ritmo a secondo del tipo di spot. La media degli spot dei prodotti alimentari e dei prodotti tecnologici per lo spostamento è superiore alla media del campione. Ma il ritmo sale vertiginosamente per i prodotti tecnologici per la ricreazione: nel nostro campione questi prodotti erano tutti destinati ai bambini. Possiamo pensare, quindi, che quando si prova a indurre all’acquisto dei bambini (magari spingendoli al nag factor , alla richiesta insistente e lamentosa) i pubblicitari puntino proprio sulla minore capacità dei bambini di elaborare l’esperienza della visione di uno spot così frenetico. Ardita conclusione, ma neanche troppo se pensiamo che “ per riuscire a vendere, gli esperti in marketing si avvalgono di tecniche raffinate. Essi non cercano di convincere con argomenti o ragionamenti, ma di aprire una falla nello spirito del detinatario per insinuarvi un’opinione o provocare un comportamento senza che costui si renda conto del tipo di intervento che si sta facendo su di lui ” [Oliverio Ferraris, 2004].

Tutti i dati raccolti e tutte le considerazioni fatte ci inducono a continuare ad esplorare le forme degli audiovisivi, nel tentativo di coglierne aspetti non evidenti o indici di trasformazioni. Ne daremo ancora notizia in queste pagine.

Bibliografia
– Oliverio Ferraris, A.; “TV per un figlio”; Bari 2004; Editori Laterza
– Ruggieri, V.; “Semeiotica dei processi psicofisiologici e psicosomatici”; Roma, 1987; Il Pensiero Scientifico
– Ruggieri, V.; “Mente corpo malattia”; Roma, 1988; Il Pensiero Scientifico

DATI RIASSUNTIVI

Il campione è composto da 263 spot, registrati dall’agosto all’ottobre 2005

Definizione del “taglio”
Il montaggio filmico è fatto di vari elementi. Tra questi il taglio (cut) è quello che obbliga lo spettatore ad una operazione di ricerca di nesso tra l’immagine precedente e quella successiva . Nella grammatica cinematografica questi elementi servono per “selezionare, mettere in evidenza gli elementi significanti, quelli che lo spettatore deve individuare”
[Rondolino – Tomasi, “Manuale del film”, 1995, UTET]