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IL MARKETING BOOMERANG DEI GIORNALI

Vi sarà capitato, se ricevete i post delle testate giornalistiche on line sui social, di trovare la notizia che vi stuzzica la curiosità o l’interesse. Cliccate sopra e si apre la pagina on line dell’articolo che però, dopo poche righe si interrompe. Lo segue un avviso che quell’articolo è un contenuto a pagamento e, se vuoi continuare a leggerlo, devi abbonarti (addirittura abbonarti, neanche pagare il singolo articolo!).

Una strategia di marketing, dunque. Prima ti faccio venire l’acquolina e poi te lo nego, dicendoti che devi pagare per averlo. Alla base c’è la supposizione che il lettore, avendo capito che è interessato a quel contenuto, sia disposto a pagare un abbonamento per poter leggere quello e altri articoli. Si, potrebbe essere un buon ragionamento. C’è un “però”.

Però il lettore potrebbe anche viverla diversamente. In questi post con queste notizie civetta non c’è mai scritto “articolo a pagamento“, così la delusione nel lettore diventa frustrazione e indispettimento nei confronti di chi lo aveva illuso. A maggior ragione perché le testate hanno l’abitudine di offrire anche articoli gratuitamente, per cui è probabile che anche quell’articolo potesse essere gratuito. Non solo. Quando si fa ripetutamente l’esperienza di questa delusione, ci si sente presi in giro e, quindi, l’effetto su di noi potrebbe essere quello di perdita della fiducia nella testata, perché “se mi hanno mentito su questo, potrebbero mentirmi su altro“.

Ecco che una strategia di marketing editoriale attraverso i social potrebbe diventare un boomerang. Volete la prova? Chiedetevi, visto che questa tecnica viene ormai usata da alcuni anni, come mai non sia diventata la principale fonte di sostentamento delle testate nelle versioni on line. Andate a cercare i numeri e scoprirete che è così. Improvvisazione ingenua o sciatteria? O forse entrambe?

IL CAPITALISMO NON È ETICO, MA IPOCRITA. L’IMPOSSIBILE PASSAGGIO DALL’ETICA ALLA PUBBLICITA’

Che titolone! Adesso Paolillo si mette a fare politica da radical-chic. Mmmmmh, brutta storia. Si, potrebbe sembrare così, ma forse è il caso che procediate alla lettura di questo post. Avvertenza: sarò inevitabilmente costretto a semplificare drasticamente.

La mia riflessione prende avvio da un articolo apparso su The Vision  dal titolo provocatorio “È giusto che i brand usino le battaglie sociali per farsi pubblicità?“. Prima di addentrami in alcune affermazioni contenute nell’articolo, mi soffermo su alcune particolarità già presenti nel titolo. La prima precisazione è che non sono i brand a fare pubblicità, ma sono le aziende. I brand (in italiano “marchi”) sono i beneficiari della pubblicità. La seconda precisazione è che il dubbio contenuto sul titolo contiene una dimensione etica, una dimensione che presuppone un comportamento “giusto” e uno “sbagliato”. Questa considerazione pecca di ingenuità ed ora illustro il perché.

Un’azienda che decide di ricorrere alla pubblicità per aumentare le vendite mira, semplicemente, ad ottenere il miglior profitto possibile. Al contrario del “guadagno“, che è solo il ricavo al netto delle spese, il profitto intende una spinta a guadagnare il più possibile, sempre. Tanto che il termine “profitto“, che dalla matrice latina prende il senso di progresso/giovamento, indica una condizione ancor prima che un guadagno.

Il profitto nel nostro tempo è uno degli indicatori di un più complesso sistema economico basato sulla proprietà privata: il famigerato Capitalismo! Per un imprenditore-tipo ai tempi del capitalismo, il profitto è l’unico faro e, nei casi di capitalismo “selvaggio” (liberale), si è disposti a qualsiasi cosa pur di ottenere il profitto, quello più ampio possibile.

Per tutte queste ragioni appare proprio ingenuo che qualcuno si chieda se sia giusto usare le battaglie sociali per farsi pubblicità (quindi profitto). Si usa qualsiasi emozione, concetto, fenomeno, posizione sociale, affermazione, se questa porta ad aumentare le vendite e, quindi, il profitto. Che ci piaccia o meno.

SPOT SOCIALI

Lo spot pubblicitario è una delle forme più sofisticate di comunicazione audiovisiva. La necessità di coniugare rapidità ed efficacia nella comunicazione rende questa forma di video particolarmente difficile. Questa complessità, che poi determina la forma finale, dipende dagli scopi e dalle strategie di diffusione degli spot. Generalmente, gli spot sociali sono una parte di una campagna più ampia e rappresentano lo strumento destinato a raggiungere la massa più ampia di persone.

Le campagne sociali – quindi anche gli spot – avrebbero lo scopo di indurre un cambiamento di un dato comportamento nelle persone. Comportamenti che riguardano tanto i comportamenti autolesionisti (droga, aids, incidenti, alcool…), quanto i comportamenti prosociali (volontariato, raccolte fondi, donazione organi…). In teoria, esse sono sostanzialmente una “comunicazione persuasoria su idee e tematiche di interesse pubblico, volta ad accrescere e valorizzare il capitale sociale di un paese, a favorire la crescita della società civile intorno a valori condivisi e condivisibili in prospettiva universalistica (…) Non vi è dubbio che il successo della comunicazione dipenda dalla condivisione di un “mondo comune” di valori e di significati, dall’osservanza di un insieme di regole sociali che sempre governano la comunicazione” [Gadotti-Bernocchi; 2010]. Anche il presidente della famigerata istituzione di Pubblicità Progresso afferma “ La pubblicità sociale ha lo scopo di affrontare questioni di grande importanza civile, coinvolgendo il pubblico di riferimento per indurlo a riflettere sulle tematiche affrontate. L’obiettivo di questo genere di pubblicità non consiste semplicemente nell’invitare a riflettere, ma anche nella spinta a mettere in atto determinati comportamenti” [www.pubblicitaprogresso.org].

Obiettivi ambiziosi, quindi.

La domanda fondamentale è: può un prodotto audiovisivo modificare un comportamento? Generalmente no. Infatti, non sono pochi gli studi che pongono molti dubbi all’efficacia di queste campagne tanto da sottolineare come “in una società decomposta nei continui sviluppi della modernità non si debba escludere che  – al di là delle stesse intenzioni –  la comunicazione sociale possa produrre, anziché inclusione e solidarietà, esclusione e divisione” [ibidem]. La ragione è semplice da capire se, come invece accade di partire dalle intenzioni persuasorie di chi fa queste campagne, si parte dalle motivazioni dei comportamenti stigmatizzati. Per quali ragioni si fa uso di droga? Cosa può controbilanciare queste spinte autolesioniste? O anche cosa spinge all’anoressia, gli incidenti stradali, il gioco d’azzardo? O, ancora, come si può affrontare una campagna contro l’omofobia o l’antisemitismo se non si conoscono le ragioni psichiche che li generano? Se non si compie una seria analisi preventiva su questi aspetti, ci saranno molte possibilità che la campagna sociale si trasformi in danaro sprecato. A titolo di esempio di campagna risultata inutile potete guardare questo spot sulla guida in stato di ebbrezza che ripercorre gli argomenti standard in questi tipi di spot, commissionato dalle province di Pesaro e Urbino.

Raramente ne viene ricordato uno e, tanto meno, ha inciso nei comportamenti. Hanno influito molto di più le sanzioni pesanti in caso di guida sotto l’influsso dell’alcool perché la possibilità di perdere (soprattutto nei neo patentati) la patente presa da poco era una dissuasione che agiva direttamente sulle motivazioni, andando ad equilibrare la spinta dei comportamenti di emulazione tra pari.

Come è facile immaginare, dietro la denominazione “spot sociale” esistono una varietà di comportamenti diversi che essi cercano di sollecitare e vari sono i linguaggi a cui fare ricorso per provare a innescare i comportamenti desiderati. Gadotti e Bernocchi ne identificano ben otto

  • sentimentale-commuovente-patetico
  • drammatico-violento-scioccante
  • aggressivo-accusatorio-di denuncia
  • rassicurante-gratificante-positivo
  • divertente-umoristico-ironico
  • provocatorio-irriverente-trasgressivo
  • informativo-descrittivo-documentaristico

Questa classificazione, pur se ampia, non permette di capire come vengano realmente costruiti questi spot, tanto deliberatamente quanto inconsapevolmente perché mancano le dimensioni psicologiche. Proviamo ad elencarne qualcuna.

 

Colpevolizzare. È l’emozione più ricercata perché quella più forte da parte di chi vuole il cambiamento. Smettere di fumare, guidare più piano, non usare droghe, non lasciar morire i poveri, sono tra le colpe che la motivazione intimidatoria cerca di indurre. Genera concordia in chi non ha i comportamenti stigmatizzati ma viene rifiutato (in vari modi) da chi è soggetto. Vedi un esempio

Identificare. Il motto potrebbe essere “mettiti nei suoi panni” e rappresenta uno dei particolari meccanismi della psiche per indurre l’imitazione, puntando all’empatia di chi vede lo spot rispetto alle vicende rappresentate dai personaggi nello spot stesso. Vedi un esempio.

Positivizzare. Provare a dare una valenza “anche positiva” a qualcosa che viene vissuta con repulsione o diffidenza è una delle forme emozionale che può avvicinare a situazioni da cui le persone rifuggono, come i disabili, gli immigrati, i nomadi. Vedi un esempio.

Ridicolizzare. Smontare il fascino che esercitano alcune condotte molto apprezzate in ambienti omogenei  – come quello degli adolescenti –  mira a far resistere alla tentazione in quelli che vorrebbero farlo ma non osano. Non funziona con chi ha già simili comportamenti. Vedi un esempio.

Informare. Questo spot, non avendo l’assertività tipica di chi cerca di cambiare un comportamento, lascia agli utenti la possibilità di scegliere, quindi  non mette in moto i meccanismi di difesa/aiuto che le persone mettono abitualmente in azione nei confronti degli spot pubblicitari. Vedi un esempio.

Cavalli di Troia. Quando, con accostamento psicologicamente truffaldino, un’azienda avvicina un tema sociale al proprio marchio. E’ un’operazione di marketing brutale che risulta efficace al “sentiment” di un brand, ovvero all’etichetta emozionale che si vuole dare al marchio di un’azienda. Vedi un esempio.

 

Uno degli aspetti che depotenzia gli spot sociali è che essi non tengono conto delle naturali difese psicologiche che mettono in atto gli autori dei comportamenti stigmatizzati. Chi beve troppo alcool, o guida pericolosamente, o consuma droghe, o gioca alle slot machine, ha già fatto un lavoro su se stesso di depotenziamento della responsabilità, quindi sarà poco incline a credere a simili messaggi pubblicitari. Quando le persone vengono messe di fronte ad un proprio dolore mettono in modo vari comportamenti per non soffrire. Eccone alcuni.

Annullamento: si mettono in atto pensieri e comportamenti dal significato opposto ed ha un significato espiatorio.

Diniego: si rifiuta di riconoscere esperienze penose, impulsi, dati di realtà o aspetti di sé o del mondo percettivo.

Isolamento: consiste nell’isolare un pensiero o un’esperienza sgradevole dalla carica affettiva a essi connessa o dal contesto significativo in cui sono inseriti.

Negazione: consiste in una rimozione dei contenuti che sono fonte di dolore così che possano accedere alla coscienza alla sola condizione di essere negati (in questo caso la persone è assolutamente inconsapevole di questa difesa).

Proiezione: realizzata attraverso l’attribuzione ad atri di un proprio aspetto ritenuto negativo, per cui la persona può biasimarlo in altri sentendosene immune.

Rimozione: è un’esclusione dalla coscienza di rappresentazioni connesse a una pulsione che, se fosse soddisfatta, sarebbe in contrasto con alte esigenze psichiche.

Evitamento: è la forma più arcaica di difesa, ovvero evitare letteralmente la fonte di dolore. Cambiare canale. Andarsene.

 

La pubblicità sociale è una tra le possibili forme pubblicitarie ed è una forma di comunicazione persuasuoria. Al contrario di quella commerciale, deve “vendere” un modello di comportamento e non un prodotto o un servizio. Entra direttamente col mondo relazionale di chi la guarda e, quindi, ha molte probabilità di ritrovarsi la tre maglie della rete difensiva dei destinatari del messaggio. Oppure di generare effetti collaterali nelle persone che non sono il target ma che subiscono il messaggio indifferenziato di questo tipo di comunicazione. Per questa ragione, oltre che ad una seria analisi psicologica del messaggio, del linguaggio filmico e delle forme di diffusione, bisogna costruire le condizioni perché il messaggio sia accettato. Come sottolinea Robert Cialdini, uno dei massimi studiosi della persuasione, “oltre a porre l’attenzione al contenuto di un messaggio, dobbiamo concentrarci anche su ciò che accade immediatamente prima della trasmissione del messaggio, perché quel momento serve da acceleratore al nostro messaggio” [Cialdini in Psicologia Contemporanea n. 261].

Per finire, vi mostro uno spot che, a mio parere, contiene gli elementi adatti per costituire un esempio positivo di un comportamento adatto ad una comunicazione sociale.

STEREOTIPI DI RITORNO – LA DONNA IN PUBBLICITA’

Istruzioni per l’uso. Sarà una lunga argomentazione che mi attirerà le ovvie accuse di maschilismo. Invito tutte le lettrici ed i lettori ad essere onesti, prima che obiettivi. Per facilitare la lettura critica, partirò dalle conclusioni.
C’è forte l’impressione che certi tipi di analisi di fenomeni psicosociali possano essere viziate da uno “stereotipo di ritorno”, cioè l’uso di uno stereotipo per contrastare un altro stereotipo. La realtà, fortunatamente, è molto più complessa e sfumata. E’ utile affrontare la comprensione dei fenomeni facendo attenzione a limitare al massimo l’influenza delle proprie convinzioni. Ciò vale soprattutto nel caso della comunicazione attraverso i media. Sarebbe sempre auspicabile, poi, il libero e onesto confronto delle varie opinioni quando si fa comunicazione sugli stereotipi, così che il pubblico possa formarsi un’opinione altrettanto liberamente. Veniamo alla riflessione.
In un vecchio numero della rivista Psicologia Contemporanea (n. 234 del 2012) furono pubblicati tre articoli sulla visione della donna sui media a firma di Adriano Zanacchi, Paola Panarese e Anna Oliverio Ferraris. I tre pezzi provano ad illustrare come i media italiani, dalla televisione alla pubblicità, “propongono” l’immagine della donna. Oltre gli aspetti puramente illustrativi, vengono fatte anche una serie di affermazioni che – a ben vedere – generano delle perplessità.
Si comincia con la constatazione che (1)nella dilagante e intrusiva iconografia pubblicitaria di spot televisivi, cartelloni stradali, pagine stampate e pubblicità in rete, un posto preminente è occupato dalle immagini femminili, il cui uso smodato e deformante finisce per generare discriminazione e violenza nei confronti delle donne” [Zanacchi]. Un’affermazione impegnativa che compie un nesso di effetto diretto e indiretto tra l’uso dell’immagine femminile e la violenza. Le ragioni, poi, addotte al comportamento dei media sono che (2) le donne hanno generalmente la funzione di responsabile dell’acquisto, ma anche perché l’esibizione del corpo femminile attira l’attenzione. Proprio l’uso commerciale della donna (3)si traduce molto spesso nella diffusione di contenuti di pesante volgarità in cui l’immagine femminile viene decisamente distorta”. Viene da domandarsi: distorta rispetto a cosa? Il concetto di “immagine” è per definizione un aspetto dei media, per cui si può essere indotti a pensare che l’Immagine Esatta della donna sia comunque veicolata dai media: altri media. Poco dopo, nell’articolo, Zanacchi afferma che (4)il femminismo, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, non ha saputo reagire e incidere significativamente sulla raffigurazione della figura femminile nella pubblicità”. Tra le conseguenze – sempre secondo l’autore – (5) il possibile diffondersi dell’insoddisfazione, nelle donne stesse, per il proprio corpo, in particolare in quelle più giovani. Al tempo stesso, la stessa pubblicità favorirebbe (6)la tendenza a svendere il corpo (…) per il conseguimento di vantaggi economici e non”. Infine, per chiudere le citazione dall’articolo di Zanacchi, (7)i messaggi veicolati dalla pubblicità che sviliscono o mercificano il corpo femminile contribuiscono a compromettere il rispetto verso le donne, possono favorire discriminazioni e subalternità a loro danno sul lavoro, nelle istituzioni, in politica, rinforzando una spirale di disprezzo e di dominio”. Proviamo a ragionare un po’ su tutte queste affermazioni e vediamo perché, riflettendoci sopra, i conti non tornano. L’impressione è che le eccezioni mosse dall’autore siano frutto di un’immagina distorta e contraria a quella denunciata.
A) Nell’affermazione 1 non esiste un nesso diretto tra la violenza e la visione della donna da parte della pubblicità. E’ facile notare che popolazioni che non godono del bombardamento di pubblicità distorta di noi italiani (basti pensare al trattamento delle donne in India, in molti paesi africani o islamici radicali) trattano la donna come degli oggetti, in cui la violenza è vista come un diritto.
B) Nell’affermazione 2 si profila una donna casalinga che compie le spese per la famiglia: un perfetto stereotipo. Fortunatamente il mondo delle donne è molto più variegato di quello immaginato come target in questa affermazione.
C) Assolutamente d’accordo con l’affermazione 3: effettivamente alcuni pubblicitari (come alcuni giornali scandalistici) cercano di suscitare suggestioni legate alle donne volgari, quasi sempre legate alla sfera sessuale.
D) Nell’affermazione 4 si proclama il fallimento del movimento femminista rispetto all’uso della donna in pubblicità. Il movimento femminista ha ottenuto tantissimi risultati e molte delle conquiste di allora sono ormai considerate acquisite nella nostra cultura, ma questo movimento non era onnipotente. Il mondo della pubblicità, da oltre un decennio, è ampiamente frequentato dalle donne e non si hanno notizie di clamorose proteste delle stesse per come le agenzie pubblicitarie trattano le figure femminili. Corrisponde al vero che l’immagine della donna emanata dai media, che sia nella pubblicità o nelle icone dello star system, può indurre l’insoddisfazione del proprio corpo. Più di una volta le donne, anche giovani, hanno stigmatizzato i programmi di ritocco fotografico che sono largamente usati per le foto destinate alla diffusione dell’immagine delle donne-oggetto-soggetto dei media.
E) Appare, invece, una fuga in avanti l’affermazione 6. L’immagine della donna sui media promuove modelli di donne che usano anche l’avvenenza per fare strada, così come avviene nella vita. Chi afferma che “le donne non usano l’avvenenza e la disponibilità sessuale per trarre vantaggi” non è onesto. Direi che le donne che decidono di approfittare di questa dinamica (vecchia quanto il mondo e probabilmente anche con risvolti biologici-evolutivi) non hanno avuto bisogno dell’immagine della donna nei media per trarre ispirazione.
F) Per l’affermazione 7 vale quanto detto per l’affermazione 1. Le ragioni della posizione subalterna delle donne in larghe porzioni del mondo, oltre che in molte situazioni di casa nostra, sono molto complesse e antiche. Nel nostro mondo occidentale sta cambiando lentamente, perché tutti i cambiamenti reali sono lenti e non sempre lineari.

Nel secondo articolo di Paola Panarese illustra e commenta i risultati di una ricerca nata “per indagare la rappresentazione del genere nei diversi generi televisivi”. L’intenzione della ricerca, secondo quanto dichiara l’autrice dell’articolo è di verificare se e in quale misura gli stereotipi di genere individuate nelle passate indagini esistano ancora, siano diffusi e siano eventualmente affiancati da nuovi trend di rappresentazione della figura femminile; (8)sono stati analizzati 815 spot e 1798 personaggi” (?!). Veniamo ai risultati della ricerca. Le donne, in buona parte dei casi, (9)servono come esche comunicative, per accompagnare le immagini o decorare la scena”; ma si sottolinea anche che (10)il fatto che siano più spesso presenti e protagoniste degli spot va letto insieme al dato che le vede guidate, in molte circostanze, da voci fuori campo maschili”. Anche per quanto riguarda gli ambienti che contengono le persone, i ricercatori notano che (11)le donne prevalgono in misura schiacciante sugli uomini negli ambienti domestici, mentre sono in minoranza negli spazi pubblici, in quelli commerciali e nei luoghi di lavoro, a conferma della vecchia relazione tra donna e casalinghità, uomo e carriera lavorativa”. Infine, si entra nello specifico del linguaggio filmico usato: (12)le figure femminili sono riprese soprattutto con inquadrature ravvicinate, mentre per gli uomini prevalgono piani medi o campi lunghi. E’ questo un chiaro segno delle differenze nello sguardo sui generi: delle donne sono ripresi soprattutto volto e spalle, parti del corpo o particolari del viso. La prevalenza di primi e primissimi piani femminili, certamente funzionale all’esaltazione della bellezza dei visi, contribuisce anche a enfatizzarne l’emotività”. Proprio in relazione a quest’ultima affermazione, l’autrice si lancia in un’ardita deduzione: (13)il 60% dei personaggi per cui è stata rilevata un’esibizione delle emozioni accentuata e frequente è composto da donne. Prevalgono così i personaggi femminili i cui bei visi in primissimo piano lasciano trasparire ogni tipo di emozione. Donne rappresentate come spontanee e incontrollate e, forse per questo, bisognose della costante presenza sullo sfondo di uomini ripresi da una certa distanza”. Purtroppo non viene riportata nell’articolo la metodologia usata nella ricerca, per cui non possiamo valutarne l’affidabilità dei risultati. Analizziamo queste affermazioni.
G) Nell’affermazione 8, però, viene scritto che, oltre che gli spot, sono stati analizzati 1798 personaggi. In che senso “personaggi”? Persone reali o personaggi di narrazioni (film, fiction, serial…)? Personaggi intesi come Vip? Non è dato saperlo.
H) Nell’affermazione 9, invece, si nota una certa semplicità di pensiero. Usare delle esche comunicative (donne, bambini, cuccioli, golosità…) è una tecnica vecchia quanto la comunicazione. Una tecnica ampiamente praticata in natura da una enorme varietà di specie.
I) La concomitanza di presenza di donne e di voci maschili fuori campo che le guidano (affermazione 10) lascia perplessi: in che senso “le guidano”? Soprattutto, è stata studiata la relazione, negli spot che hanno questo profilo, tra prodotto, target e messaggio?
J) L’affermazione 11 sottolinea in modo negativo lo squilibrio di presenza di donne negli ambienti domestici rispetto a quelle degli uomini negli spazi sociali (lavoro, commercio…). La condizione descritta proviene indubbiamente dal passato ma, secondo i dati statistici a disposizione di tutti, riflette ancora sostanzialmente la situazione del paese in cui l’occupazione femminile è ancora inferiore a quella maschile. Molto probabilmente, invece, non corrispondono alla realtà le proporzioni delle presenze rispetto a quelle proposte dalla pubblicità.
K) Anche nell’affermazione 12 si nota un po’ di semplicità nella riflessione. Il linguaggio audiovisivo è molto complesso e si sa che le inquadrature non sono scelte a caso. Purtroppo, non risultano nell’articolo inferenze tra le inquadrature (e magari anche con movimenti di macchina, stili fotografici e scelte di montaggio) e i prodotti. Se si inquadra il dettaglio di un collo femminile in uno spot di assicurazioni, può effettivamente può nascere il sospetto di uso strumentale: molto meno se lo stesso collo compare in uno spot per una crema idratante.
L) Infine – siamo all’affermazione 13 – viene proposta una relazione tra l’emotività rappresentata delle donne e la relazione di importanza tra uomo e donna (il primo sullo sfondo che “conforta e rassicura” le donne emotive in primo piano). Audace tesi sulla differenza di inquadrature sulle persone tra uomini e donne. Anche in questo caso non si hanno, purtroppo, indicazione su quali situazioni si è riscontrato.
Giungiamo, quindi, all’articolo di Anna Oliverio Ferraris sullo stesso tema. Cominciamo subito con un’affermazione esemplare: “All’inizio del 2007, in una pubblicità di Dolce e Gabbana si vedeva un giovane aitante a torso nudo chino su una ragazza, che lui teneva bloccata a terra per i polsi, mentre altri quattro giovani maschi, dall’espressione proterva, stavano attorno guardando impassibili la scena e dando l’impressione non solo di approvare la violenza ma anche di attendere il proprio turn. L’oggetto del desiderio reclamizzato in quella pubblicità era un pantalone jeans, la rappresentazione utilizzata per imporlo all’attenzione del pubblico era quella di uno stupro di gruppo”. Accidenti!!! Nella foto in coda a questo articolo potete vedere la foto in questione. Non vorremmo che l’interpretazione della foto pubblicitaria potesse avere delle altre interpretazioni. Proviamo ad ipotizzarne qualcuna. A) Lei ha detto a lui che è impotente (visto che tentava di provocarlo sessualmente col suo abbigliamento) e lui si è risentito: gli altri uomini disapprovano il suo gesto. B) La donna è la sorella di lui e voleva drogarsi per l’ennesima volta e lui prova a fermarla: gli altri uomini segretamente hanno tutti una tresca con lei. C) I due sono protagonisti di un gioco erotico di dominio/sfida reciproco e gli altri uomini sono stati invitati dai due amanti per assistere al loro gioco. D) Gli altri uomini sono omosessuali indispettiti dall’atteggiamento del loro amico che li provoca interagendo con la ragazza. Insomma, l’interpretazione di un’opera creativa (una foto pubblicitaria lo è) è sempre un atto arbitrario, non univoco. L’esito di questa interpretazione è sempre soggettivo e funzione delle storie e delle culture di chi la guarda.
Proseguendo nell’articolo si legge che “il corpo femminile come facilitatore di vendita non viene utilizzato soltanto nei cartelloni pubblicitari, nei giornali e negli spot televisivi, ma anche “in vivo” nelle fiere, nelle esposizioni e nei mercati di automobili e moto”. In merito a questa affermazione si possono fare almeno due considerazioni. La prima è che se viene fatto così da decenni è perché la cosa funziona: il pubblicitario si limita a sfruttare una tendenza che già esiste. La fascinazione di una bella donna ha effetti su entrambi i sessi, anche se per ragioni differenti. Se negli uomini può innescare il desiderio sessuale (generando comportamenti di acquisizione), nelle donne può generare identificazione/proiezione (io sono come lei; io vorrei essere come lei). In entrambi i casi la figura femminile ha una valenza positiva di rinforzo se associata ad un prodotto. Però, l’utilizzo della funzione simbolica del corpo di una donna è presa a prescindere come un valore negativo; infatti, la Oliverio Ferraris scrive successivamente “lo sfruttamento del corpo della donna può suscitare indifferenza o rifiuto in una parte del pubblico femminile, ma attivare processi di identificazione in un’altra parte”. Va notata la scelta lessicale. Definire “sfruttamento” la libera scelta di una donna di trarre vantaggio economico da questo fattore sembra una forzatura, l’effetto di uno stereotipo. Con questo metro di giudizio dovrebbero essere tacciate di sfruttamento tutte le donne che usano il corpo per lavorare: dalle modelle alle ballerine. E’ vero, invece, come viene affermato poco dopo che “ricorrente e intrusivo, il messaggio può installarsi nella mente dell’osservatore anche contro la sua volontà e lì lavorare a sua insaputa abituandolo a immagini, attese e interpretazioni che alla fine fa proprie”. La sedimentazione nelle memorie, più o meno conscie, di modelli comportamentali è l’architrave di tutta la comunicazione persuasiva: che sia pubblicità o propaganda. E’ anche vero, però, che questo tipo di comunicazione riesce ad avere grandi effetti solo in presenza di una predisposizione, di una disponibilità all’acquisizione di quel modello proposto.
Per concludere, non bisogna dimenticare che buona parte dell’equivoco che si potrebbe generare con questi articoli sta nella “pretesa” di dare alla pubblicità (che serve a vendere e quindi a fare profitto) una connotazione anche morale.
Per finire, un grazie alle persone (Ada, Camilla, Rosanna) con cui mi sono confrontato prima di pubblicare questo articolo

DOLCE

UNO STUDIO SULLA PUBBLICITA’ TELEVISIVA – Dai tagli nel montaggio all’ansia

dal sito (chiuso) psicologiadellaudiovisivo.it ripropongo questo articolo del 2007 a firma Stefano Paolillo e Lucilla Bartocci

L’intervista a Rosa Moi è stata preceduta da due avvenimenti. I primo è stato il racconto informale da parte della stessa della vita con i “ragazzi” della cooperativa; il secondo è stato il nostro desiderio di andare più a fondo sugli effetti collaterali della pubblicità televisiva. Gli effetti che Rosa Moi raccontava dei suoi pazienti ci generava la sensazione che gli spot fossero diventati esageratamente frenetici, soprattutto per alcuni tipi di personalità. Abbiamo così ideato lo studio che proponiamo.

L’assunto iniziale è stato che la successione dei tagli nel montaggio degli spot fosse diventato troppo rapido. Il “troppo” andava meglio definito, per cui abbiamo dovuto trovare un termine di confronto. Lo abbiamo cercato negli altri manufatti audiovisivi che, contenporaneamente, vengono proposti insieme agli spot. I programmi, quindi, ma anche i telegiornali o i film . La nostra intenzione “dare un’occhiata”: una sorta di ampia e curiosa esplorazione.

Il primo problema che abbiamo affrontato è stato quello di definire il campione su cui compiere l’osservazione. L’intero universo degli spot pubblicitario sarebbe diventato un lavoro mastodontico. Ci siamo accontentati di seguire l’onda del “massimo flusso” delle persone e abbiamo scelto di vedere ciò che vede il pubblico delle reti generaliste. Anche così il numero di spot rimaneva consistente quindi, per poter avere un panorama abbastanza vario, abbiamo scelto di rilevare gli spot in un periodo ampio (tre mesi) in cui registrare con metodo random. Infine, il nostro campione si è composto di 263 spot, di vario taglio e di varie tipologie di prodotto.

Qualche parola va spesa per illustrare i criteri che ci hanno guidati alla realizzazione delle categorie per “generi di prodotto” in cui raggruppare gli spot . La prima considerazione è che, usando il metodo random per la rilevazione, non avremmo avuto l’intero panorama dei prodotti pubblicizzati: le categorie sarebbero, dunque, state realizzate sugli spot effettivamente registrati. Abbiamo definito, poi, delle categorie di prodotto con criteri di ragguppamento che ci mettessero dalla parte di chi vede gli spot, ovvero le persone che dovrebbero usare i prodotti pubblicizzati. Per cui nella categoria “alimentazione” sono finiti sia i cibi sia le bevande; nella categoria “tecnologia per lo spostamento” sono stati aggregati tanto le valigie quanto le automobili. Ne sono nate delle metacategorie che, di fatto, ne raggruppavano altre: prodotti chimici, prodotti tecnologici, servizi, più altre semplici come alimentari, commercio e strutture di vendita, editoria di informazione e di intrattenimento. In quest’ultima sono confluiti sia giornali e libri, sia i prodotti televisivi. Per i dati in dettagli si può consultare l’appendice a fondo pagina.

Al momento di trarre le conclusioni della nostra osservazione è apparso evidente che la nostra impressione iniziale era ampiamente confermata. La frequenza con cui si susseguono i tagli negli spot esaminati è decisamente superiore agli altri programmi . Abbiamo pensato di ipotizzare alcuni possibili effetti di questa frenesia.

La considerazione teorica che ci ha guidati è che “ la televisione, soprattutto quando le sequenze sono rapide, provoca successioni di Reazioni di Orientamento senza lasciare il tempo per la chiusura, ossia per delle risposte motorie, verbali o cognitive che consentano di integrare le informazioni su base cosciente, di farne una decodifica ” [Oliverio Ferraris, 2004].

Dunque, un’effetto c’è. La letteratura psicologica sugli effetti della Risposta di Orientamento è sterminata. Noi abbiamo rintracciato alcuni elementi che sostenevano l’assunto che questi ritmi degli spot potessero avere degli effetti non immediatamente visibili.

Il primo è sul fenomeno della non-attenzione . Nella visione della televisione si instaura uno stato particolare di Non Attenzione. La persona, attraverso un continuo spostamento dello sguardo che riduce al minimo i tempi di fissazione, ha un effetto di non attenzione che è assimilabile al comportamento di fuga . Tale comportamento è una delle possibili risposte che seguono l’ansia e l’allarme. Si esprime in questo modo un elevato livello di Reazione di Orientamento (allarme) con un bassissimo livello di attenzione. Una “occhiata” è uno sguardo rapido che si caratterizza per una fissazione temporanea dell’oggetto seguita da un rapido e brusco spostamento dello sguardo dall’oggetto osservato. In queste condizioni il soggetto si sente in allarme, il sistema nervoso viene eccitato e pronto alla fuga senza che egli ne sappia il motivo, poiché non c’è un’attenzione efficace [Ruggieri, 1987]

Intorno alla fruizione televisiva, quindi, esistono delle condizioni che possono indurre ansia nelle persone, anche se non c’è violenza. Che tipo di effetto può avere e come può influire nella vita delle persone? Ci soccorre ancora la letteratura in tal senso che ci suggerisce che la persistenza di uno stato d’ansia può scaturire in una condizione di disagio o, addirittura, di malessere. La Reazione di Orientamento , se mantenuta attiva per un tempo prolungato, infatti, ricrea una situazione di immobilizzazione tipica dello stadio che precede l’attacco/fuga in caso di minaccia. “ Tutti i muscoli finiscono col trovarsi in uno stato di contrazione isometrica (…) essa provoca un elevato consumo di ossigeno a livello cellulare del tessuto muscolare e soggettivamente una percezione di “tensione” (che diventa anche tensione psichica)” [Ruggieri, 1988]. Ma se non riusciamo ad elaborare questa esperienza, perché lo spot non ci lascia il tempo di “chiudere” la nostra esperienza, allora è molto probabile che questa sensazione di malessere non venga neanche a coscienza : attribuiremo il nostro indistinto malessere ad un a cattiva digestione o al fidanzato che non chiama.

Gli effetti appena esposti sono deliberatamente cercati dai pubblicitari o sono un effetto parassita? Per provare qualche traccia abbiamo letto i risultati ottenuti dalle frequenze di taglio dei nostri spot con le considerazioni appena esposte. La considerazione iniziale, lapalissiana, è che il primo risultato che uno spot pubblicitario deve ottenere è quello di essere visto, per cui mira a catturare l’attenzione . Il montaggio filmico è uno degli elementi principali di questa intenzione e la frequenza con cui si succedono le varie inquadrature può essere uno dei metodi. Questa frenesia filmica potrebbe anche essere indotta dalla necessità di riuscire a compiere una narrazione completa in pochi secondi ma, usando una metafora, la sintesi dei versi poetici non viene dalla quantità di parole messe in un singolo verso ma dalla capacità evocativa del minor numero di parole. Possiamo ipotizzare che la tecnica del montaggio serrato punti proprio a tenere alta la risposta d’ansia: una specie di strada breve verso l’attenzione dello spettatore. Se questa tecnica viene usata deliberatamente allora ne avremmo dovuto trovare traccia nelle tipologie di spot e, quindi, il ritmo dei tagli dovrebbe variare in virtù del pubblico di riferimento (target). In effetti abbiamo trovato che esiste una tendenza ad accelerare o rallentare il ritmo a secondo del tipo di spot. La media degli spot dei prodotti alimentari e dei prodotti tecnologici per lo spostamento è superiore alla media del campione. Ma il ritmo sale vertiginosamente per i prodotti tecnologici per la ricreazione: nel nostro campione questi prodotti erano tutti destinati ai bambini. Possiamo pensare, quindi, che quando si prova a indurre all’acquisto dei bambini (magari spingendoli al nag factor , alla richiesta insistente e lamentosa) i pubblicitari puntino proprio sulla minore capacità dei bambini di elaborare l’esperienza della visione di uno spot così frenetico. Ardita conclusione, ma neanche troppo se pensiamo che “ per riuscire a vendere, gli esperti in marketing si avvalgono di tecniche raffinate. Essi non cercano di convincere con argomenti o ragionamenti, ma di aprire una falla nello spirito del detinatario per insinuarvi un’opinione o provocare un comportamento senza che costui si renda conto del tipo di intervento che si sta facendo su di lui ” [Oliverio Ferraris, 2004].

Tutti i dati raccolti e tutte le considerazioni fatte ci inducono a continuare ad esplorare le forme degli audiovisivi, nel tentativo di coglierne aspetti non evidenti o indici di trasformazioni. Ne daremo ancora notizia in queste pagine.

Bibliografia
– Oliverio Ferraris, A.; “TV per un figlio”; Bari 2004; Editori Laterza
– Ruggieri, V.; “Semeiotica dei processi psicofisiologici e psicosomatici”; Roma, 1987; Il Pensiero Scientifico
– Ruggieri, V.; “Mente corpo malattia”; Roma, 1988; Il Pensiero Scientifico

DATI RIASSUNTIVI

Il campione è composto da 263 spot, registrati dall’agosto all’ottobre 2005

Definizione del “taglio”
Il montaggio filmico è fatto di vari elementi. Tra questi il taglio (cut) è quello che obbliga lo spettatore ad una operazione di ricerca di nesso tra l’immagine precedente e quella successiva . Nella grammatica cinematografica questi elementi servono per “selezionare, mettere in evidenza gli elementi significanti, quelli che lo spettatore deve individuare”
[Rondolino – Tomasi, “Manuale del film”, 1995, UTET]