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IL CAPITALISMO NON È ETICO, MA IPOCRITA. L’IMPOSSIBILE PASSAGGIO DALL’ETICA ALLA PUBBLICITA’

Che titolone! Adesso Paolillo si mette a fare politica da radical-chic. Mmmmmh, brutta storia. Si, potrebbe sembrare così, ma forse è il caso che procediate alla lettura di questo post. Avvertenza: sarò inevitabilmente costretto a semplificare drasticamente.

La mia riflessione prende avvio da un articolo apparso su The Vision  dal titolo provocatorio “È giusto che i brand usino le battaglie sociali per farsi pubblicità?“. Prima di addentrami in alcune affermazioni contenute nell’articolo, mi soffermo su alcune particolarità già presenti nel titolo. La prima precisazione è che non sono i brand a fare pubblicità, ma sono le aziende. I brand (in italiano “marchi”) sono i beneficiari della pubblicità. La seconda precisazione è che il dubbio contenuto sul titolo contiene una dimensione etica, una dimensione che presuppone un comportamento “giusto” e uno “sbagliato”. Questa considerazione pecca di ingenuità ed ora illustro il perché.

Un’azienda che decide di ricorrere alla pubblicità per aumentare le vendite mira, semplicemente, ad ottenere il miglior profitto possibile. Al contrario del “guadagno“, che è solo il ricavo al netto delle spese, il profitto intende una spinta a guadagnare il più possibile, sempre. Tanto che il termine “profitto“, che dalla matrice latina prende il senso di progresso/giovamento, indica una condizione ancor prima che un guadagno.

Il profitto nel nostro tempo è uno degli indicatori di un più complesso sistema economico basato sulla proprietà privata: il famigerato Capitalismo! Per un imprenditore-tipo ai tempi del capitalismo, il profitto è l’unico faro e, nei casi di capitalismo “selvaggio” (liberale), si è disposti a qualsiasi cosa pur di ottenere il profitto, quello più ampio possibile.

Per tutte queste ragioni appare proprio ingenuo che qualcuno si chieda se sia giusto usare le battaglie sociali per farsi pubblicità (quindi profitto). Si usa qualsiasi emozione, concetto, fenomeno, posizione sociale, affermazione, se questa porta ad aumentare le vendite e, quindi, il profitto. Che ci piaccia o meno.

LE NOTIZIE AL BAR DIGITALE

È stata approvata in un primo passaggio la famigerata normativa europea sul copyright: questa notizia , analizzata anche dal sito valigiablu.it, non potrei linkarvela perché vìola questa norma. Ci vorranno degli altri passaggi da affrontare in sede di Unione Europea e poi i singoli Stati dovranno ratificarla. Molte polemiche sta suscitando e anche qui proviamo ad aggiungere un altro punto di vista.

Le informazioni e le notizie, da sempre, sono il terreno su cui si cimentano governi, dittature, agenzie di sicurezza, spin doctor, ma soprattutto giornali, radio, televisioni. Negli ultimi dieci anni è cresciuto molto il mondo dell’informazione nel web. Gli ipertesti, che permettono di inserire in una pagina foto, video e link, hanno reso capillare la possibilità di informare le popolazioni. Ma anche sono il terreno su cui si cimentano imprenditori, gruppi di potere con aziende editoriali, network televisivi che vogliono fare guadagni. L’Informazione è diventata merce e strumento di pressione della propaganda.

Noi cittadini stiamo in mezzo, usati e spremuti, perché da un lato c’è chi vuole usare le informazioni per farci acquisire una certa idea della realtà, dall’altro c’è chi ci chiede in cambio quanti più soldi possibile per queste informazioni. Entrambe delle intenzioni lecite, ma… C’è un “ma”. In tantissimi, da tutti i pulpiti, ci ripetono in continuazione che le democrazie hanno bisogno di una buona informazione perché possano rimanere efficienti e valide. Quindi molti prendono per buono l’adagio secondo cui “l’informazione è un diritto”. Con questa ultima normativa europea, l’Informazione diventa a tutti gli effetti una merce. Se si volesse applicare alla lettera questa normativa l’Europa vivrebbe un impoverimento della consapevolezza dei cittadini dell’Unione.

Ora a me è venuta in mente una similitudine. Si sa che nei bar i gestori, come servizio alla clientela, comprano dei quotidiani perché i clienti li possano leggere (e consumare qualcosa). Quei giornali consentono a molte persone di informarsi ed aumentare la propria consapevolezza. Provate ad immaginare se giornalisti e giornalai facessero approvare una legge che vieta ai bar di lasciare a disposizione i quotidiani. Venderebbero più copie? I clienti del bar correrebbero alla prima edicola a comprare il giornale per poterlo leggere al tavolino del caffè, magari evitando di far sbirciare il vicino per non beccarsi una multa? Quasi sicuramente no. Avremmo più gente informata? Sicuramente no.

Forse i nostri politici dovrebbero, al contrario, ideare nuove forme di sostegno all’informazione perché i cittadini siano sempre sufficientemente informati e non chiudere i rubinetti con la scusa del copyright. O forse vogliono proprio questo?

STEREOTIPI DI RITORNO – LA DONNA IN PUBBLICITA’

Istruzioni per l’uso. Sarà una lunga argomentazione che mi attirerà le ovvie accuse di maschilismo. Invito tutte le lettrici ed i lettori ad essere onesti, prima che obiettivi. Per facilitare la lettura critica, partirò dalle conclusioni.
C’è forte l’impressione che certi tipi di analisi di fenomeni psicosociali possano essere viziate da uno “stereotipo di ritorno”, cioè l’uso di uno stereotipo per contrastare un altro stereotipo. La realtà, fortunatamente, è molto più complessa e sfumata. E’ utile affrontare la comprensione dei fenomeni facendo attenzione a limitare al massimo l’influenza delle proprie convinzioni. Ciò vale soprattutto nel caso della comunicazione attraverso i media. Sarebbe sempre auspicabile, poi, il libero e onesto confronto delle varie opinioni quando si fa comunicazione sugli stereotipi, così che il pubblico possa formarsi un’opinione altrettanto liberamente. Veniamo alla riflessione.
In un vecchio numero della rivista Psicologia Contemporanea (n. 234 del 2012) furono pubblicati tre articoli sulla visione della donna sui media a firma di Adriano Zanacchi, Paola Panarese e Anna Oliverio Ferraris. I tre pezzi provano ad illustrare come i media italiani, dalla televisione alla pubblicità, “propongono” l’immagine della donna. Oltre gli aspetti puramente illustrativi, vengono fatte anche una serie di affermazioni che – a ben vedere – generano delle perplessità.
Si comincia con la constatazione che (1)nella dilagante e intrusiva iconografia pubblicitaria di spot televisivi, cartelloni stradali, pagine stampate e pubblicità in rete, un posto preminente è occupato dalle immagini femminili, il cui uso smodato e deformante finisce per generare discriminazione e violenza nei confronti delle donne” [Zanacchi]. Un’affermazione impegnativa che compie un nesso di effetto diretto e indiretto tra l’uso dell’immagine femminile e la violenza. Le ragioni, poi, addotte al comportamento dei media sono che (2) le donne hanno generalmente la funzione di responsabile dell’acquisto, ma anche perché l’esibizione del corpo femminile attira l’attenzione. Proprio l’uso commerciale della donna (3)si traduce molto spesso nella diffusione di contenuti di pesante volgarità in cui l’immagine femminile viene decisamente distorta”. Viene da domandarsi: distorta rispetto a cosa? Il concetto di “immagine” è per definizione un aspetto dei media, per cui si può essere indotti a pensare che l’Immagine Esatta della donna sia comunque veicolata dai media: altri media. Poco dopo, nell’articolo, Zanacchi afferma che (4)il femminismo, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, non ha saputo reagire e incidere significativamente sulla raffigurazione della figura femminile nella pubblicità”. Tra le conseguenze – sempre secondo l’autore – (5) il possibile diffondersi dell’insoddisfazione, nelle donne stesse, per il proprio corpo, in particolare in quelle più giovani. Al tempo stesso, la stessa pubblicità favorirebbe (6)la tendenza a svendere il corpo (…) per il conseguimento di vantaggi economici e non”. Infine, per chiudere le citazione dall’articolo di Zanacchi, (7)i messaggi veicolati dalla pubblicità che sviliscono o mercificano il corpo femminile contribuiscono a compromettere il rispetto verso le donne, possono favorire discriminazioni e subalternità a loro danno sul lavoro, nelle istituzioni, in politica, rinforzando una spirale di disprezzo e di dominio”. Proviamo a ragionare un po’ su tutte queste affermazioni e vediamo perché, riflettendoci sopra, i conti non tornano. L’impressione è che le eccezioni mosse dall’autore siano frutto di un’immagina distorta e contraria a quella denunciata.
A) Nell’affermazione 1 non esiste un nesso diretto tra la violenza e la visione della donna da parte della pubblicità. E’ facile notare che popolazioni che non godono del bombardamento di pubblicità distorta di noi italiani (basti pensare al trattamento delle donne in India, in molti paesi africani o islamici radicali) trattano la donna come degli oggetti, in cui la violenza è vista come un diritto.
B) Nell’affermazione 2 si profila una donna casalinga che compie le spese per la famiglia: un perfetto stereotipo. Fortunatamente il mondo delle donne è molto più variegato di quello immaginato come target in questa affermazione.
C) Assolutamente d’accordo con l’affermazione 3: effettivamente alcuni pubblicitari (come alcuni giornali scandalistici) cercano di suscitare suggestioni legate alle donne volgari, quasi sempre legate alla sfera sessuale.
D) Nell’affermazione 4 si proclama il fallimento del movimento femminista rispetto all’uso della donna in pubblicità. Il movimento femminista ha ottenuto tantissimi risultati e molte delle conquiste di allora sono ormai considerate acquisite nella nostra cultura, ma questo movimento non era onnipotente. Il mondo della pubblicità, da oltre un decennio, è ampiamente frequentato dalle donne e non si hanno notizie di clamorose proteste delle stesse per come le agenzie pubblicitarie trattano le figure femminili. Corrisponde al vero che l’immagine della donna emanata dai media, che sia nella pubblicità o nelle icone dello star system, può indurre l’insoddisfazione del proprio corpo. Più di una volta le donne, anche giovani, hanno stigmatizzato i programmi di ritocco fotografico che sono largamente usati per le foto destinate alla diffusione dell’immagine delle donne-oggetto-soggetto dei media.
E) Appare, invece, una fuga in avanti l’affermazione 6. L’immagine della donna sui media promuove modelli di donne che usano anche l’avvenenza per fare strada, così come avviene nella vita. Chi afferma che “le donne non usano l’avvenenza e la disponibilità sessuale per trarre vantaggi” non è onesto. Direi che le donne che decidono di approfittare di questa dinamica (vecchia quanto il mondo e probabilmente anche con risvolti biologici-evolutivi) non hanno avuto bisogno dell’immagine della donna nei media per trarre ispirazione.
F) Per l’affermazione 7 vale quanto detto per l’affermazione 1. Le ragioni della posizione subalterna delle donne in larghe porzioni del mondo, oltre che in molte situazioni di casa nostra, sono molto complesse e antiche. Nel nostro mondo occidentale sta cambiando lentamente, perché tutti i cambiamenti reali sono lenti e non sempre lineari.

Nel secondo articolo di Paola Panarese illustra e commenta i risultati di una ricerca nata “per indagare la rappresentazione del genere nei diversi generi televisivi”. L’intenzione della ricerca, secondo quanto dichiara l’autrice dell’articolo è di verificare se e in quale misura gli stereotipi di genere individuate nelle passate indagini esistano ancora, siano diffusi e siano eventualmente affiancati da nuovi trend di rappresentazione della figura femminile; (8)sono stati analizzati 815 spot e 1798 personaggi” (?!). Veniamo ai risultati della ricerca. Le donne, in buona parte dei casi, (9)servono come esche comunicative, per accompagnare le immagini o decorare la scena”; ma si sottolinea anche che (10)il fatto che siano più spesso presenti e protagoniste degli spot va letto insieme al dato che le vede guidate, in molte circostanze, da voci fuori campo maschili”. Anche per quanto riguarda gli ambienti che contengono le persone, i ricercatori notano che (11)le donne prevalgono in misura schiacciante sugli uomini negli ambienti domestici, mentre sono in minoranza negli spazi pubblici, in quelli commerciali e nei luoghi di lavoro, a conferma della vecchia relazione tra donna e casalinghità, uomo e carriera lavorativa”. Infine, si entra nello specifico del linguaggio filmico usato: (12)le figure femminili sono riprese soprattutto con inquadrature ravvicinate, mentre per gli uomini prevalgono piani medi o campi lunghi. E’ questo un chiaro segno delle differenze nello sguardo sui generi: delle donne sono ripresi soprattutto volto e spalle, parti del corpo o particolari del viso. La prevalenza di primi e primissimi piani femminili, certamente funzionale all’esaltazione della bellezza dei visi, contribuisce anche a enfatizzarne l’emotività”. Proprio in relazione a quest’ultima affermazione, l’autrice si lancia in un’ardita deduzione: (13)il 60% dei personaggi per cui è stata rilevata un’esibizione delle emozioni accentuata e frequente è composto da donne. Prevalgono così i personaggi femminili i cui bei visi in primissimo piano lasciano trasparire ogni tipo di emozione. Donne rappresentate come spontanee e incontrollate e, forse per questo, bisognose della costante presenza sullo sfondo di uomini ripresi da una certa distanza”. Purtroppo non viene riportata nell’articolo la metodologia usata nella ricerca, per cui non possiamo valutarne l’affidabilità dei risultati. Analizziamo queste affermazioni.
G) Nell’affermazione 8, però, viene scritto che, oltre che gli spot, sono stati analizzati 1798 personaggi. In che senso “personaggi”? Persone reali o personaggi di narrazioni (film, fiction, serial…)? Personaggi intesi come Vip? Non è dato saperlo.
H) Nell’affermazione 9, invece, si nota una certa semplicità di pensiero. Usare delle esche comunicative (donne, bambini, cuccioli, golosità…) è una tecnica vecchia quanto la comunicazione. Una tecnica ampiamente praticata in natura da una enorme varietà di specie.
I) La concomitanza di presenza di donne e di voci maschili fuori campo che le guidano (affermazione 10) lascia perplessi: in che senso “le guidano”? Soprattutto, è stata studiata la relazione, negli spot che hanno questo profilo, tra prodotto, target e messaggio?
J) L’affermazione 11 sottolinea in modo negativo lo squilibrio di presenza di donne negli ambienti domestici rispetto a quelle degli uomini negli spazi sociali (lavoro, commercio…). La condizione descritta proviene indubbiamente dal passato ma, secondo i dati statistici a disposizione di tutti, riflette ancora sostanzialmente la situazione del paese in cui l’occupazione femminile è ancora inferiore a quella maschile. Molto probabilmente, invece, non corrispondono alla realtà le proporzioni delle presenze rispetto a quelle proposte dalla pubblicità.
K) Anche nell’affermazione 12 si nota un po’ di semplicità nella riflessione. Il linguaggio audiovisivo è molto complesso e si sa che le inquadrature non sono scelte a caso. Purtroppo, non risultano nell’articolo inferenze tra le inquadrature (e magari anche con movimenti di macchina, stili fotografici e scelte di montaggio) e i prodotti. Se si inquadra il dettaglio di un collo femminile in uno spot di assicurazioni, può effettivamente può nascere il sospetto di uso strumentale: molto meno se lo stesso collo compare in uno spot per una crema idratante.
L) Infine – siamo all’affermazione 13 – viene proposta una relazione tra l’emotività rappresentata delle donne e la relazione di importanza tra uomo e donna (il primo sullo sfondo che “conforta e rassicura” le donne emotive in primo piano). Audace tesi sulla differenza di inquadrature sulle persone tra uomini e donne. Anche in questo caso non si hanno, purtroppo, indicazione su quali situazioni si è riscontrato.
Giungiamo, quindi, all’articolo di Anna Oliverio Ferraris sullo stesso tema. Cominciamo subito con un’affermazione esemplare: “All’inizio del 2007, in una pubblicità di Dolce e Gabbana si vedeva un giovane aitante a torso nudo chino su una ragazza, che lui teneva bloccata a terra per i polsi, mentre altri quattro giovani maschi, dall’espressione proterva, stavano attorno guardando impassibili la scena e dando l’impressione non solo di approvare la violenza ma anche di attendere il proprio turn. L’oggetto del desiderio reclamizzato in quella pubblicità era un pantalone jeans, la rappresentazione utilizzata per imporlo all’attenzione del pubblico era quella di uno stupro di gruppo”. Accidenti!!! Nella foto in coda a questo articolo potete vedere la foto in questione. Non vorremmo che l’interpretazione della foto pubblicitaria potesse avere delle altre interpretazioni. Proviamo ad ipotizzarne qualcuna. A) Lei ha detto a lui che è impotente (visto che tentava di provocarlo sessualmente col suo abbigliamento) e lui si è risentito: gli altri uomini disapprovano il suo gesto. B) La donna è la sorella di lui e voleva drogarsi per l’ennesima volta e lui prova a fermarla: gli altri uomini segretamente hanno tutti una tresca con lei. C) I due sono protagonisti di un gioco erotico di dominio/sfida reciproco e gli altri uomini sono stati invitati dai due amanti per assistere al loro gioco. D) Gli altri uomini sono omosessuali indispettiti dall’atteggiamento del loro amico che li provoca interagendo con la ragazza. Insomma, l’interpretazione di un’opera creativa (una foto pubblicitaria lo è) è sempre un atto arbitrario, non univoco. L’esito di questa interpretazione è sempre soggettivo e funzione delle storie e delle culture di chi la guarda.
Proseguendo nell’articolo si legge che “il corpo femminile come facilitatore di vendita non viene utilizzato soltanto nei cartelloni pubblicitari, nei giornali e negli spot televisivi, ma anche “in vivo” nelle fiere, nelle esposizioni e nei mercati di automobili e moto”. In merito a questa affermazione si possono fare almeno due considerazioni. La prima è che se viene fatto così da decenni è perché la cosa funziona: il pubblicitario si limita a sfruttare una tendenza che già esiste. La fascinazione di una bella donna ha effetti su entrambi i sessi, anche se per ragioni differenti. Se negli uomini può innescare il desiderio sessuale (generando comportamenti di acquisizione), nelle donne può generare identificazione/proiezione (io sono come lei; io vorrei essere come lei). In entrambi i casi la figura femminile ha una valenza positiva di rinforzo se associata ad un prodotto. Però, l’utilizzo della funzione simbolica del corpo di una donna è presa a prescindere come un valore negativo; infatti, la Oliverio Ferraris scrive successivamente “lo sfruttamento del corpo della donna può suscitare indifferenza o rifiuto in una parte del pubblico femminile, ma attivare processi di identificazione in un’altra parte”. Va notata la scelta lessicale. Definire “sfruttamento” la libera scelta di una donna di trarre vantaggio economico da questo fattore sembra una forzatura, l’effetto di uno stereotipo. Con questo metro di giudizio dovrebbero essere tacciate di sfruttamento tutte le donne che usano il corpo per lavorare: dalle modelle alle ballerine. E’ vero, invece, come viene affermato poco dopo che “ricorrente e intrusivo, il messaggio può installarsi nella mente dell’osservatore anche contro la sua volontà e lì lavorare a sua insaputa abituandolo a immagini, attese e interpretazioni che alla fine fa proprie”. La sedimentazione nelle memorie, più o meno conscie, di modelli comportamentali è l’architrave di tutta la comunicazione persuasiva: che sia pubblicità o propaganda. E’ anche vero, però, che questo tipo di comunicazione riesce ad avere grandi effetti solo in presenza di una predisposizione, di una disponibilità all’acquisizione di quel modello proposto.
Per concludere, non bisogna dimenticare che buona parte dell’equivoco che si potrebbe generare con questi articoli sta nella “pretesa” di dare alla pubblicità (che serve a vendere e quindi a fare profitto) una connotazione anche morale.
Per finire, un grazie alle persone (Ada, Camilla, Rosanna) con cui mi sono confrontato prima di pubblicare questo articolo

DOLCE