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UN VIRUS ANTICO NELL’INFORMAZIONE

Come l’influenza stagionale, c’è un virus endemico che sta imperversando nei media informativi italiani. Il nome esatto è “cerca la paura” ed alberga  – come fosse la malaria –  nelle redazioni italiane. Perché si sa che la paura fa audience e, tanto i giornali quanto i notiziari radiofonici, campano di audience. Ma soprattutto la tv e i social hanno tutto l’interesse ad alimentare “il traffico” per tenere sempre attaccati ai loro televisori o ai loro smartphone le persone. Ogni volta si cerca un pretesto: un giorno è l’attacco terroristico in Gran Bretagna, poi ci sono i femminicidi, poi c’è l’immondizia e l’emergenza sanitaria.

Proprio a proposito di emergenza sanitaria, ecco che è scoppiata l’ultima paura in virtù del “pericolosissimo” coronavirus che si è manifestato in Cina: prontamente, i media informativi hanno montato la panna della paura. Catastrofi evocate, pestilenze paventate, untori che si aggiravano colpevolmente, precauzioni distribuite random, interviste a politici, medici, funzionari delle istituzioni. È stato generato un riverbero informativo accecante che cercava deliberatamente la paura del pubblico. D’altra parte è noto, come afferma anche il giornalista (critico) Luca Sofri, che “il titolismo è ormai una categoria a sé del giornalismo contemporaneo. Lo è sempre stato, ma negli anni il distacco e l’autonomia dell’informazione trasmessa attraverso i titoli rispetto a quella propria degli articoli sono cresciuti straordinariamente soprattutto per due ragioni: la prima è l’aumento del sensazionalismo allarmistico (…) l’altra ragione è che effettivamente la quota di attenzione e tempo dedicata agli articoli da parte dei lettori è diminuita e una grandissima parte dei lettori usuali o passeggeri legge soltanto i titoli” [Luca Sofri; “Notizie che non lo erano”; 2015].

Il problema insorge quando questa pressione mediatica indiscriminata produce degli effetti sulle persone “instabili” nella nostra società. Ecco che c’è chi insulta dei turisti cinesi rei semplicemente di essere cinesi; oppure c’è addirittura chi vieta ai cinesi di entrare nel proprio esercizio commerciale. Come anche l’uso di mascherine che diviene un “must della paura”.

L’ironia è che, poi, sono gli stessi media che hanno pompata la paura a stigmatizzare i comportamenti eccessivi parlando impropriamente di “psicosi” e scaricando tutto sulla gente. Come anche ipocrita è il debole tentativo di rassicurare che “è tutto sotto controllo”, oppure (come si sta scoprendo) che ogni anno la normale influenza stagionale fa più vittime. Ormai i buoi sono scappati dalla stalla.

La responsabilità di un certo giornalismo è molto alta sul clima di paura che si genera in una società. Usare la paura della gente per chiedere attenzione ha pesanti effetti collaterali perché le persone, in queste situazioni, smettono di essere fiduciose, empatiche, critiche e si chiudono, generando comportamenti antisociali, egoistici, irrazionali. Il tutto per qualche click e qualche televisore acceso in più. Una bella responsabilità che, purtroppo, pochi professionisti dell’informazione riconoscono.

ANSIA DA PRESTAZIONE GIORNALISTICA

In presenza di un accadimento, di una notizia o presunta tale, accade molto spesso di assistere ad un tumultuoso rincorrersi dei media informativi nel tentativo di essere davanti, essere i primi a dare l’ultimo aggiornamento. È sufficiente che una testata dia una presunta “notizia clamorosa” che tutti gli altri cominciano a rilanciare la stessa notizia. Questa sorta di conformismo giornalistico si traduce in quella che essi stessi chiamano la paura di bucare la notizia. Quindi si genera quel fenomeno in cui più i media trattano un tema, più si persuadono (collettivamente) che quel tema sia “indispensabile”, crogiolandosi in modo esagitato in un eccesso centrifugo di informazione: nei fatti, un riverbero informativo da ansia da prestazione.

Un effetto collaterale di questa prassi ansiosa è che molto spesso (grandi e piccole testate) rilanciano la “notizia” nel più breve tempo possibile, senza procedere ad una rigorosa verifica (in gergo detto fact checking). Gli errori e le inesattezze che vengono diffuse non sono poi rettificate, confidando nell’oblìo del pubblico e sentendosi coperti dell’effetto distraente del continuo flusso di informazioni. Ciò è vero soprattutto, ormai, ad opera dei social media che gli utenti si vedono piovere sui propri schermi, tanto in forma di post sponsorizzati, quanto in forma di articoli condivisi (di cui si legge solo il titolo). Nei rarissimi casi in cui si assiste ad una rettifica, queste hanno una visibilità irrisoria rispetto al clamore dato precedentemente alla notizia falsa di partenza. Si sa che la smentita non ha dignità di notizia.

Ma esistono anche altri vantaggi derivanti da questo modo di “fare informazione” perché ingigantire un evento e riproporlo attraverso continue minime varianti porta alla narrazione: non siamo più di fronte ad un semplice elemento di informazione ma davanti ad una narrazione in piena regola. Narrare  – si sa –  induce alla fidelizzazione, ovvero si rimane ad attendere gli “sviluppi della storia” come si fosse alla visione di una vera e propria soap opera.

Un altro effetto di questo martellamento informativo ad alzo zero fu dimostrato da una ricerca che appurò che se non si dispone del tempo necessario per valutare le informazioni, il nostro cervello tende a considerare vere quelle che vengono diffuse in modo rapido e con un flusso continuo, ovvero le valutiamo secondo le dinamiche del pensiero euristico che è quel tipo di ragionamento che si basa su scarsi elementi e che ci restituisce una valutazione intuitiva. La penetrazione pervasiva delle notizie, grazie alla capacità capillare di contatto che ci viene dalla rete (soprattutto in quel terminale privato che è lo smartphone), può far percepire come vero ciò che non lo è. È la diffusione stessa a creare l’evento secondo la regola che un fatto esiste perché ne parlano (il fenomeno dell’Agenda Setting si basa su questa percezione). Quando uno pseudoevento, un’opinione, un pregiudizio, un pettegolezzo, una diffamazione, ha assunto un valore di verità per tanti, diventa difficilissimo smontarlo.

Con questa forma è possibile identificare anche un altro effetto, caratteristico di radio e tv, che potremmo definire effetto Mentana: il parlare veloce e senza pause in tv genera facilmente una sensazione di credibilità (“parla così perché sa quello che dice“) ben al di là dei reali contenuti.

Insomma, una vera e propria ansia da prestazione giornalistica è alla basa dei fenomeni descritti che, però, hanno pesanti ricadute nella vita della nostra società. Questi (ed altri) meccanismi consentono di infiltrare la paura nelle menti delle persone. E sappiamo a cosa porta la paura in un regime democratico.