SUICIDI PER LE GERARCHIE OBSOLETE

Spesso, molto spesso, appaiono in cronaca piccoli articoli con la notizi di uomini delle forze dell’ordine che si suicidano. È successo a Foggia  qualche giorno fa per un carabiniere, a Fiumicino  qualche giorno prima. Una strage silenziosa che non riguarda solo chi appartiene alle forze dell’ordine, ma anche ad agenti della polizia penitenziaria  o militari. Un fenomeno che non riguarda solo l’Italia ma anche la Francia, Israele o gli Stati Uniti.

Esiste un’abbondante letteratura scientifica sul suicidio e, senza entrare in dettaglio (potete consultare una delle tante pubblicazioni sul tema), il suicidio può essere visto principalmente tanto come un modo drastico di comunicare il proprio malessere, quanto il tentativo di smettere di soffrire. Nel caso dei suicidi tra i militari possiamo ipotizzare uno schiacciamento della personalità che è chiamata a rimanere in equilibrio tra l’adesione agli ordini  – lealtà al gruppo di appartenenza – e la consapevolezza della propria responsabilità nella sofferenza altrui (soprattutto in caso di guerra). Per chi, invece, fa parte delle forze dell’ordine esiste l’ulteriore pressione dovuta all’interazione di queste con autori e vittime di reati, a volte raccapriccianti.

Molto probabilmente, essendo le strutture militari e delle forze di polizia fortemente gerarchizzate, con una conformazione derivante dai canoni maschili (chi è uomo non si fa prendere dalle emozioni), in molti non riescono a elaborare queste forme di burnout esasperate. Molto probabilmente sarebbe d’aiuto la presenza stabile di presidi (esterni alla gerarchia, magari in convenzione) psicologici/terapeutici per poter fronteggiare questo fenomeno che viene poco raccontato dai media.

MATTARELLA INCAPPA NELLA DISINFORMAZIONE DI GENERE-CALCIO

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha ricevuto al Quirinale la nazionale femminile di calcio e, nel discorso che ha pronunciato, è incappato in uno sfondone da eccesso di politically correct. Mattarella, ad un certo punto, ha detto: “Avete conquistato l’opinione pubblica e acceso i riflettori sul calcio femminile: non si torna indietro. È irrazionale e inaccettabile una diversa condizione tra calcio maschile e femminile“. Sarà stato l’eccesso di entusiasmo per la bella prova agonistica delle ragazze, saranno state le parole “nazionale italiana”, ma il Presidente ha detto una cosa sbagliata. Il calcio, ormai, è uno spettacolo professionistico e, come in tutti gli spettacoli, gli ingaggi dipendono dalla quantità di pubblico che riescono a muovere e, quindi, da quanti soldi riescono ad attirare. Un giocatore (maschio) di Lega Pro  – considerati semiprofessionisti –  guadagnano in media 2.500 euro al mese; in Italia ci sono 1.100.000 tesserati alla Federazione Italiana Gioco Calcio e le donne sono poco più di 23mila. Solo questi numeri dovrebbero far capire che un qualsiasi imprenditore troverebbe assurdo pagare alle donne gli stessi ingaggi degli uomini. È una banale questione di economia, se non di aritmetica. Discorso diverso sarebbe il chiedere, più semplicemente, di essere professionisti.

Complice la debâcle della nazionale di calcio maschile dello scorso anno e quella Under 21; complice l’acquisto dei diritti di trasmissione da parte della Rai che, quindi, aveva bisogno di rientrare dell’investimento; complice il battage mediatico che ha “spinto” l’evento innescando la curiosità del pubblico, i mondiali di calcio femminile hanno avuto un’audience eccezionale. Da qui a dire, però, che “è inaccettabile” che le donne non abbiano pari condizioni con gli uomini (soprattutto economiche) sembra un eccesso di galanteria istituzionale. O forse  – viene il sospetto –  anche il Presidente della Repubblica ha perso lucidità quando affronta le valutazioni sulla parità di genere. Un vero peccato e un ennesimo caso di disinformazione.

IL FIGLIO INTERIORE

A volte pensiamo di saper riconoscere al volo cosa accade nella nostra vita ma non sempre ci rendiamo conto che alcuni aspetti ci possono sfuggire. Poi capita di trovarsi dentro certe situazioni ed allora realizziamo. D’altra parte, il sagace Arthur Bloch nelle sue Leggi di Murphy, teorizzava che “se osservi attentamente il tuo problema, ti accorgerai di farne parte“. A me è accaduta una cosa del genere.

Volendo fare qualche premessa, possiamo citare quei fenomeni studiati inizialmente da Freud e Ferenczi definiti introiezioni, poi anche ripresi e ampliati da Jacobson e Kernberg nelle relazioni oggettuali. Sostanzialmente, nel corso del nostro sviluppo costruiamo una serie di rappresentazioni nella nostra mente in riferimento alle persone che amiamo, ovvero interiorizziamo. Il bambino lo fa innanzitutto con i genitori, ma si posso sviluppare con fratelli e sorelle, zie e nonni, amici e amiche, per finire agli amori della propria vita. Ciò che amiamo tendiamo a portarlo dentro, in una presenza ricostruita nella nostra mente, così che ne avvertiamo il “calore” anche quando non sono vicine. È ciò che permette al bambino di andare all’asilo o di essere lasciato dai nonni o con la babysitter quando andiamo al lavoro.

Generalmente si tende a vedere questo fenomeno come un’efficace strategia per sopravvivere alle dipendenze affettive in presenza di un allontanamento. Da adulti un caso frequente è nelle relazioni a distanza: lui e lei con 500km in mezzo. Ma dimentichiamo che esiste una situazione molto più frequente che, però, negli ultimi anni sta subendo un’involuzione. Viene chiamata anche Sindrome del Nido Vuoto, ovvero quando i genitori vedono i figli andare via da casa per costruirsi una vita altrove: cominciano a soffrire e, molte volte, tendono a riavvicinare i figli a sé, magari comprandogli casa nello stesso stabile o alimentando la loro dipendenza economica (di questi tempi è operazione facile). Nei casi virtuosi, invece, il genitore aiuta e favorisce l’indipendenza dei figli, l’autonomia e l’avvio verso strade e mete loro, non quelle desiderate e proiettate dai genitori stessi. Come riescono questi genitori a resistere alla lontananza? Proprio attraverso l’interiorizzazione della figura del figlio. Un processo inverso ed equivalente a quello vissuto dai figli. Il figlio vive dentro di sé e la sua autonomia restituisce la misura della propria riuscita di genitori. Dunque, viva il figlio interiore.

SE ARRIVANO I ROBOT, CHE FARANNO I GIORNALISTI?

Ciclicamente appaiono notizie sui media di imminenti e necessarie riforme dell’Ordine dei Giornalisti. Come anche periodicamente c’è un politico che si lascia andare dichiarando pubblicamente all’estinzione dell’Ordine stesso. Si sprecano i dibattiti e i festival sulla crisi del giornalismo, sulla vita assurda dei precari, sulle fake news che chissà da dove sbucano, sulle nuove frontiere dell’informazione su smartphone. In tutto questo chiacchiericcio manca, generalmente, la voce di chi è destinatario teorico dell’Informazione, cioè noi. Spesso, nei dibattiti, viene sottolineato dagli addetti ai lavori “quanto siamo importanti noi che vi cuciniamo le notizie”. Ma sta arrivando un tifone e chi ha le orecchie aperte sente già il vento fischiare tra i rami.

Già nel 2016, alle Olimpiadi di Rio de Janeiro, alcuni importanti giornali si sono avvalsi dell’opera dei roBOT per produrre notizie e la cosa non fece particolare scalpore. Il fenomeno, infatti, sta diventando progressivamente sempre più importante, come testimoniano le riflessioni che si stanno avviando. Da poco è stato addirittura presentato un anchormen virtuale “made in China”. Il fenomeno appare, quindi, pieno di possibili sviluppi e, visto con gli occhi dello psicologo, induce alcune riflessioni.

Da alcuni decenni l’informazione si è disposta lungo due poli: da un lato l’informazione-potere e dall’altro l’informazione-merce. Entrambi questi tipi di informazione potranno essere espletate dai robot-journalist che costano meno, non si ammalano, non si organizzano in sindacati, non richiedono contropartite per i favori fatti, non fanno inchieste scomode (se non programmati) non hanno problemi di etica e così via. È troppo troppo conveniente l’uso dei BOT per gestire l’informazione, quindi i giornalisti-umani dovranno farsene una ragione: il lavoro per i giornalisti diminuirà drasticamente, anche se progressivamente. Perché il pensiero capitalista lo impone e il bisogno asfissiante del profitto non guarda in faccia a nessuno: basta riflettere sulla selvaggia opera di precarizzazione che è stata fatta in tutto il mondo. Non basta ripetersi come un mantra che le persone (giornalisti) sono indispensabili.

Cosa potrebbe cambiare per noi utenti dell’informazione? Dipende. “NOI” è un termine vago. Chi  – e sono la maggioranza –  non si cura di ciò che gli accade appena oltre la propria sfera vitale, non cambierà nulla: continuerà a ricevere le informazioni che ha sempre avuto e continuerà ad essere “accompagnato” verso la sua opinione del mondo. Gli “altri”, quelli che conservano ancora un minimo pensiero critico saranno costretti a diventare attivi nella ricerca e, forse, nella costruzione dell’informazione. Ma dato che cercare informazioni e produrre notizie (vere e utili) è un’attività che richiede tempo, avremo bisogno di persone che lo facciano per noi. La costruzione della cornice di senso della notizia oppure l’inchiesta sul campo (non il data-journalism) hanno bisogno della visione degli umani. Anzi, di persone che siano profondamente a conoscenza dei comportamenti umani, che si voglia chiamarli giornalisti, blogger, cittadini attivi o altro. Persone che sappiano, soprattutto, comprendere gli aspetti umani delle notizie, perché un fatto è sempre frutto di un comportamento. Vi viene in mente qualcuno che fa già queste cose di mestiere?

LA PROSSEMICA DELLA CONVIVENZA

Vi sarà sicuramente capitato di osservare quelle persone che si muovono per strada incuranti dei pericoli, come se ci fossero solo loro per strada. A volte viene fatto in assoluta distrazione, altre volte con atteggiamenti di sfida. Viene da domandarsi perché una persona metta a rischio la propria incolumità in modo così inspiegabile. Con quale logica riusciamo a comprendere questi comportamenti? Proviamo a partire da lontano.

Nel corso della nostra vita costruiamo nella nostra mente l’immagine di ciò che pensiamo di essere. La “percezione di sé” è proprio quel fenomeno che ci permette di costruire questa idea-immagine. Di conseguenza, ci muoviamo e ci regoliamo nello spazio e nel tempo in base proprio in base a questa idea di noi stessi che abbiamo inconsapevolmente costruito. Ma noi non viviamo soli e dividiamo lo spazio assieme agli altri

La prossemica, cioè la disciplina che ha studiato il comportamento delle persone nello spazio,  ha definito alcune osservazioni sulle regole che usiamo per tenere le giuste distanze rispetto agli altri. La “bolla prossemica” è quella invisibile distanza che riteniamo ottimale rispetto alle altre persone: più siamo in confidenza con gli altri, minore sarà la distanza che reputiamo adatta.

Una probabile estensione della bolla prossemica è la percezione dello “spazio pubblico“, ovvero quello spazio che è nostro ma anche di altri. È facile intuire che il valore (e il rispetto) dello spazio pubblico denota la maturità della nostra personalità: siamo noi che apparteniamo allo spazio pubblico e non viceversa.

Chi ha una bolla prossemica sociale chiusa, blindata e poco empatica, non percepisce più la comunanza dello spazio: questo viene vissuto solo in funzione dei propri bisogni. Qualche esempio?

  • Bisogno di defecare, gettando rifiuti di sé nello spazio pubblico, dalle cicche ai frigoriferi
  • Bisogno di autoaffermazione, imbrattando i muri con bombolette spry con tag perché si ha una personalità piccola piccola
  • Bisogno di violazione delle regole, parcheggiando l’auto sulle strisce, negli spazi riservati ai disabili, in seconda fila, non pagando il biglietto sui mezzi pubblici e altro ancora
  • Bisogno di essere incuranti dei pericoli, attraversando senza guardare, al cellulare o semplicemente non guardando, guidando in bici di notte, vestiti di scuro, senza luci o casacche catarifrangenti o andando in gruppo in due o tre file, a venti all’ora, in strade tortuose

La nostra epoca, in cui facciamo fatica a “sentire” i nostri limiti, non ci aiuta e la prossemica pubblica ne risente. Salvo poi lamentarci che “gli altri” non la rispettano.

 

 

TURISTIZZAZIONE DEI CENTRI STORICI

Non so se voi ci siete stati. Io sono andato a Venezia un paio di volte. Nel tratto dalla stazione ferroviaria a piazza San Marco mi è sembrato di essere nei corridoi della metropolitana all’ora di punta. La folla ha un suo movimento, una sua cadenza. Ma, soprattutto, non ci si può guardare intorno. Si viene sospinti inevitabilmente e badiamo a non urtarci con gli altri. Venezia, poi, negli ultimi anni è diventata, in sostanza, un parco tematico. La gente scende dai treni o

dalle navi da crociera alte il doppio della basilica di San Marco e brulica per le calli. L’effetto collaterale di questo fenomeno è stato che gli abitanti di Venezia sono migrati a Mestre o si sono sparpagliati per le isole minori della laguna, quelle fuori dagli itinerari della massa turistica.

Venezia è un caso limite, ma possiamo verificare lo stesso fenomeno in città come Firenze o Roma, in piccoli centri come Gradara o San Marino, o piccolissimi come Civita di Bagnoregio o Calcata che ho visitato di recente. Tutti questi centri storici sono stati progressivamente interessati da un fenomeno che chiamerei di turistizzazione. In pratica, quando un centro storico comincia a diventare meta del turismo  – quel turismo globalizzato per cui qualcuno parte da Haifa in Israele ed arriva a Scicli in Sicilia per vedere l’ufficio di quel Montalbano delle fiction televisive –  lentamente si compie un processo di adeguamento sociale che mira a generare guadagni da questa massa di persone: quindi, ai tradizionali negozi si sostituiscono, gelaterie, fast food, piadinerie, souvenir, cambiavalute, bancarelle varie, oltre che ristoranti, osterie e wine bar. Non finisce qui. Come accenna prima per Venezia, gli abitanti storici della zona vengono progressivamente centrifugati per fare posto ad altri. A Roma, il famoso quartiere di Trastevere ha visto la sostituzione delle proprietà e degli abitanti.

Esiste il rovescio della medaglia, soprattutto per i piccoli centri che vengono travolti dal peso del turismo in termini di risorse: serve più acqua, più pulizia, più sicurezza, più strutture sanitarie, più accoglienza alberghiera. L’economia si trasforma per far fronte a questa massa di persone che viene a “godere” di quella che era la nostra casa.

Chiedersi se tutto ciò sia un bene o un male è una domanda retorica. Il fenomeno è ormai consolidato e la globalizzazione  – soprattutto per quanto riguarda la facilità e economicità degli spostamenti –  sembra un fenomeno crescente. Crescente e, probabilmente, irreversibile. Non riesco a ricordare un solo caso di un luogo che abbia rinunciato al turismo per tornare ad un’economia locale. Forse solo una catastrofe potrebbe rallentare o fermare questo fenomeno.

Esiste, infine, una discreta quantità di persone che sono insofferenti alle folle e che, per potersi godere uno spicchio di solitudine (specie se provenienti da una metropoli) vanno in cerca di luoghi con poca gente, generando fatalmente la turistizzazione della pampas argentina, del Polo Nord e forse un giorno della Luna.

 

LE NOTIZIE AL BAR DIGITALE

È stata approvata in un primo passaggio la famigerata normativa europea sul copyright: questa notizia , analizzata anche dal sito valigiablu.it, non potrei linkarvela perché vìola questa norma. Ci vorranno degli altri passaggi da affrontare in sede di Unione Europea e poi i singoli Stati dovranno ratificarla. Molte polemiche sta suscitando e anche qui proviamo ad aggiungere un altro punto di vista.

Le informazioni e le notizie, da sempre, sono il terreno su cui si cimentano governi, dittature, agenzie di sicurezza, spin doctor, ma soprattutto giornali, radio, televisioni. Negli ultimi dieci anni è cresciuto molto il mondo dell’informazione nel web. Gli ipertesti, che permettono di inserire in una pagina foto, video e link, hanno reso capillare la possibilità di informare le popolazioni. Ma anche sono il terreno su cui si cimentano imprenditori, gruppi di potere con aziende editoriali, network televisivi che vogliono fare guadagni. L’Informazione è diventata merce e strumento di pressione della propaganda.

Noi cittadini stiamo in mezzo, usati e spremuti, perché da un lato c’è chi vuole usare le informazioni per farci acquisire una certa idea della realtà, dall’altro c’è chi ci chiede in cambio quanti più soldi possibile per queste informazioni. Entrambe delle intenzioni lecite, ma… C’è un “ma”. In tantissimi, da tutti i pulpiti, ci ripetono in continuazione che le democrazie hanno bisogno di una buona informazione perché possano rimanere efficienti e valide. Quindi molti prendono per buono l’adagio secondo cui “l’informazione è un diritto”. Con questa ultima normativa europea, l’Informazione diventa a tutti gli effetti una merce. Se si volesse applicare alla lettera questa normativa l’Europa vivrebbe un impoverimento della consapevolezza dei cittadini dell’Unione.

Ora a me è venuta in mente una similitudine. Si sa che nei bar i gestori, come servizio alla clientela, comprano dei quotidiani perché i clienti li possano leggere (e consumare qualcosa). Quei giornali consentono a molte persone di informarsi ed aumentare la propria consapevolezza. Provate ad immaginare se giornalisti e giornalai facessero approvare una legge che vieta ai bar di lasciare a disposizione i quotidiani. Venderebbero più copie? I clienti del bar correrebbero alla prima edicola a comprare il giornale per poterlo leggere al tavolino del caffè, magari evitando di far sbirciare il vicino per non beccarsi una multa? Quasi sicuramente no. Avremmo più gente informata? Sicuramente no.

Forse i nostri politici dovrebbero, al contrario, ideare nuove forme di sostegno all’informazione perché i cittadini siano sempre sufficientemente informati e non chiudere i rubinetti con la scusa del copyright. O forse vogliono proprio questo?

URLA DI GUERRA E MILITANZA DI GENERE

La paura. Un’emozione che, assieme al dolore, sono tra le fondamentali reazioni per la sopravvivenza degli esseri umani. Scappare perché si ha paura può essere la salvezza. Ma anche immobilizzarsi perché si ha paura può esserlo.

Il ricordo di un dolore o la prospettiva di un dolore è ciò che ci incute paura davanti a una minaccia e, quando ci sentiamo minacciati, abbiamo due forti reazioni: fuggire o aggredire, magari urlando. Proprio urlando perché  – si sa –  urlare infonde coraggio, ma anche perché urlare può spaventare chi ci aggredisce. Magari questi si ferma proprio perché ci sente urlare.

Però c’è un problema. Se si comincia ad avere paura di sentirsi minacciati (previsione di dolore) possiamo vivere in uno stato di paura inconsapevole, di ansia. Il rischio, permanendo in questo stato di attesa della minaccia, è di cominciare a diventare aggressivi nei confronti di qualsiasi comportamento ci possa apparire come una minaccia potenziale. Si diventa aggressivi (e urlanti) a prescindere dalle situazioni, anche se non c’è nulla che effettivamente ci minacci.

In questo stato di permanente e inconscia attesa della minaccia  – inconsapevolmente terrorizzati –  possiamo cadere in errore e scambiare il dissenso di altri con una minaccia, per cui possiamo essere indotti ad aggredire preventivamente, magari ricorrendo ad un urlo: ad un urlo di guerra.

Cosa può accadere se diventiamo aggressivi in assenza di una minaccia? Può accadere, tra le varie cose, che le persone intorno a noi potrebbero non capire perché li aggrediamo e diventare diffidenti nei nostri confronti. Ma noi, notando questo cambio di atteggiamento nei nostri confronti, potremmo viverlo anche come qualcosa di minaccioso, per cui potremmo aumentare l’aggressività, per intensità e frequenza. Lungo questa escalation, ci troveremo ad avere intorno solo persone che, sottomesse, non osano contraddirci. Così non avremo più modo di notare l’incongruenza del comportamento e ci sentiremo sempre nel giusto. Soprattutto, non capiremo più perché delle altre persone cominciano ad aggredirci (perché non ne comprendiamo il motivo). Ma un’altro effetto collaterale è che coloro che ci sono ostili avranno meno remore a trattarci male.

A questo ragionamento è possibile fare tre postille. La prima è che se si vive una condizione di paura generalizzata, se si vive il proprio ambiente come minaccioso, abbiamo un’alternativa al comportamento aggressivo ovvero stringere alleanze.

La seconda è che avere qualcuno con cui condividere la sensazione di paura permette di lenire questa sensazione e, soprattutto, di verificare se possano esserci reazioni diverse nella stessa situazione che stiamo vivendo e che ci terrorizza.

La terza è che quando ci troviamo in un confronto/trattativa può essere determinante trovare dei canali di dialogo con parti dello schieramento antagonista perché l’empatia con le altre persone aiuta. Si può trovare un punto comune da cui ognuno può vivere la propria peculiare condizione senza perdere identità e dignità. In questo modo diventa possibile trovare una soluzione ad un problema dell’altra parte pur mantenendo il proprio punto di vista. I termini collaborazione e compromesso sono gli effetti di questo atteggiamento alternativo al binomio paura/contrapposizione.

Questo mio ragionamento “teorico” ha avuto, naturalmente, una genesi dovuta ad un fatto reale che mi è accaduto. Proverò a raccontarlo in modo sintetico.

Ho scritto tempo fa un articolo sul tema della comunicazione che alcuni psicologi fanno sui social, citando due episodi a me capitati. Il terreno su cui interveniva l’articolo era una proposta di legge in Spagna sul perseguimento penale degli stupratori. A questo articolo sono seguite delle “alzate di scudi” che non vertevano sull’argomento dell’articolo ma sulla dinamica uomo-donna in riferimento alle violenze sessuali. È stata talmente forte l’incoerenza delle contestazioni che ho cominciato a chiedermi il perché di tanta veemenza. Ho chiesto a molte donne di leggere quell’articolo e, alla fine, una è riuscita a darmi la chiave di lettura che mi ha permesso di capire. Infatti, mi ha scritto: “molte donne pensano di essere in uno stato di guerra, di dover combattere una battaglia – me compresa – perché questo è il momento di combattere e cambiare le cose. Questa convinzione ci induce, anzi ci obbliga in un certo senso, a non ammettere né giustificare nessun tipo di commento che vada contro quello per cui stiamo combattendo (…) l’appartenenza di genere è risultata più saliente rispetto a quella di psicologa (…) In un momento così delicato ogni cosa diventa una minaccia, anche quando proviene dagli amici. Ci sarà un tempo per le sfumature, per ridimensionare le reazioni, per ascoltare e parlare, ma ora no, non c’è spazio per questo: le donne devono dimostrare di non essere inferiori, di avere dei diritti. Forse non capiscono che reagendo in questo modo non fanno altro che dimostrare di avere paura. Un dubbio ora non è accettabile. Dobbiamo essere spietate, anche con noi stesse. Anche a costo di rinunciare ad essere psicologhe“.

A lei, naturalmente, va il mio ringraziamento perché ha ragionato con me, senza invettive e senza rabbia.

IL VIDEOGIOCO DEI TITOLI DI GIORNALE

Senza andare troppo indietro nel tempo, sempre dagli Stati Uniti. 2 novembre 2017, sparatoria in un supermercato a Denver: tre morti. 18 febbraio 2018, sparatoria in una scuola in Florida: 17 morti e 14 feriti. 20 marzo 2018, sparatoria in una scuola in Maryland: 1 morto e due feriti. 3 luglio 2018, sparatoria in una scuola elementare a Kansas City: 2 feriti. 26 agosto 2018, sparatoria in un centro commerciale: 4 morti e 11 feriti. In questo caso l’articolo cita espressamente cosa stava accadendo durante la sparatoria, ovvero un torneo di videogiochi. Bingo!

Esiste una tendenza scorretta da parte di buona parte del giornalismo italiano a proporre al pubblico  – implicitamente o esplicitamente –  la presunta relazione tra videogiochi e violenza, secondo lo stereotipo più consolidato, come evidenzia il titolo dell’Huffington Post che, se fosse stato scritto correttamente, sarebbe diventato: “Sparatoria in Florida in un centro commerciale”.

Appare evidente che la causa di queste sparatorie è innegabilmente la facilità di reperimento delle armi, non la frustrazione: il mondo è pieno di gente che viene frustrata dai fallimenti e non ci risulta questa ondata di omicidi. Parimenti, se fosse la frustrazione per partite e tornei di videogiochi a generare la violenza omicida, avremmo milioni di omicidi ogni giorno. Infine, viste le notizie proposte, potremmo pensare anche che, dato che molte sparatorie avvengono nelle scuole e nei centri commerciali, siano proprio questi ad essere la causa scatenante dei comportamenti omicidi. Ma siamo seri!

Il problema (negli Stati Uniti) è la presenza delle armi e una cultura da Far West che giustifica e incoraggia il possesso e l’uso delle armi. In Italia, invece, il problema è la scarsa qualità di certo giornalismo che insegue la paura del pubblico, che soffia sul fuoco consolidando gli stereotipi che finge di condannare.

Ma il problema sono i videogiochi.

LO PSICOLOGO SENZA DISSENSO

Due episodi recenti, strettamente collegati, mi hanno fatto sorgere il dubbio che i social stiano sfuggendo di mano agli psicologi. Protagoniste sono due psicoterapeute. Ve li racconto.

Il tutto nasce da un articolo dal titolo: “La Spagna introduce legge sul consenso esplicito: se l’altro non dice “si” è stupro”. La prima psicoterapeuta posta sulla propria bacheca Facebook (n.b. aperta ai commenti) l’articolo ed io, perplesso, commento con un semplice “bah”. Mi arriva via messaggio la richiesta della collega di rimuovere il mio commento. L’ho invitata a farlo lei, cosa regolarmente avvenuta. La seconda psicoterapeuta, invece, a commento delle probabili reazioni che qualcuno deve aver manifestato alla notizia, così commenta; “Mi spiace, dolci e amati maschioni, che la legge spagnola sullo stupro non vi garbi. Sapete, secoli e secoli di abusi, stupri, discriminazioni e violenze ci hanno costrette a tralasciare quelle sfumature di romanticismo che tanto rimpiangete e a cui siete notoriamente interessati. D’altronde sono sicura che, come riuscite a tenere il pisello alzato in situazioni francamente improponibili a livello di eccitazione sessuale, ce la farete anche questa volta. Forza guerrieri, vi sono vicina [NdR. aggiunge un emoticon-cuore] “.

Pur intuendo la delicatezza dell’argomento e comprendendo la reattività che l’argomento può innescare, ribadendo che reputo stupidi gli uomini che aggrediscono le donne, mi ha lasciato molto perplesso il comportamento di queste due colleghe. La prima considerazione è che stare sui social, anche e titolo personale, non fa smettere di essere uno psicologo. A maggior ragione se si usano abitualmente i social per il proprio marketing on line, attraverso siti, pagine Facebook o account su Twitter o Instagram. Ritengo (sarò all’antica) che uno dei primi compiti etici di uno psicologo sia l’inclusione. Uno psicologo che non tollera il dissenso, soprattutto se manifestato in termini civili e educati, come nel primo caso, è probabile che non appaia come qualcuno in grado di comprendere. Poi, come nel secondo caso, la militanza di genere, quella del “noi nel giusto, voi nel male”, crea antagonismi che mirano deliberatamente a escludere, a dividere, perdendo di vista qualsiasi sfumatura o differenza nel comportamento. Inoltre, il linguaggio intriso di sfida e di scherno (con tanto di emoticon-cuore finale), mette di fronte i lettori alla consapevolezza che non può esistere dialogo (quindi collaborazione) con chi si pone in questo modo, aumentando conseguentemente la distanza con chi non aderisce fidelisticamente a quella posizione.

Questi sono solo due episodi tra i tanti che mi inducono a pensare che in molti non abbiano ancora compreso la valenza della comunicazione attraverso i social. Quando capita a dei “colleghi”, rimane un po’ di amaro in bocca perché è facile, poi, essere valutati dal pubblico come una categoria professionale non affidabile.

Naturalmente, posso sbagliare in queste mie valutazioni.

L’ESPERIENZA DELLA “KLIMT EXPERIENCE”

Qualche giorno fa sono andato ad immergermi nella “Klimt experience”, ovvero la mostra multimediale sulle opere di Gustav Klimt. Non conoscevo bene la storia dell’artista e poco conoscevo delle sue opere, soprattutto quelle rilanciate sui media. Sapevo quello che mi aspettava perché avevo già visto l’analoga mostra su Van Gogh.

Questo tipo di mostre possono essere viste comeuna sorta di portale che introduce poi i ragazzi verso i musei nella scoperta delle opere originali. Uno strumento di conoscenza al pari di un catalogo o di una trasmissione televisiva. Non bisogna insomma considerare la performance un’alternativa alle opere originali ma solo una loro amplificazione per quel tipo di pubblico ormai abituato a informarsi soprattutto attraverso immagini“. Peccato che la stragrande maggioranza del pubblico volontario (non quelli che ci sono portati di proposito, come possono esserlo le scolaresche) sia adulto, generalmente sopra i 30 anni e la cosa non meraviglia.

Le mostre come il Klimt Experience sono efficaci quando siamo predisposti all’abbandono, ovvero quando arriviamo già con l’intenzione di farci prendere dal racconto sensoriale costruito dal progettista [Nota a margine: il progettista risulta essere un certo “Stefano Fake”]. Il mix di musica e immagini, con queste ultime proiettate su pareti di grandi dimensioni, ha l’intenzione proprio di farci perdere la normale percezione di noi stessi. L’occhio non riesce a vedere tutto contemporaneamente e si è circondati sia dalle immagini in movimento, sia dalla musica. Le immagini sono delle opere di Klimt, mentre la musica è un po’ un guazzabuglio di generi di musica classica che mirano più alle risonanze emozionali che alla fedeltà storiografica. Infatti, oltre a Mahler e Wagner, contemporanei di Klimt e viventi dello stesso panorama culturale, vengono assemblate anche le note di Mozart che è vissuto un bel po’ prima.

Altro aspetto che devo notare è che, al contrario della mostra su Van Gogh, che permetteva di lasciarsi andare a terra su enormi cuscinoni, questa vedeva tutti irregimentati in sedute da polli in batteria. Il corpo non è libero di lasciarsi andare e l’affollamento della sala non aiuta l’immersività.

Per finire, è stata esilarante la scena che si è proposta nella Sala degli Specchi che nelle intenzioni del progettista doveva essere un ulteriore spazio di immersività e si è ridotto a sala-selfie, con i visitatori che scattavano le immancabili foto ricordo. Sempre a proposito di foto ricordo, è sempre stupefacente notare come ormai non siamo disposti a vivere un’esperienza semplicemente vivendola. Mentre la musica impazzava e le immagini delle opere di Klimt scorrevano, praticamente tutti stavano con i loro smartphone a riprendere e scattare foto. Sostanzialmente erano incapaci di “lasciar andare” l’esperienza per conservarla come semplice ricordo ma diventava irrinunciabile catturarne la traccia per poterla condividere ad altri e poter implicitamente affermare “io faccio, io esisto e lo mostro”.

LE MELODIE CINETICHE

Il movimento fa parte della nostra vita. E’ essenziale. Ma è anche bello. La nostra competenza nell’apprezzare il movimento ha da sempre generato il piacere di riprodurre i movimenti belli ed anche di migliorarli per renderli ancora più belli, più armonici.

Il neuropsicologo russo Alexander Lurija, nel secolo scorso, definì melodie cinetiche proprio i movimenti più complessi e fluidi che percepiamo come belli. Non a caso, Howard Gardner, docente di Scienze dell’Educazione e Psicologia all’università di Harvard, ha teorizzato l’esistenza di vari tipi di intelligenza, tra cui l’intelligenza corporeo-cinestetica, che genera il piacere di muoversi e di guardare il movimento.

Strettamente legato al movimento c’è la nostra percezione della scansione del tempo. Daniel Levitin, docente di Psicologia e Neuroscienze Comportamentali all’università di McGill (Canada)  sottolinea come “Il tempo è un fattore molto importante nell’espressione delle emozioni (…) La base neurale di questa accuratezza è probabilmente il cervelletto che, a quanto pare, contiene un “metronomo” per la nostra vita quotidiana e per sincronizzarsi sulla musica che stiamo sentendo. Ciò significa che in qualche modo il cervelletto è in grado di ricordare i “settaggi” che usa per sincronizzarsi sulla musica mentre la sentiamo e può ricordarli quando vogliamo cantare a memoria un brano“.

Il cervelletto, quindi, ci dà il tempo nei nostri movimenti e siamo talmente abituati a valutarli che li apprezziamo anche se sono senza la musica, in quell’esperienza che chiamiamo ballo. Perché, come afferma sempre Levitin, “Studi condotti da Marcelo Wanderley della McGill e da Bradley Vines hanno mostrato che gli ascoltatori non musicisti sono estremamente sensibili ai gesti fisici compiuti dai musicisti. Guardando un’esibizione musicale con il volume a zero e osservando ad esempio il braccio, la spalla e i movimenti del busto del musicista, i comuni ascoltatori riescono a cogliere una buona parte delle intenzioni espressive di chi suona“.

Il nostro cervello è ormai talmente abituato a tradurre vicendevolmente il movimento e la musica che, come confessa il pianista Giovanni Allevi, è possibile sentire e comporre la musica simulando nella mente il movimento per produrlo. Infatti, egli dice in un’intervista: “Suono tutto nella mia testa, immagino l’album intero senza mai toccare un tasto. Passo le giornate intere a farlo“.

Così ci troviamo a godere dei movimenti che facciamo quando li percepiamo come armonici nella loro complessità. E ci piace, poi, vederli.

 

Bibliografia

Lurija, A.; “Come lavora il cervello”; Il Mulino

Levitin, D.: “Fatti di musica”; Codice edizioni

Gardner, H.; “Formae mentis”; Feltrinelli

Allevi, G.: http://cinquantamila.corriere.it/storyTellerThread.php?threadId=ALLEVI+Giovanni

SCENARI PER PSICOLOGI FATTI FUORI DALLA TECNOLOGIA COGNITIVA

In un recente articolo di Giuseppe Riva (docente di Psicologia della Comunicazione all’Università Cattolica di Milano) apparso su Psicologia Contemporanea n. 267, si prospettano le future evoluzioni della tecnologia applicata alla psicologia. Il quadro che ne esce è inquietante. Se, come afferma Riva, “la prima sfida dello psicologo del futuro è quella di comprendere i cambiamento in atto, per valutare e sostenere gli individui all’interno di nuovi contesti“, viene da domandarsi quanti psicologi riusciranno effettivamente a farsi pagare. Come la tecnologia informatica sta spazzando via molti lavori  – il primo che viene in mente è l’edicolante –  è molto probabile che anche gli psicologi faranno la fine dei giornalisti, sempre più spesso sostituiti dai robot.

Gli esempi fatti da Riva sono illuminanti. La IBM ha messo a punto Watson che è un primo tentativo di creare un’intelligenza artificiale in grado di rispondere a domande non strutturate, datato 2005. Da questo progetto è stato, poi, sviluppato Personality Insight che sarebbe in grado di stilare un profilo della personalità a partire da testi scritti con sole cinquecento parole. Il problema per gli psicologi è che questo test costa dieci centesimi rispetto ai cinquanta euro che vengono chiesto per la somministrazione di un Big Five. Non è tutto.

I “Servizi cognitivi di Microsoft“, senza necessitare di alcuna competenza psicologica, sono capaci di analizzare in tempo reale testi, immagini, video ed espressioni facciali. Ancora, Woebot è un app che simula le capacità di conversazione di una persona e, destinato a monitorare gli stati emotivi, è stato efficacemente testato sulla capacità di ridurre i livelli di ansia e di depressione. Ultimo esempio di tecnologia cognitiva già pronta è SimSensei che ha realizzato un vero e proprio psicoterapeuta virtuale, capace addirittura di analizzare la comunicazione non-verbale ed è già impiegato nei colloqui preliminari con i veterani di guerra esposti al rischio di stress post-traumatico.

È facile intuire che i margini di lavoro per le schiere di aspiranti psicologi generati dalle Facoltà di Psicologia si riducono notevolmente. Cosa potranno fare per vivere senza cercarsi un altro mestiere? Forse fare un altro mestiere, ma da psicologi. La conoscenza delle dinamiche del comportamento pone le condizioni per ottime performance nel caso in cui si uniscano ad un altro sapere. Nel mio piccolo ho unito le mie conoscenze psicologiche al mondo degli audiovisivi, come anche a quello dell’informazione. È possibile fare il regista, il videomaker, l’autore o il giornalista rimanendo psicologi. La costruzione della nostra identità come psicologi forse deve adeguarsi ai tempi. Questa evoluzione professionale, probabilmente, potrebbe essere una delle soluzioni alla sfida dei robot-psicologi.

SE QUESTA E’ INFORMAZIONE

Una delle accuse più frequenti che vengono mosse ai giornalisti è che i loro articoli, i loro servizi in video, le loro inchieste, siano fuorvianti perché frutto di schemi stereotipati, di pregiudizi e che, quindi, non consentono alle persone di comprendere realmente un fenomeno. Tutti si auspicano che essi riprendano un livello di correttezza e deontologia adeguata alla funzione sociale che svolgono. Si potrebbe anche ipotizzare  – come faccio nel mio libro –  che gli psicologi possano contribuire all’innalzamento degli standard informativi della nostra società. Poi accade qualcosa che palesa quanta strada vi sia ancora da percorrere.

Nell’ultimo numero della rivista Psicologia Contemporanea (n. 265)  – rivista benemerita e in corso di rinnovazione da parte del nuovo direttore –  la psicologa dello sviluppo Silvia Bonino scrive un articolo dal titolo “Relazioni disumane: il sesso con i robot“. Faccio un salto. Che coincidenza, proprio qualche settimana prima avevo scritto proprio su questo blog un articolo sullo stesso argomento. Mi lancio nella lettura e, via via che leggo, aumenta la mia perplessità. Vi spiego.

L’analisi della Bonino viene aperta da una sintesi (catenaccio) che recita: “Il diffondersi di bambole e robot con cui fare sesso rappresenta la deriva di un erotismo dove il ‘partner’ è visto come oggetto di un soddisfacimento meccanico anziché come un universo autonomo con il quale interagire“. Accidenti, è una sentenza. I titolisti avranno esagerato come al solito. Proseguo e scopro un’altra affermazione che avrebbe meritato la citazione della fonte: “Già oggi, nel mondo, alcune aziende li producono a costo elevato e per un mercato esclusivo, in alcuni casi di pedofilia“. Affermazione enorme. Un’accusa pesante. Proseguo nella lettura.

Successivamente, memore delle tante riflessioni di specialisti di cibernetica , oltre che di scrittori di fantascienza, sull’umanità possibile da parte di un un “robot”, appare un po’ semplicistica l’affermazione: “L’amore, l’affetto, la cura, l’altruismo, la cooperazione sono l’espressione quotidiana di questa socialità“. A parte il concetto di amore che, semanticamente, contiene molti significati in virtù del punto di osservazione, siamo realmente sicuri che un androide non potrà essere in grado di assolvere a quelle necessità? Il dubbio rimane.

Nella delineazione filogenetica del comportamento sessuale, leggo ancora: “Negli esseri umani il sesso si è congiunto all’affetto in una relazione emotiva e sentimentale paritaria; si è così sviluppato l’amore sessuale, in cui la sessualità non serve più solo alla riproduzione ma al mantenimenti del legame“. Dobbiamo, quindi, escludere che il sesso senza una profonda relazione d’amore sia soddisfacente? Per Silvia Bonino sembra di si perché, poco dopo, scrive: “I sex robot realizzano un preciso e univoco richiamo alla sessualità rettiliana, vale a dire a una sessualità del tutto disgiunta da qualsiasi rapporto emotivo affettivo (…) Si tratta di una sessualità preumana e disumana, antecedente alla comparsa degli affetti, in cui non si interagisce con una persona reale, ma soddisfa solo una pulsione primaria secondo una modalità del tutto autocentrate. È quanto già accade con  la prostituzione“. Ancora un’affermazione che non aiuta a capire un fenomeno che esiste da millenni. Possiamo liquidare il fenomeno della prostituzione così?

Con i robot, invece, si realizza una sessualità che è intrinsecamente di dominio e sopraffazione, poiché l’altro è oggetto completamente programmato per soddisfare i desideri dell’acquirente. In questo modo [con]  l’utilizzo dei robot si disabitua a interagire con un essere umano” continua il professore onorario di Torino. Qualcosa non torna. Se accettiamo la definizione di dominio come “avere un potere incontrastato su qualcuno” o come “tenere qualcuno sotto il proprio controllo, potere, autorità” come recita uno dei dizionari della lingua italiana ci rendiamo facilmente conto che un robot non può essere dominato in senso umano proprio perché un automa (non voglio arrivare a dire come un televisore). Tanto meno un androide può essere sopraffatto  ovvero “oggetto di una prepotenza, soperchieria o sopruso“. Infine, vista la similitudine postulata poche righe prima tra sesso con robot e prostituzione, viene da pensare che la disabituazione all’empatia, che dovrebbe essere indotta, si compia anche con le prostitute, nonostante la vasta letteratura sulle passioni e le storie d’amore tra uomini e prostitute .

Tirando le somme, ho avuto la sensazione che questa apparente analisi si riducesse ad una serie di affermazioni, poco argomentate e sostanzialmente fuorvianti. Un’analisi che lascia più dubbi che chiarezze. Perciò mi chiedo: questa è informazione? No, ovviamente no. È una dotta opinione che avrebbe meritato anche un contraddittorio ma  – si sa –  certi argomenti sono scivolosi più di una saponetta bagnata. Peccato che sia stata pubblicata da una rivista di psicologia destinata al grande pubblico. Avrebbe aiutato capire. Dovremmo fare meglio, molto meglio.

 

L’INFORMAZIONE CHE VERRÁ

Si moltiplicano gli articoli che lanciano l’allarme sulle sempre più frequenti manovre per mettere il bavaglio alla rete, dalla sua accessibilità ai contenuti stessi. È comprensibile che la libera circolazione di informazioni sul web preoccupi molto chi ha necessità di “gestire” il consenso o chi vuole semplicemente governare senza dover dare conto all’Opinione Pubblica. Negli Stati Uniti il Presidente Trump ha dato il via libera alla rete a due velocità  e ciò non stupisce perché si sa che – da sempre – chi ha più risorse può arrivare più facilmente alle informazioni, soprattutto nella logica della notizia-merce.

Ma i tentativi di normalizzazione del web vengono anche fatti indirettamente, come potrebbero suggerire i decreti legge che vengono approvati  – ufficialmente deputati alla tutela della privacy –  che mettono in allarme addirittura istituzioni come Wikipedia . Oppure si tenta di delegittimare l’intero mondo dell’informazione lanciando allarmi sulla pervasività della fake news, al punto che addirittura la Polizia di Stato ha ritenuto opportuno aprire un form con la possibilità di denuncia on line . Per chiudere con gli esempi possiamo, infine, segnalare l’ultima notizia in ordine di tempo che ci mostra che l’informazione sta diventando una maionese impazzita: la società Facebook ha deciso che saranno gli utenti stessi a decretare l’affidabilità di una notizia . Questo clima di incertezza sulla veridicità delle notizie che ci giungono dai media sta generando anche degli specifici lavori come il fact checker, il verificatore di fatti. Da tutto questo quali considerazioni si posso trarre?

Il web si è caratterizzato, in questa tumultuosa fase iniziale, nella sostanziale mancanza di regole. Essendo una situazione mai sperimentata prima, la libertà di espressione che il mezzo ha donato a tutti (mettendo tutti più o meno allo stesso livello) ha suscitato stati di ebbrezza espressiva. Inevitabile che tutto il mondo del web cominciasse ad essere plasmato, limato, limitato. Inevitabile anche che questa situazione potesse essere sfruttata da schiere di malintenzionati, siano essi dei professionisti della propaganda, analfabeti funzionali o disinformati in buonafede. Una tendenza che potrà accentuarsi ancora di più in futuro, riducendo gli sconfinati spazi di libertà e la libera circolazione delle idee.

Cosa fare di fronte a questa prospettiva? Una prima ipotesi ha come requisito il mantenimento della comunicazione digitale ad un livello dignitoso, senza eccessivi interventi sulla rete stessa in termini di connettività (come invece fanno paesi come l’Iran, la Turchia o la Cina). L’informazione mainstream difficilmente potrà tornare ad avere l’influenza sull’opinione pubblica che ha avuto nel corso del Novecento. È probabile un ritorno della newsletter come strumento di diffusione di informazioni pregiate, lasciando alle junknews siti web pagine social. La seconda ipotesi è che lo strumento digitale diventerà assolutamente inaffidabile, soprattutto per la facilità di tracciamento che renderanno facile una qualsiasi cancellazione-repressione delle informazioni scomode. Non rimarrà, a questo punto, che un ritorno alla carta. Sempre che, quando ci troveremo in questa condizione, ci sarà carta disponibile.

Fantascienza dell’informazione, forse. Una visione pessimistica, forse. Forse.

psicologia, audiovisivi e vita delle persone