La paura. Un’emozione che, assieme al dolore, sono tra le fondamentali reazioni per la sopravvivenza degli esseri umani. Scappare perché si ha paura può essere la salvezza. Ma anche immobilizzarsi perché si ha paura può esserlo.
Il ricordo di un dolore o la prospettiva di un dolore è ciò che ci incute paura davanti a una minaccia e, quando ci sentiamo minacciati, abbiamo due forti reazioni: fuggire o aggredire, magari urlando. Proprio urlando perché – si sa – urlare infonde coraggio, ma anche perché urlare può spaventare chi ci aggredisce. Magari questi si ferma proprio perché ci sente urlare.
Però c’è un problema. Se si comincia ad avere paura di sentirsi minacciati (previsione di dolore) possiamo vivere in uno stato di paura inconsapevole, di ansia. Il rischio, permanendo in questo stato di attesa della minaccia, è di cominciare a diventare aggressivi nei confronti di qualsiasi comportamento ci possa apparire come una minaccia potenziale. Si diventa aggressivi (e urlanti) a prescindere dalle situazioni, anche se non c’è nulla che effettivamente ci minacci.
In questo stato di permanente e inconscia attesa della minaccia – inconsapevolmente terrorizzati – possiamo cadere in errore e scambiare il dissenso di altri con una minaccia, per cui possiamo essere indotti ad aggredire preventivamente, magari ricorrendo ad un urlo: ad un urlo di guerra.
Cosa può accadere se diventiamo aggressivi in assenza di una minaccia? Può accadere, tra le varie cose, che le persone intorno a noi potrebbero non capire perché li aggrediamo e diventare diffidenti nei nostri confronti. Ma noi, notando questo cambio di atteggiamento nei nostri confronti, potremmo viverlo anche come qualcosa di minaccioso, per cui potremmo aumentare l’aggressività, per intensità e frequenza. Lungo questa escalation, ci troveremo ad avere intorno solo persone che, sottomesse, non osano contraddirci. Così non avremo più modo di notare l’incongruenza del comportamento e ci sentiremo sempre nel giusto. Soprattutto, non capiremo più perché delle altre persone cominciano ad aggredirci (perché non ne comprendiamo il motivo). Ma un’altro effetto collaterale è che coloro che ci sono ostili avranno meno remore a trattarci male.
A questo ragionamento è possibile fare tre postille. La prima è che se si vive una condizione di paura generalizzata, se si vive il proprio ambiente come minaccioso, abbiamo un’alternativa al comportamento aggressivo ovvero stringere alleanze.
La seconda è che avere qualcuno con cui condividere la sensazione di paura permette di lenire questa sensazione e, soprattutto, di verificare se possano esserci reazioni diverse nella stessa situazione che stiamo vivendo e che ci terrorizza.
La terza è che quando ci troviamo in un confronto/trattativa può essere determinante trovare dei canali di dialogo con parti dello schieramento antagonista perché l’empatia con le altre persone aiuta. Si può trovare un punto comune da cui ognuno può vivere la propria peculiare condizione senza perdere identità e dignità. In questo modo diventa possibile trovare una soluzione ad un problema dell’altra parte pur mantenendo il proprio punto di vista. I termini collaborazione e compromesso sono gli effetti di questo atteggiamento alternativo al binomio paura/contrapposizione.
Questo mio ragionamento “teorico” ha avuto, naturalmente, una genesi dovuta ad un fatto reale che mi è accaduto. Proverò a raccontarlo in modo sintetico.
Ho scritto tempo fa un articolo sul tema della comunicazione che alcuni psicologi fanno sui social, citando due episodi a me capitati. Il terreno su cui interveniva l’articolo era una proposta di legge in Spagna sul perseguimento penale degli stupratori. A questo articolo sono seguite delle “alzate di scudi” che non vertevano sull’argomento dell’articolo ma sulla dinamica uomo-donna in riferimento alle violenze sessuali. È stata talmente forte l’incoerenza delle contestazioni che ho cominciato a chiedermi il perché di tanta veemenza. Ho chiesto a molte donne di leggere quell’articolo e, alla fine, una è riuscita a darmi la chiave di lettura che mi ha permesso di capire. Infatti, mi ha scritto: “molte donne pensano di essere in uno stato di guerra, di dover combattere una battaglia – me compresa – perché questo è il momento di combattere e cambiare le cose. Questa convinzione ci induce, anzi ci obbliga in un certo senso, a non ammettere né giustificare nessun tipo di commento che vada contro quello per cui stiamo combattendo (…) l’appartenenza di genere è risultata più saliente rispetto a quella di psicologa (…) In un momento così delicato ogni cosa diventa una minaccia, anche quando proviene dagli amici. Ci sarà un tempo per le sfumature, per ridimensionare le reazioni, per ascoltare e parlare, ma ora no, non c’è spazio per questo: le donne devono dimostrare di non essere inferiori, di avere dei diritti. Forse non capiscono che reagendo in questo modo non fanno altro che dimostrare di avere paura. Un dubbio ora non è accettabile. Dobbiamo essere spietate, anche con noi stesse. Anche a costo di rinunciare ad essere psicologhe“.
A lei, naturalmente, va il mio ringraziamento perché ha ragionato con me, senza invettive e senza rabbia.