NOMADISMO E VILLAGGIO GLOBALE

NOMADISMO E VILLAGGIO GLOBALE

Questa riflessione parte da un dubbio: è possibile oggi, in un mondo globalizzato, condurre una vita nomade? La domanda contiene un po’ di assunti su cui è meglio ragionare.
Negli ultimi dieci anni si è diffuso il concetto di “villaggio globale”, ovvero la considerazione che lo sviluppo tecnologico ha reso possibile le comunicazioni da un punto qualsiasi del globo ad un altro. Ma non sono solo le comunicazioni intese come trasmissioni di informazioni (computer, telefono, satellite, internet) ad essere state ingigantite, anche gli spostamenti sono diventati possibili praticamente per tutti, dai jet privati ai gommini nel canale di Sicilia. Il Villaggio Globale è un dato di fatto, una constatazione.
Veniamo al secondo aspetto dell’affermazione iniziale, ovvero il nomadismo. Nel corso dell’evoluzione, tanto gli animali, quanto gli esseri umani, gli spostamenti dei gruppi o delle popolazioni avveniva sempre nella necessità di seguire il cibo. Ma spostarsi, come fanno le popolazioni nomadi, comporta i suoi rischi: perdite nella popolazione stessa, problemi lungo i percorsi, mancanza di certezze sull’effettiva presenza di risorse nei luoghi di approdo. Per queste ragioni gli uomini hanno trovato più conveniente lottare per la stanzialità, risolvendo alcuni problemi e trovandone di nuovi.
Quando pronunciamo la parola “nomadi” si materializza nella nostra mente l’immagine degli zingari, rom o sinti che siano, con i loro campi precari e sempre al centro di polemiche e rancori. Però, non sono loro l’oggetto di questa riflessione. Interessa di più il comportamento a monte del nomadismo, ovvero la mancanza di un luogo a cui “appartenere”. A volte si può essere costretti a lasciare il posto dove si è cresciuti ma, anche migrando da un paese all’altro, da una città all’altra, si mantiene quel legame affettivo col luogo da cui proveniamo. Il nomadismo è esattamente il contrario: non si appartiene più a nessun luogo ed in nessun luogo si desidera rimanere più del necessario. Volendo misurare questo concetto con i cosiddetti “campi nomadi”, questi ne sono l’esatta negazione. I campi nomadi sono composti da persone ormai stanziali che migrano solo se minacciati, né più né meno dei profughi di guerra o degli esuli dalle dittature.
Esistono, allora, nel villaggio globale dei veri nomadi?
Se il nomade lo si definisce come colui che rimane nei luoghi fin quando vi trova vantaggio e piacere, allora viene da pensare che i nomadi di questi ultimi trenta anni siano tutti quelli che si spostano inseguendo una carriera, un ingaggio, una promozione. Manager della finanza e dell’industria multinazionale, calciatori, tecnici superspecializzati. Una popolazione che vive negli alberghi, nelle case ammobiliate, in treni ed aerei.
Io ne ho conosciuto qualcuno.

DARE L’ESEMPIO

DARE L'ESEMPIO

Mi perdonino i tifosi romanisti, ma l’episodio è esemplare. Nella partita Cagliar-Roma del 6 aprile il giocatore della Roma, Mattia Destro, rifila un cazzotto ad un avversario durante una fase di gioco. L’arbitro non se ne avvede e sanziona con un’ammonizione il giocatore del Cagliari che accenna una reazione, mentre il giocatore della Roma stramazza a terra fingendo di essere stato lui a ricevere il fallo. Malauguratamente per il giocatore della Roma, le telecamere registrano l’episodio e la sua azione si distingue perfettamente. La cosiddetta “prova tv” viene usata dal giudice sportivo per condannare il giocatore, reo del pugno, a quattro giornate di squalifica. Fin qui è la cronaca.
L’esempio di cui accenno nel titolo è il ricorso che la società Roma fa contro la condanna. L’azione violenta del giocatore è incontestabile e nota ormai a tutti. Ricorrendo in appello, invece di fare pubblica ammenda condannando il comportamento del proprio giocatore, la società afferma implicitamente che è dalla parte di chi si comporta in modo violento. La deriva sociale si coglie anche in episodi come questo.

INSEGNARE NON E’ GIUDICARE

INSEGNARE NON E' GIUDICARE

Il sistema formativo di una nazione corrisponde al grado di civiltà raggiunto da questa. Non solo. I sistemi di valutazione dovrebbero servire agli insegnanti per capire dove stanno sbagliando, non dove sbagliano gli allievi. Affronterò ancora l’argomento in futuro. Un tema fondamentale per la crescita di qualsiasi comunità.

L’UTENSILE FACEBOOK

Sono milioni gli adulti che vivono e sperimentano attraverso Facebook. Nascono nuove amicizie o nuove relazioni, come anche muoiono matrimoni e si appassiscono conoscenze. Tutto avviene con scioltezza: anzi, con entusiasmo. Poi si accorgono che lo stesso mondo “free” lo stanno vivendo i propri figli e allora cominciano le preoccupazioni. Alcuni cercano una sponda con i media che, nella loro ricerca delle corde emotive della paura, soffiano sul fuoco. Casi di cronaca vengono sbattuti su articoli e servizi in tv raccontando di prostituzione, bullismo, cyberbullismo, omologazione e cose simili. Ma, in realtà, cosa accade quando i ragazzi – soprattutto adolescenti – cominciano ad interagire attraverso Facebook?

Serge Tisseron, psichiatra e psicoanalista all’Università Paris VII Denis Diderot, prova a fare un’analisi del fenomeno [Psicologia Contemporanea n. 242]. Tisseron analizza alcuni luoghi comuni rispetto a Facebook. Il primo è che “per i giovani Facebook sostituisce il mondo reale“: in realtà è più una specie di ricreazione in cui essi prolungano il cazzeggio che già fanno quando stanno assieme. Il secondo è che “espongono la propria intimità senza riflettere” che, dice Tisseron, talvolta è vero ma che i social network sono fatti apposta per mettersi in evidenza (ed i genitori lo sanno bene). Naturalmente, i più tentati ad esibire la propria intimità sono i ragazzi deboli, con una scarsa autostima. Altro luogo comune è che “chi usa i social network ha meno rapporti col mondo reale“, in una sorta di ritiro dalla realtà. Pare che sia vero il contrario: le reti virtuali non solo non isolano gli utenti dal loro ambiente immediato ma, semmai, rinforzano i contatti esistenti nel mondo fisico e permettono di stabilirne di nuovi. Ancora, “i rapporti in rete sono meno autentici che nella vita reale” ma sembra che neanche questo sia verificabile perché, pur ribadendo la maggiore ricchezza della comunicazione faccia-a-faccia, la perdita di certe inibizioni, tipiche della vita sociale, favorisce la sincerità in rete, insieme al fatto di incontrare interlocutori che condividono interessi importanti, ai quali ci si può sentire particolarmente vicini.

In conclusione, lo studioso francese nota che se è vero che i genitori devono badare che i loro ragazzi non trascorrano troppo tempo su Facebook, avrebbero torto a drammatizzare la situazione. Sbaglierebbero anche a volerli sorvegliare (…) Niente può sostituire la fiducia e una comunicazione franca.

Come sempre, di fronte a ciò che ci incute dubbi e timori, le posizioni tendono a irrigidirsi tra apocalittici e integrati. Ma, alla fine, Facebook, come Youtube o WhatsApp, sono sono degli strumenti, degli utensili: è la mente di chi li usa che ne determina la pericolosità. Quindi, più che partire con controlli serrati ed asfissianti che generano le fughe dei propri figli, bisognerebbe puntare ad un rapporto di fiducia sincera con i ragazzi. L’autorevolezza richiede tempo ed onestà e i ragazzi lo sanno.

COSTRETTI AL GIORNALISMO FAI-DA-TE

E’ evidente come la tendenza a presentare l’informazione come merce accattivante, espediente strategico in grado di attrarre l’attenzione di un’audience distratta, ampliando allo stesso tempo la platea dei destinatari di messaggi pubblicitari, tenda a modificare profondamente l’ideologia e le pratiche del giornalismo, il suo ruolo sociale, l’etica e la deontologia, fino ad incidere sullo stesso statuto delle notizie” [Andrea Cerase in “Neogiornalismo”, a cura di Mario Morcellini].

L’informazione e il giornalismo sono uno di quegli ambiti della società occidentale che costituiscono, al tempo stesso, pilastro ed effetto della società stessa. La nostra “infosfera” rimane quello spazio in cui noi possiamo attingere le informazioni che possono esserci utili per vivere e migliorare. Un’infosfera che, con l’arrivo delle ultime tecnologie, si è improvvisamente velocizzata, ingigantita e sfilacciata. Siamo bombardati da informazioni e questa abbondanza non ci rende più informati, bensì più incerti sull’attendibilità di tutte queste informazioni. I giornali tradizionali, soprattutto in Italia, sono diffusamente reputati poco affidabili perché storicamente troppo contigui o dipendenti dal Potere. Ecco che le informazioni smettono di essere mattoni per la conoscenza e vengono riconvertite in “merce“. Il passo è breve e, se la notizia è diventata merce, il giornalista diventa venditore.

A causa di tutto ciò, diventa sempre più difficile pensare alla abnorme categoria dei giornalisti come dei tenaci ed affidabili esploratori della realtà e dei difensori delle persone.. Quindi, le persone tendono a fare da sole, a costruirsi da soli la propria infosfera o, almeno, a selezionarla autonomamente.

I COMPLIMENTI DI CHI COMANDA

Nel n. 239 di Psicologia Contemporanea leggo il sintetico articolo sugli “effetti collaterali” dei complimenti sul luogo di lavoro. Se da un lato l’apprezzamento di un datore di lavoro verso i dipendenti può essere un ottimo sostegno alle motivazioni, dall’altro possono essere fraintesi, creando effetti opposti a quelli desiderati.

“Studi recenti identificano differenti forme di esplicitazione dell’ammirazione per un lavoro svolto bene che possono tradursi in esiti indesiderati: a) complimenti manifestati con linguaggio ambiguo (…) Da ciò deriva il dubbio che il giudizio, anche senza volerlo, sia percepito come un espediente linguistico non pienamente favorevole; b) complimenti troppo frequenti per piccole cose (…) determinano una perdita del loro valore per eccesso di offerta; c) complimenti inappropriati, quando si supera il contesto professionale mettendo in risalto aspetti dello stile di vita o del modo di vestirsi o delle caratteristiche di genere (…) in questi casi si rischia facilmente di incrinare il clima delle relazioni interpersonali con il sospetto di intenzioni manipolatorie (…); d) complimenti imbarazzanti si verificano quando un manager indirizza l’apprezzamento ad una singola persona di fronte ad altri membri di un gruppo di lavoro (…) la stessa persona che riceve l’elogio prova l’imbarazzante sensazione di doversi giustificare per uno stile comunicativo a rischio di favoritismi; e) complimenti grossolani e sgraziati (…) possono sortire effetti indesiderati facendo pensare che il complimento non sia genuino, non si basi sulla reale conoscenza dei risultati (…); f) complimenti da piazzista (…) assai frequenti nei rituali collettivi che grandi organizzazioni multinazionali promuovono per cercare di riconoscere il valore del loro personale (…) In questi casi, l’ammirazione per i risultati ottenuti non è certo personalizzata e spesso assomiglia a forme di adulazione tipiche dei venditori porta a porta”.

La tassonomica categorizzazione fatta in questo articolo segnala solo un fenomeno più ampio, ovvero la capacità di stabilire socialmente un valore delle persone. Facciamo alcune puntualizzazioni. Innanzitutto bisogna considerare che sui luoghi di lavoro la stragrande maggioranza dei “capi” sono uomini, per cui non possiamo escludere che esistano delle differenze stilistiche nel fare i complimenti. Inoltre, bisogna considerare che il confine tra riconoscimento del valore e tentativo di seduzione (entrambi possibili nel complimento) sono molto sfumati. Infine, i complimenti (intesi come manifestazione di riconoscimento del valore) sono uno dei mattoni delle strategie persuasive.

La comunicazione tra le persone è un fenomeno molto sofisticato e ci permette di comprendere tanto ciò che viene detto, quanto ciò che è implicito. Maggiore è la maturità della personalità e maggiore la capacità di comprensione della comunicazione. Direi che, volendo trovare una chiosa, se vogliamo dare riconoscimento ad una persona sarebbe preferibile farlo da uno all’altro e riservare i riconoscimenti sociali al territorio delle azioni formali e ritualizzate. Quindi, se sei bravo te lo dico in privato e se lo devono sapere gli altri lo faccio pubblicamente con una bella medaglia al petto.

L’aggressione dello scherzo e la creatività del gioco

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Bisogna stare agli scherzi, recita un vecchio adagio. Lo scherzo, però, è un’aggressione ritualizzata (entro regole condivise), anche se accettata socialmente. Comunque rimane un’aggressione. Il gioco, invece, manca dell’aggressività: si partecipa tutti al gioco (mentre lo scherzo viene subìto) ed è un’attività che vive di creatività. Parimenti, possiamo fare la stessa distinzione tra satira ed umorismo.

Ecco che, quando un regista che ha appena vinto l’Oscar è oggetto di uno scherzo come quello descritto da Michele Serra, possiamo supporre che sia stato uno scherzo dettato dall’invidia: aggressivo, appunto.

La realtà e gli psicologi

Nella mia attività di commento psicologico delle notizie, ovvero nella rubrica TG3 Altre Visioni, trovo sempre molta difficoltà di fronte alle notizie capaci di innescare delle valutazione stereotipate. L’uomo violento che ammazza la moglie, l’aggressione ad un gay, la rivendicazione femminista, un comportamento dettato dalla religione: in questi, e in altri campi, ci si trova a dover considerare le reazioni delle persone mosse da schemi mentali stereotipati. Quel “pensiero normale” che non consente di andare oltre l’apparenza e ci nasconde tutte le altre possibili ragioni che hanno determinato un comportamento. Forse un compito degli psicologi – visto che ne abbiamo in eccesso per poter fare tutti i “curatori del prossimo” – potrebbe essere quello di fare i mediatori con la realtà mediatica, ad uso e consumo delle persone: magari per far scoccare la prima scintilla di una capacità critica.

psicologia, audiovisivi e vita delle persone